La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 30 ottobre 2015

Calais, resistenza e precarietà

di Caoimhe Butterly
Come si passano le dune di sabbia che, cosparse di vegetazione e rifiuti, servono da residenza precaria a oltre 5.000 uomini, donne e bambini, si trovano cartelli di compensato e cartone che accolgono i visitatori nella “giungla” e che chiedono giustizia, libertà e un rifugio sicuro per i suoi abitanti.
Le fragili tende multicolore e i rifugi preparati con teloni e incerate sono raggruppati in vari accampamenti alla periferia di Calais, e cercano di ricreare un senso di casa e di relativa normalità. Alcuni dei teloni sono decorati con disegni e simboli, ricordi di luoghi e persone che si sono lasciati alle spalle. Sono dichiarazioni di speranza, simboli di perdita e di lotta: “Il Darfur sanguina”, “libertà, non barriere”, “questi confini uccidono”, “nero non è un crimine. Orgoglioso di essere nero” e “noi siamo i siamo sopravvissuti”.
I richiedenti asilo che la sera prima hanno tentato di lasciare la città portuale francese e attraversare il canale in Inghilterra, fanno lentamente ritorno al campo a piedi, esausti e chiacchierando tranquillamente mentre sorpassano i fuochi del campo accesi da coloro che sono già svegli. Condividono le notizie e gli aggiornamenti su quelli che sono riusciti ad attraversare, e sui molti che, invece, non ce l’hanno fatta. Alcuni di coloro che cercano calore intorno ai fuochi usano stampelle o altri sostegni “fai-da-te” per le gambe, necessari a causa delle fratture multiple riportate in seguito ai tentativi di saltare su camion o treni ad alta velocità. Prima di ritentare infatti devono guarire. Altri hanno gli occhi gonfi per l’esposizione continuata a lacrimogeni e gas al pepe, gli arti lividi e le costole fratturate a causa delle violenze subite dalla polizia.
Nonostante l’ambiente disperato, i residenti, che vengono da Eritrea, Etiopia, Sudan, Afghanistan, Siria, Somalia, Palestina, Iraq, Libia, Algeria, Mali e altrove, tentano di creare un senso di comunità e spazi di accoglienza. Ristoranti, un piccolo panificio, biblioteca e scuole, uno spazio per arte e musica, luoghi di culto e centri comunitari sono organizzati dagli abitanti del campo, e costruiti con gli stessi materiali dei rifugi dove dormono: legno recuperato da pallet, teli di plastica e incerate, compensato, lamiere di ferro ondulato, altri materiali di recupero o donati insieme a stoffe e coperte.
Nella chiesa ortodossa etiope, uomini e donne si riuniscono per pregare. Con una triste ma bella musica cerimoniale in sottofondo e candele e incenso che bruciano su piccoli altari, Sara, una ragazza di 22 anni che è in viaggio da oltre un anno e mezzo, racconta. “Questo é il solo posto nel campo dove riesco a rilassarmi, in cui mi sento davvero umana. Vengo qui per sfuggire al caos e al rumore esterni, per sentire speranza dentro di me”.
Sara vive con altri quattro amici provenienti da Eritrea ed Etiopia. Tutti hanno membri della propria famiglia estesa o ristretta che vivono in Inghilterra. Tutti sperano di farcela, insieme, oltre il confine “messo in sicurezza” da recinzioni, filo spinato e razzismo, elementi che segnano l’avvicinarsi della fine del loro lungo viaggio. Detenuta in Libia con altri eritrei mentre la sua famiglia era costretta a pagare più soldi per liberarla, Sara ha incontrato i suoi compagni di viaggio che erano stati torturati o violentati dai loro rapitori. “É stata la cosa peggiore”, dice. “Le donne erano così piene di vergogna, non volevano che le loro famiglie sapessero, ma era ovvio che stavano davvero soffrendo. Noi siamo vivi e siamo forti, ma siamo passati attraverso esperienze in questo viaggio che non sarà possibile dimenticare mai”.
Più tardi, nella piccola struttura in cui Sara, Awet, Mariam e i loro amici vivono, ci sediamo insieme e cuciniamo su un fornello da campeggio della injera e uno stufato di pomodoro piccante. Un migrante arrivato da poco, un ragazzo curdo da solo, si ferma e chiede se può prendere in prestito la pentola. Meron, un giovane laureato di 25 anni, gliene offre una, poi lo invita a unirsi a noi per il pasto. Il curdo esita prima di declinare timidamente l’invito. “La solidarietà è così importante qui nel campo”, riflette Meron. “Ci mantiene forti e ci dà speranza. Se non ci aiutassimo a vicenda, la nostra situazione sarebbe di molto peggiore”.
In una tenda accanto alla clinica del campo, costruita con legno compensato, Ahmed, un ingegnere e giovane lavoratore palestinese proveniente dal campo profughi di Yarmouk a Damasco, accoglie i passanti offrendo tè e ricordi. Membro di un dinamico centro sociale a Yarmouk, lui e i suoi amici hanno tentato di portare le attività che svolgevano in Siria nei campi profughi dove sono stati in Turchia. “Volevamo mantenere un senso di comunità per ricordare a noi stessi chi siamo, oltre al fatto che, di nuovo, siamo dei rifugiati”, dice, “ma la nostra esperienza, in Turchia e in Europa, è stata difficile e umiliante. Stiamo solo chiedendo di essere trattati alla pari, come degli esseri umani”.
Seduti sulle panchine fuori dalla clinica, messe a disposizione per coloro che sono in attesa di essere ricevuti, un gruppo di uomini sudanesi ed eritrei parlano di coloro che, hanno sentito dire, sono rimasti uccisi nel tentativo di attraversare lo stretto negli ultimi giorni, settimane, mesi. Un insegnante somalo fulminato da cavi elettrici mentre cercava di saltare giù da un treno in corsa; uno studente eritreo investito da un’auto mentre fuggiva dalla polizia; un musicista curdo schiacciato da un camion; un uomo sudanese, padre di tre bambini, colpito e investito da un treno; e ancora corpi non identificati restituiti dal mare, di coloro che erano abbastanza disperati per cercare di raggiungere la costa inglese a nuoto, di notte; e molti altri che si aggiungono a un crescente numero di morti, evitabili se esistessero passaggi legali e sicuri.
“Siamo in fuga da guerre e oppressione, ma ​​qui siamo trattati come criminali”, dice Mulu. “Dobbiamo anche affrontare le aggressioni della polizia e delle bande di razzisti locali, che ci attaccano se ci trovano soli”.
Khalil è un droghiere algerino la cui moglie e figlia sono rimaste a Londra, mentre lui tornava ad Algeri per il funerale di sua madre. In seguito gli è stato negato il rientro in Inghilterra e afferma: “Abbiamo il diritto di stare con le nostre famiglie e costruire la nostra vita. Guardatevi intorno: da dove viene la maggioranza delle persone che sono in questo campo? Da paesi che sono stati colonizzati o che sono stati attaccati militarmente da quegli stessi paesi che oggi ci trattano come criminali e che ci fanno rischiare la vita per raggiungere le nostre famiglie”.
Più tardi, camminiamo verso la biblioteca attraverso fango e piscine di acque di scarico con Samer, un insegnante e padre proveniente dal Sudan. Samer sta aiutando a creare una scuola per bambini e corsi di lingua per adulti, e mentre camminiamo sorpassiamo un uomo curvo e molto vecchio. Hussein ha un 74 anni, viene dall’Iran e ha un figlio che vive a Londra. Se la prende con i bagni chimici, il cui scarico non funziona, e con le tende, che lasciano chi vi sta dentro esposto alla rigidità del clima. “Il mio corpo è troppo vecchio per questo campo, troppo vecchio anche per salire su camion o treni. Ma, con la fortuna e la volontà di Dio, ce la farò”. Lo incontriamo di nuovo, mentre il sole sta tramontando, da solo, seduto su una cassa di plastica vuota. Ci fermiamo a chiacchierare e mentre ci allontaniamo ripete, “Con la fortuna e la volontà di Dio, ce la farò”.
Mentre cala la notte e comincia a piovere, ci sediamo con famiglie di afgani, siriani, iracheni e curdi in una sezione del campo dove si trovano le famiglie appena arrivate. Sedute intorno a fuochi alimentati con legno ricavato dai pallet e qualunque altro rifiuto abbastanza combustibile da bruciare, le persone tentano rimanere asciutte sotto teloni e teli di plastica. Un té dolce e caldo passa tra le mani dei presenti, e quelli che hanno portato con sé strumenti musicali, intonano canzoni e melodie di casa.
Ahmed, un fioraio di Damasco che era rimasto disoccupato nei mesi precedenti alla sua partenza, dice che “i fiori sono per le occasioni liete e noi qui abbiamo poco da festeggiare”. Ahmed siede con il figlio, Mallas, che ha 12 anni. Il padre è affettuoso con lui, che ha una disabilità intellettiva. Ahmed ha lottato per riuscire a far superare a Mallas il tratto in gommone, dalla Turchia verso l’isola greca di Samos. “Voleva alzarsi e muoversi, e abbiamo dovuto trattenerlo fisicamente perché la barca non si rovesciasse”. Ahmed ha chiesto aiuto ai compagni di viaggio lungo la strada, e spera che alla fine riceverà sostegno adeguato ovunque sia possibile chiedere asilo. “É la sola ragione per cui abbiamo lasciato la Siria. Mia moglie e mia figlia sono rimaste indietro, e resteranno in Siria fino a quando non potró chiedere il ricongiungimento familiare. Tuttavia, eravamo d’accordo che la priorità fosse essere in un luogo dove nostro figlio è supportato e rispettato come merita”.
Hozan, un curdo di 65 anni proveniente da Mosul, ci mostra cicatrici su caviglie, polsi, braccia e collo. Rapito da ISIS dopo la caduta di Mosul, Hozan è stato torturato per mesi. “Mi hanno trattato come un animale e minacciato di uccidermi. Mi hanno intimato, tutti i giorni, di preparrami alla morte. Ma in qualche modo, sono sopravvissuto”.
Jamila, incinta di nove mesi, proveniente da Dohuk nel Kurdistan, ha camminato per decine di chilometri nelle scorse settimane. “Avrei voluto aspettare la nascita del bambino, prima di mettermi in viaggio, ma non abbiamo avuto scelta”, dice.
Fatima, un insegnante di inglese proveniente da Herat in Afghanistan, é circondata dai suoi cinque figli. Il più giovane ha quattro anni; le si siede in grembo, con la testa appoggiata al suo petto. “Mi sento molto male se penso a quanto sia difficile questo viaggio per i miei figli”, dice, “ma non avevamo scelta, abbiamo dovuto lasciare Herat. Spero che si possa avere la possibilità, in futuro, di vivere in pace e sicurezza”.
Quelli che tentano la traversata stanotte, sotto la pioggia, si preparano. Avvolgono i telefoni cellulari e i documenti in buste di plastica, scrivono i loro nomi sulle braccia o su pezzi di carta così che i loro corpi possano essere identificati se feriti o uccisi, dicono addio agli amici condividendo bicchieri di tè e sperano di essere dall’altra parte in mattinata. Amadou, dal Mali, è pensieroso. Amadou è sopravvissuto al naufragio di una barca al largo di Lampedusa e alla morte per annegamento di molti di coloro che conosceva e che erano a bordo con lui. Per evitare di essere registrato in Italia o altrove lungo la strada, ha camminato per centinaia di chilometri evitando funzionari di frontiera e dell’immigrazione, è stato sfruttato e derubato dei pochi soldi rimasti. Bloccato a Calais negli ultimi mesi, ha fatto affidamento sul limitato, anche se devoto, sostegno delle organizzazioni locali composte attivisti e gruppi di volontariato.
“Nonostante tutto”, Amadou dice, “ho mantenuto la mia dignità. E la speranza di una nuova vita, che è molto forte. Sono venuto fin qui e devo continuare”. Lui e centinaia di altri camminano nella notte verso un futuro incerto e precario.

Caoimhe Butterly è una attivista residente a Dublino. Nel mese di ottobre, ha viaggiato a Calais con l’Ireland-Calais Refugee Solidarity, portando sostengo logistico e aiuti materiali ai migranti bloccati nella città portuale. Questa era la sua testimonianza.

Fonte: Effimera.org 
Traduzione di Paola Rivetti
Articolo originariamente pubblicato, in inglese, da Global Voices

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