La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 31 ottobre 2015

Soluzioni di governo e processi di soggettivazione: l’altra faccia della questione Ilva

di Gaetano De Monte
Tra le analisi commissionate da Peacelink nel 2008 che certificheranno l’altissimo livello di contaminazione dei terreni più vicini alla zona industriale di Taranto, e il 20 ottobre di quest’anno, giorno di inizio del processo Ambiente svenduto, c’è una data, in particolare, che rappresenta uno spartiacque nel conflitto ambientale in questione. Il sequestro della fabbrica. È il 26 luglio del 2012 quando il giudice per le indagini preliminari (G.i.p) del tribunale di Taranto, Patrizia Todisco, dispone il sequestro, senza facoltà d’uso, di sei reparti situati all’interno dell’area a caldo dell’Ilva, il polo siderurgico più importante in Italia. Perché l'impianto - così si legge nel provvedimento cautelare - ha causato e continua a causare "malattia e morte", anche nei bambini, e "chi gestiva e gestisce l'Ilva ha continuato in tale attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza". Da quel giorno e negli anni a venire, i maggiori mezzi di informazione a rilevanza nazionale danno ampia copertura ed evidenza a quanto accade a Taranto.
Mostra attenzione al conflitto anche la stampa estera, inglese e americana, specialmente, che dedica al caso Ilva lunghi reportage giornalistici. Si tratta, come è noto, di una vicenda complessa che coinvolge una fitta rete di gruppi di pressione, movimenti sociali, partiti politici e istituzioni. Sono opposti, da una parte: le associazioni ambientaliste e i comitati cittadini; dall’altra, Confindustria, e in un primo momento, il Governo di Mario Monti, poi quelli a guida di Enrico Letta e Matteo Renzi. In questo senso, nonostante i dati contenuti nell’ultimo rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), “Ambiente e salute a Taranto, evidenze disponibili e indicazioni di sanità pubblica” (e alla base dei provvedimenti cautelari, anche successivi, adottati dai magistrati tarantini) forniscano un quadro altamente drammatico dell'impatto sanitario prodotto dal polo industriale tarantino ( che comprende, oltre alla siderurgia, anche altre produzioni particolarmente inquinanti, quali la raffineria Eni, la Centrale Termoelettrica Enipower, l’ex Italiana Cementi, poi acquisita dalla Cementir del gruppo Caltagirone e diverse discariche per rifiuti industriali) dunque, nonostante quattrocento morti in dieci anni; dal 2012 ad oggi, gli interventi governativi e legislativi che si sono susseguiti sembrano andare in tutt’altra direzione rispetto alla tanto auspicata tutela della salute, per cittadini ed operai. Sono otto i decreti, tutti convertiti in legge, che raccontano soltanto della salvaguardia degli interessi e dei profitti ad ogni costo per banche e grandi investitori di Ilva. Dietro la maschera dell’emergenza produttiva, sotto la pressione dei gruppi finanziari, si è consentito ad una fabbrica accusata dalla magistratura di provocare “malattia e morte” di continuare ad inquinare indisturbata. Perché di questo si tratta.
Le leggi salva Ilva: morire a norma di legge
In particolare, con il Decreto-legge 3.12.2012, n. 207 che reca nel titolo: "Disposizioni urgenti a tutela della salute, dell'ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale" poi convertito con modificazioni dalla legge 24.12.2012, denominata n. 231, si stabilisce che: “in caso di stabilimento di interesse strategico nazionale, […]qualora vi sia una assoluta necessità di salvaguardia dell'occupazione e della produzione, il Ministro dell’ Ambiente può autorizzare, […] la prosecuzione dell'attività produttiva per un periodo di tempo determinato non superiore a 36 mesi ed a condizione che vengano adempiute le prescrizioni contenute nel provvedimento di riesame della medesima autorizzazione ambientale”. In tale provvedimento si prevede, inoltre, che “le disposizioni trovano applicazione anche quando l'autorità giudiziaria abbia adottato provvedimenti di sequestro sui beni dell'impresa titolare dello stabilimento. In tale caso i provvedimenti di sequestro non impediscono, nel corso del periodo di tempo indicato nell'autorizzazione, l'esercizio dell'attività d'impresa”. In sostanza, nel dicembre 2012, con il decreto legge n. 207 e con la successiva legge n.231, il Governo autorizza l'Ilva a produrre, restituendo all'impresa i beni che gli erano stati sottratti dai decreti di sequestro, perché ritenuti "corpo del reato" dai giudici; gli stessi magistrati tarantini che sollevano la questione di legittimità costituzionale della legge davanti alla Consulta.
A distanza di tre mesi, e dopo una lunghissima camera di consiglio, i giudici costituzionali sentenziano, il 9 Aprile 2013, che: "il provvedimento voluto dal governo non ha alcuna incidenza sull’accertamento delle responsabilità nell’ambito del procedimento penale in corso davanti all’autorità giudiziaria di Taranto. Pertanto, il decreto è conforme al dettato costituzionale”.
Dunque, la produzione può continuare, a patto che vengano attuate tutte le prescrizioni contenute nell’Aia che lo stesso governo Monti ha rilasciato all' Ilva nell’Ottobre 2012. Come dire che da allora si potrà morire a norma di legge. E ciò verrà in tutte le città in cui vi siano “imprese di interesse strategico nazionale”. Attraverso il decreto-legge n. 61, adottato il 4 giugno 2013 (convertito nella legge n. 89/2013) e considerato il Salva-Ilva-bis, si pone in capo ad un commissario straordinario, considerato quale organo dello Stato, "la responsabilità di garantire la progressiva adozione delle misure previste dalle Autorizzazioni integrate ambientali”. Intanto, cambia il governo, ma non il senso dei provvedimenti. Il Decreto-legge n. 136 del 10 dicembre 2013, convertito con modificazioni dalla L. 6 febbraio 2014, n. 6, è meglio noto come "decreto terra dei fuochi". All'interno delle "disposizioni urgenti dirette a fronteggiare emergenze ambientali e industriali ed a favorire lo sviluppo delle aree interessate" che riguardano soprattutto alcune aree della regione Campania, c'è spazio anche per alcune norme che riguardano l'Ilva. Si fa uno sconto, diciamo così, sulle prescrizioni ambientali che l'azienda è chiamata ad ottemperare. Si stabilisce infatti che: "la struttura commissariale sarà tenuta al rispetto dell'80% delle prescrizioni dell'Autorizzazione integrata ambientale, entro il 31 Luglio 2016". Non solo. Sarà la stessa struttura governativa, secondo quanto contenuto nella stessa legge, "a decidere quale siano gli interventi migliorativi da escludere nella misura del 20%". Si introdurrà poi, ad inizio dell'anno in corso, l'istituto che prevede "l'immunità penale per il commissario straordinario e per i suoi incaricati nell’attuazione del piano ambientale previsto dall’Autorizzazione integrata ambientale".
A prevederla, l’immunità, c’è la Legge n.20 del 4 Marzo 2015 che ha convertito il decreto-legge n. 1 del 5 gennaio 201 recante “disposizioni urgenti per l'esercizio di imprese di interesse strategico nazionale in crisi e per lo sviluppo della citta' e dell'area di Taranto”. In particolare, si legge al sesto comma dell’articolo due: “Le condotte poste in essere in attuazione del Piano di cui al periodo precedente non possono dare luogo a responsabilità penale o amministrativa del commissario straordinario e dei soggetti da questo funzionalmente delegati, in quanto costituiscono adempimento delle migliori regole preventive in materia ambientale, di tutela della salute e dell’incolumità pubblica e di sicurezza sul lavoro”. Comunque, nell'economia di questo scritto non è possibile analizzare nel merito tutti gli altri provvedimenti noti alle cronache come leggi salva Ilva. Seppur non è difficile comprendere quale ne sia stato il tenore. L'ultimo decreto intervenuto in ordine di tempo, però, merita una particolare menzione perché ci dà una cifra ulteriormente significativa rispetto alla caratura dell'intervento e del potere governamentale che si innesta sui cittadini di Taranto e gli operai di Ilva.
L’otto giugno del 2015, Alessandro Morricella, un operaio, è investito da una violenta fiammata, mentre controllava manualmente la temperatura della ghisa presente nell’altoforno. Alla base dell’incidente, probabilmente, una fuoriuscita eccessiva di gas. Dopo quattro giorni di agonia, segnato da bruciature nel 90% del corpo, il 12 giugno Morricella muore. Nel giorno - ironia della sorte - che la città di Taranto dedica ai morti sul lavoro, da quando dodici anni prima, all’Ilva persero la vita Pasquale D’Ettorre e Paolo Franco, uccisi dal crollo di una gru. “Tieni la testa alta quando passi vicino alla gru perché può capitare che si stacchi e venga giù” sono i versi riportati dal rapper Caparezza per ricordare quella tragedia, e contenuti nella sua ballata più famosa: Vieni a ballare in Puglia. Intanto, mentre la Procura di Taranto dispone il sequestro senza facoltà d’uso dell’altoforno dove lavorava Morricella, in seguito alle pressioni delle associazioni industriali, e degli stessi sindacati confederali, il Governo Renzi vara l’ottavo decreto Salva Ilva. Anzi: il decreto-legge n.92 del 4.7.2015 recante “Misure urgenti in materia di rifiuti e di autorizzazione integrata ambientale, nonché per l'esercizio dell'attività d'impresa di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale” è stato battezzato “decreto salva Ilva-Fincantieri”. Tralasciando il salvacondotto giunto per la Fincantieri di Monfalcone, oggetto anch' essa di un procedimento penale di sequestro per irregolarità nella gestione dei rifiuti, è l’art 3, al comma 1 a stabilire che: “al fine di garantire il necessario bilanciamento tra le esigenze di continuità dell'attività produttiva, di salvaguardia dell'occupazione, della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute e dell'ambiente salubre, nonché delle finalità di giustizia, l'esercizio dell'attività di impresa degli stabilimenti di interesse strategico nazionale” l’altoforno 2 va riaperto. In pratica, la norma stabilisce che: “in presenza di provvedimenti di sequestro, gli stabilimenti di interesse strategico nazionale possano continuare a produrre anche se gli impianti non rispettano le norme di sicurezza semplicemente presentando entro 30 giorni di tempo un piano di interventi”. Anche questa volta i giudici di Taranto si sono appellati alla Corte Costituzionale, perché, a loro dire, l’impianto della legge violerebbe sei articoli della Costituzione. In attesa della sentenza della Consulta, intanto, si potrà continuare a morire a norma di legge.
Soggettività in divenire?
Cittadini e operai. Non sono stati soltanto i magistrati a rompere quel muro impenetrabile che la gran parte delle forze economiche, politiche e sindacali – supportate da alcuni giornalisti locali - avevano contribuito ad edificare a Taranto, con uno stile che è stato definito “sovietico”. Quella fitta coltre di omertà che l’Ilva aveva costruito intorno al disastro ambientale da essa stessa provocato è svelata definitivamente e certamente dall’intervento della magistratura ma anche, dall’attivazione di un processo di partecipazione politica non convenzionale. Soprattutto nel 2012 e 2013, una serie di assemblee, blocchi stradali, manifestazioni e scioperi si susseguono nella città di Taranto costituendo il repertorio d’azione di un nuovo soggetto collettivo, in cui confluiscono associazioni ambientaliste, studenti, operai, semplici cittadini: Il comitato cittadini e operai liberi e pensanti, che riesce a sintetizzare, in un primo momento, riconducendole ad un denominatore comune, la pluralità di forme di cui era costituto, sino ad allora, l’impegno civico, sociale e politico cittadino. Il comitato prova a dare vita ad una sorta di sperimentalismo partecipativo e ha il merito di far prendere definitivamente coscienza alla cittadinanza tarantina delle politiche scellerate di cui è stata vittima negli ultimi quarant’anni, costruendo una massiccia mobilitazione attorno al tema della salute.
È ricomposta, seppur temporaneamente, quella frattura drammatica che si gioca tutta nel solco del conflitto tra salute e lavoro; e tra cittadini, generazioni, lavoratori. Ma poi la fiamma della protesta operaia e popolare si spegne e il conflitto si normalizza. E il dibattito pubblico, ora, è completamente assente. Non si tratta di cercare i fantasmi della classe operaia, ma di ricercare l’identità di un nuovo soggetto che sia frutto di una produzione sociale. Come ha ben spiegato Federico Chicchi (Soggettività smarrita, Mondadori, 2012) il soggetto è in divenire, è qualcosa che si determina storicamente. È un qualcosa che è soggetto a un campo di forza, che a sua volta appartiene ad un potere che preesiste, ma che diventa materialità soltanto quando si fa resistenza a questa cattura. Il soggetto, quindi, è nient’altro ciò che si produce dentro la tensione tra cattura e resistenza. Tornando alla vicenda Ilva, negli ultimi tre anni sono morti cinque operai, lì dentro. Oltre a Morricella, Angelo Jodice, Claudio Marsella, addetto al Mof (movimento ferroviario), Francesco Zaccaria, gruista al porto, e Ciro Moccia, sulla batteria nove (nel reparto cokeria, già oggetto di sequestro). Le loro perdite stanno a ricordare che gli incidenti non sono casuali, ma dipendono da condizioni e luoghi di lavoro profondamente insicuri. Laddove, dunque, l’insicurezza esterna (inquinamento della città) è soltanto l’altra faccia dell’insicurezza interna (alla fabbrica). Perché qui non c’è solo il bollettino di ricoveri nei reparti oncologici che continua ad aggiornarsi, ci sono anche le condizioni della fabbrica che sembrano le stesse uscite dai racconti di Dickens. Per dirla con Lacan: “il discorso capitalista è la forma di legame sociale, di potere, più subdola che sia mai esistita ma al contempo per funzionare non può far altro che consumare se stesso”. Come il sistema della fabbrica consuma soggettività, soprattutto all’interno di essa, fra chi ci lavora, sarà l’oggetto del prossimo racconto, dalla città dove le nuvole sembrano tutte uguali.

Fonte: dinamopress.it

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