La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 31 ottobre 2015

L’economia alla conquista della giustizia

di Alessandro Somma 
Il tema dei rapporti tra giustizia ed economia è più che mai al centro del confronto mai sereno tra politica e magistratura. È del resto un cavallo di battaglia dell’attuale inquilino di Palazzo Chigi, che fin dall’inizio ha lasciato intendere la sua posizione sul punto: illustrando il programma di governo di fronte al Senato, ha stigmatizzato il controllo esercitato dai giudici amministrativi come un ostacolo alla crescita economica. E da allora si è assistito a un crescendo, sino alle recenti polemiche sulle sentenze della Corte costituzionale, rea di trascurare le conseguenze economiche riconducibili alle sue decisioni. 
Non è dunque un caso se il Congresso dell’Associazione nazionale magistrati, appena tenutosi a Bari, ha dedicato ampio spazio proprio al rapporto tra giustizia ed economia, innanzi tutto per riportarlo entro i binari che dovrebbero essergli propri: quelli dello Stato di diritto, nel cui ambito l’azione dei pubblici poteri è retta dal principio di legalità.
Se infatti l’ordine economico ha carattere artificiale, essendo frutto di scelte squisitamente politiche e non certo la proiezione di disegni ultraterreni, esso è governato da principi e regole il cui rispetto può e deve essere sottoposto al controllo della magistratura. Se così non fosse, se cioè il diritto fosse subordinato all’economia, ci troveremmo nel campo della tecnocrazia, ovvero di un’antipolitica particolarmente insidiosa[1]
E’ opportuno ribadire il senso del controllo sulle attività economiche soprattutto quando si tratta di verificare se il loro esercizio sacrifica valori come la tutela del lavoro, della salute o dell’ambiente: valori concernenti l’attuazione di diritti sociali, posti a presidio del pieno ed effettivo sviluppo della persona. Ebbene, proprio pensando ai diritti sociali è esplosa la polemica sui costi delle decisioni della Corte costituzionale, prima fra tutte quella che ha bocciato il blocco della rivalutazione delle pensioni aventi un valore superiore a tre volte il minimo[2]
Si potrebbe liquidare la polemica, come è stato fatto nel corso del Congresso dell’Associazione nazionale magistrati, osservando che il costo dei diritti sociali non può certo motivare una loro compressione, oltremodo odiosa se invocata in tempi di crisi, quando si allarga la cerchia dei bisognosi di sicurezza sociale. Si potrebbe poi sostenere che, se da un lato la Costituzione impone ora di assicurare l’equilibrio tra entrate e uscite del bilancio statale (art. 81), dall’altro spetta al legislatore realizzare questo obiettivo: se la tutela di un diritto fondamentale comporta costi, il Parlamento deve intervenire per coprirli con nuove entrate o con minori uscite (magari rinunciando a qualche grande opera inutile o all’acquisto dei famigerati F35). 
Ma è su un altro terreno che può essere smontato il tentativo di subordinare la giustizia all’economia: quello relativo alla falsa rappresentazione dei diritti sociali come diritti costosi, in ciò diversi dai diritti civili, la cui attuazione non sarebbe invece onerosa. 
La rappresentazione può forse funzionare per l’epoca in cui i diritti civili per antonomasia erano il diritto di proprietà e il diritto alla libertà personale, e questi venivano minacciati soprattutto dai pubblici poteri. In tal caso la loro garanzia non comporta effettivamente un costo, giacché si realizza nel momento in cui i pubblici poteri semplicemente si astengono dall’invadere la sfera personale: il diritto di proprietà e il diritto alla libertà sono tutelati se lo Stato non procede a espropriazioni o arresti indiscriminati. Peraltro, anche all’epoca cui facciamo riferimento, la proprietà e la libertà ben potevano essere minacciate da poteri privati, con il che la loro difesa presupponeva costi elevati: quelli per mantenere un apparato di polizia idoneo a prevenire e reprimere illeciti, e un sistema di tribunali destinato a sanzionare gli autori di illeciti, civili oltre che penali. E se questo vale per la fase storica in cui erano i pubblici poteri la principale insidia per la vita e i beni delle persona, a maggior ragione vale per il tempo presente, caratterizzato dall’azione di poteri privati multinazionali decisamente più insidiosa di quella dei poteri pubblici. 
Ma non è tutto. Se è vero che i controlli sulle attività economiche comportano costi privati, è anche vero che essi producono altresì benefici pubblici. Proprio questo aspetto viene però occultato ad arte dai mitici Rapporti Doing Businessconfezionati annualmente dalla Banca mondiale fin dal 2004: una pubblicazione sconosciuta ai più, nel tempo divenuta un autentico best seller, che rappresenta un compendio di teorie neoliberali particolarmente condizionanti l’attività dei governi di tutto il mondo. 
I Rapporti Doing business misurano i costi economici delle regole che governano l’attività economica in ben 185 Paesi. Lo fanno con riferimento ad alcuni aspetti esemplificativi dell’intero arco di vita di un’impresa: dagli adempimenti richiesti per la sua costituzione a quelli per far fronte al fallimento, passando per la disciplina del rapporto di lavoro e le modalità di accesso alla giustizia civile. Le regole sono valutate positivamente se testimoniano un’ingerenza contenuta dei pubblici poteri, i quali devono impegnarsi soprattutto a tutelare i diritti patrimoniali. In tutto ciò i benefici pubblici corrispondenti ai costi privati sono del tutto indifferenti, esattamente come la circostanza che le ingerenze dei pubblici poteri sono non di rado invocate dal diritto internazionale, ad esempio in materia di lavoro o ambientale[3]
Di qui la superiorità dei Paesi che, ad esempio, richiedono un numero limitato di procedure per costituire un’impresa, non ostacolano la libera conclusione ed estinzione dei rapporti di lavoro, oppure evitano di privilegiare alcuni creditori, come i lavoratori o l’erario, nel caso di fallimento dell’impresa. Il risultato, almeno per l’ultima edizione dei Rapporti, è che l’Italia è al 56. posto nella classifica dei Paesi misurati nella loro capacità di offrire alle imprese un ambiente business friendly: dietro alla Romania (48. posto), alla Bulgaria (38. posto), alla Colombia (34. posto), alla Lituania e alla Lettonia (24. e 23. posto)[4]
Si diceva che i Rapporti Doing business sono sostanzialmente sconosciuti, anche se particolarmente influenti. Sconosciuti perché non se ne parla, se non per ricordare che, quanto a tempi della giustizia, l’Italia si colloca al 147. posto, senza tuttavia precisare che i tempi misurati sono quelli dei tribunali delle capitali. Influenti perché nel corso degli anni hanno ispirato, come si precisa nell’ultimo Rapporto, circa 2.400 riforme in tutto il mondo: tra le altre tutte quelle concernenti le modalità con cui i Paesi europei hanno proceduto e procedono a ristrutturare i loro debiti e deficit sovrani, con o senza intervento formale della Troika. 
Complessivamente i Rapporti Doing business mirano ad accreditare la superiorità del common law, il diritto angloamericano, sul civil law, il diritto dei Paesi europei continentali: imitando il primo e rinnegando il secondo gli Stati favoriscono lo sviluppo delle attività imprenditoriali e dunque la crescita economica. Sarebbe infatti il common law il diritto del governo discreto del mercato, laddove l’ingerenza dei pubblici poteri nell’ordine economico, fonte di povertà e corruzione, costituirebbe una prerogativa del civil law. 
A ben vedere lo scontro tra diritti nasconde un conflitto ulteriore, divampato dopo il crollo del Muro di Berlino, quando la fine della confrontazione tra socialismo e capitalismo fece emergere la competizione tra due diverse concezioni dell’economia di mercato: il capitalismo renano, di matrice keynesiana, e quello neoamericano, modellato sulle ricette di Ronald Reagan e Margaret Thatcher[5]
All’epoca in cui vennero individuati i due modelli di capitalismo, si ipotizzò una loro graduale futura convergenza verso un modello misto. Sappiamo ora che, se di convergenza può parlarsi, essa è avvenuta sul terreno del capitalismo neoamericano. Tipico di quest’ultimo è infatti il ricorso alla borsa, piuttosto che alla banca, come principale canale di credito. E sappiamo che è in corso una vera e propria debancarizzazione del credito a favore dei mercati finanziari, cui sono oramai costretti a ricorrere anche agli Stati. Tipica del capitalismo neoamericano è poi la degradazione del rapporto di lavoro a una qualsiasi relazione di mercato, così come la convinzione che lo Stato sociale costituisca un motore di inattività. E tutti vedono come anche nei Paesi un tempo legati al capitalismo renano il lavoro è sempre più precarizzato e svalutato, mentre i sistemi di welfare sono sempre più ridimensionati e pensati come dispositivi attivatori di manodopera a buon mercato. 
Insomma, il tentativo di subordinare la giustizia all’economia, intrapreso da una politica ampiamente asservita ai fautori del pensiero neoliberale, va letto alla luce della diffusione planetaria, più che del capitalismo tout court, di un certo modo di concepirlo: quello maturato nei Paesi anglosassoni e poi diffusosi nel Vecchio continente, in particolare attraverso l’opera di costruzione dell’unità europea. Un capitalismo di cui si conoscono i difetti e i fallimenti, perché oramai da decenni affliggono chi lo ha scelto come perno attorno a cui sviluppare lo stare insieme come società. Difetti e fallimenti che saranno se possibile amplificati dalla scelta di non importare l’unica caratteristica di un qualche interesse che si ricava dall’esperienza statunitense: la formale attribuzione alla Banca centrale del compito di tutelare, oltre alla stabilità dei prezzi, anche la piena occupazione. 

NOTE 

[1] Relazione del Presidente Sabelli al 32. Congresso nazionale ANM, www.associazionemagistrati.it/doc/2059/la-relazione-del-presidente-dellanm-rodolfo-m-sabelli.htm 

[2] Sentenza 70 del 2015, www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2015&numero=70 

[3] Questo aspetto viene rilevato anche dal Rapporto dell’Independent Evaluation Group, Doing Business: An Independent Evaluation, http://go.worldbank.org/SKWPK59XU0, p. xi e xvi s. 

[4] Doing Business 2015. Going Beyond Efficiency, www.doingbusiness.org/~/media/GIAWB/Doing%20Business/Documents/Annual-Reports/English/DB15-Full-Report.pdf. 

[5] M. Albert, Capitalismo contro capitalismo (1991), Il Mulino, Bologna 1993, p. 113 ss.

Fonte: MicroMega online 

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