La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 16 ottobre 2015

Con Ozlem, Selay e Rada la «via possibile» delle donne

di Giuliana Sgrena
«Un altro mondo è pos­si­bile ma solo se costruito dalle donne con le donne». Ozlem Tan­ri­kulu, pre­si­dente dell’Ufficio infor­ma­zione del Kur­di­stan a Roma e mem­bro del Con­gresso Nazio­nale del Kur­di­stan, non ha dubbi. Solo le donne con la loro cul­tura ed espe­rienza poli­tica, la loro pra­tica nella società pos­sono sma­sche­rare gli ste­reo­tipi maschi­li­sti che vor­reb­bero le donne chiuse in casa senza par­te­ci­pare alla vita sociale e poli­tica. Ozlem chiude con estrema chia­rezza e inci­si­vità una mat­ti­nata di testi­mo­nianze di donne «resi­stenti» giunte da mondi diversi.
Ma che hanno in comune la visione del mondo e «l’atra via» da intra­pren­dere. All’incontro, orga­niz­zato ieri (15 otto­bre) a Roma dalla rivi­sta Con­fronti con il soste­gno dei fondi otte­nuti dalla Chiesa val­dese con l’8 per mille, hanno par­te­ci­pato Selay Ghaf­far (Afgha­ni­stan) e Rada Zar­ko­vic, pre­si­dente della coo­pe­ra­tiva bosniaca «Insieme».
Sono volti noti al mondo ita­liano della soli­da­rietà. Selay Ghaf­far, già pre­si­dente di Hawca — Huma­ni­ta­rian Assi­stance for women and chil­dren of Afgha­ni­stan – molto impe­gnata in pro­getti di inse­ri­mento delle donne nel pro­cesso e nello svi­luppo del paese, la ritro­viamo nella nuova veste di por­ta­voce di Ham­ba­stagi (Soli­da­rietà), l’unico par­tito di oppo­si­zione in Afgha­ni­stan. Non è un com­pito facile per una donna nel momento in cui il paese sta vivendo una situa­zione di insi­cu­rezza cre­scente, soprat­tutto per le donne, che ven­gono lapi­date, stu­prate, aci­di­fi­cate, costrette a spo­sarsi bam­bine. Ma non solo: le vit­time si con­tano a cen­ti­naia: assas­si­nii, arre­sti, tor­ture. Ricorda il cri­mine di Kun­duz con­tro l’ospedale di Medi­cins sans Fron­tiè­res e la forte repres­sione nei loro con­fronti. Soprat­tutto Selay denun­cia l’occupazione occi­den­tale, che dura ormai da 14 anni: «ci hanno detto che inter­ve­ni­vano per com­bat­tere il ter­ro­ri­smo, in Afgha­ni­stan invece è avve­nuto il con­tra­rio, ora non abbiamo solo i tale­ban ma si sta espan­dendo anche l’Isis. Per­sino la gente nor­male ora ha capito che gli Usa non vole­vano com­bat­tere il ter­ro­ri­smo ma solo difen­dere i loro interessi».
Per­ché hai deciso di pas­sare dall’impegno sociale a quello poli­tico? «Mi sono resa conto che occorre un cam­bia­mento poli­tico e per farlo occorre una rispo­sta poli­tica. Quando è nato Ham­ba­stagi nel 2004 era­vamo in 700, nel 2014 gli iscritti erano 31.000, il 33% sono donne, ma nella lea­der­ship la nostra pre­senza è del 50%». Le donne con cui hai lavo­rato ti seguono nella tua atti­vità poli­tica? «Sì, lavo­riamo con il popolo – gio­vani, stu­denti, donne — per ren­derlo cosciente che il nostro paese è occu­pato e che solo il popolo afghano può deci­dere del pro­prio futuro, nes­suno ci por­terà da fuori la libertà e l’indipendenza», risponde la por­ta­voce di Solidarietà.
Libertà e indi­pen­denza con un governo demo­cra­tico e laico, e in più un tri­bu­nale che giu­di­chi i respon­sa­bili dei cri­mini di guerra che ora sono al potere – con «il governo di John Kerry», come viene defi­nito in Afgha­ni­stan — o in par­la­mento.
Selay con­clude soste­nendo che loro si sono ispi­rati all’esempio di Kobane, solo la lotta di donne e uomini insieme può evi­tare la scon­fitta. E infatti, con­ferma Ozlem, «siamo rima­sti sor­presi che Ham­ba­stagi fosse il primo par­tito ad ade­rire, lo scorso anno, all’appello per il 1 novem­bre di soli­da­rietà con Kobane».
Tra Ozlem e Selay , Rada è orgo­gliosa di pre­sen­tare la «via pos­si­bile» rea­liz­zata dalla coo­pe­ra­tiva «Insieme» (molto cono­sciuta e anche soste­nuta in Ita­lia) per ripor­tare la vita in quella terra di Sre­bre­nica «deser­ti­fi­cata» dalla orri­bile strage di 20 anni fa. «Gli occi­den­tali hanno inve­stito molti soldi per costruire tetti (Rada si rife­ri­sce al fatto che le case sotto sono rima­ste vuote) ma non hanno fatto nulla per far tor­nare la gente, i soldi sono ser­viti solo agli stra­nieri per per­met­tere loro di fare una vita che non avreb­bero mai avuto nel loro paese. E ora se ne ricor­dano solo negli anni­ver­sari», denun­cia Rada, come sem­pre senza peli sulla lingua.
Senza spe­ranza e senza futuro non puoi vivere. «Noi stiamo lavo­rando per ela­bo­rare il lutto, per creare le con­di­zioni affin­ché due vicini si pos­sano par­lare, pian­gere insieme…. » afferma Rada con la con­sa­pe­vo­lezza di una donna che ha vis­suto la guerra schie­ran­dosi con­tro insieme alle Donne in nero di Bel­grado. «E ancora oggi a Sara­jevo se ti chie­dono che cosa sei e tu rispondi bosniaca ti con­si­de­rano dell’altra etnia!», com­menta con ama­rezza. Ora è orgo­gliosa dei barat­toli di mar­mel­lata fatta con i frutti della pace, col­ti­vati bio­lo­gi­ca­mente sulle rive della Drina, e «vestiti» a mano con le eti­chette, «costa di più ma da lavoro anche a chi non ha il ter­reno per col­ti­vare». Le donne della coo­pe­ra­tiva (ma il governo impone le tasse come se fosse un’impresa) hanno ritro­vato il sor­riso. Ma non tutto è facile, Rada e le altre devono far fronte alle leggi del mer­cato, senza avere la pos­si­bi­lità di fare pub­bli­cità, vei­co­lata solo dal pas­sa­pa­rola. Però lo slo­gan è già col­lau­dato: «com­pra il primo barat­tolo per soli­da­rietà, il secondo solo per­ché è buono!».
Espe­rienze solo appa­ren­te­mente lon­tane, le parole che si incro­ciano sono le stesse, sono quelle di donne che hanno vis­suto o vivono in situa­zioni di vio­lenza senza mai dimen­ti­care l’appartenenza di genere.
«Tempo fa sono state dif­fuse molte imma­gini di donne com­bat­tenti kurde, ma il movi­mento delle donne kurde è nato negli anni 70 e ha lot­tato con­tro il sistema feu­dale e patriar­cale che fa la guerra. Le donne hanno sem­pre lot­tato con­tro quello che poteva distrug­gere la loro cul­tura matriar­cale. La for­ma­zione del movi­mento kurdo è stato in gran parte gestito dalle donne in Rojava (dove i kurdi per evi­tare l’assimilazione non stu­dia­vano per­ché le scuole erano in arabo). Poi una grande spinta al cam­bia­mento sociale, non solo in Rojava ma anche in Bakur (Tur­chia) è venuta dalle rivolte in Medio­riente», sostiene l’attivista kurda.
La sua posi­zione è chiara: «Non stiamo con Assad e nem­meno con l’opposizione siriana per­ché ha la stessa men­ta­lità e nem­meno con il fasci­sta Erdo­gan. Un altro mondo può essere fatto solo da donne», con­clude Ozlem.

Fonte: il manifesto

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