La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 16 ottobre 2015

Turchia, il rischio che Erdogan annulli le elezioni

di Luigi Pandolfi 
Alla manifestazione ad Ankara indetta da sindacati e partiti della sinistra subito dopo l’attentato, dove sono sono morte oltre cento persone, erano migliaia. Una folla enorme, che a più riprese ha gridato «Erdogan assassino! Erdogan vattene!». Lo stesso slogan è stato scandito da decine di migliaia di manifestanti ad Istanbul e in altre città del Paese. Lo sciopero di tre giorni (fino al 15 ottobre) indetto dalle principali organizzazioni sindacali – cui si sono aggiunte associazioni di avvocati e di medici, l’Unione degli architetti e degli ingegneri, la Confederazione dei dipendenti del settore pubblico – intanto sta facendo registrare una partecipazione altissima. Se da un lato le interpretazioni sull’accaduto e sulla sua matrice continuano a divergere nel Paese, in molti incominciano a pensare che a farne le spese potrebbe essere lo stesso Erdoğan.
Il nuovo ricorso alle urne era stato inserito da Erdoğan in una strategia per rimediare al deludente risultato delle elezioni precendenti. Un obiettivo da conseguire con ogni mezzo, anche silenziare la stampa libera, con assalti a sedi di testate indipendenti e arresti di giornalisti scomodi
Il prossimo primo novembre i turchi saranno chiamati di nuovo alle urne per eleggere il parlamento, dopo che a giugno Recep Tayyip Erdoğan, l’attuale presidente della Repubblica, non è riuscito a ottenere la maggioranza assoluta e cambiare la costituzione, per darsi più poteri. La battuta d’arresto dell’economia e una serie di “errori” compiuti dallo stesso Erdoğan di fronte all’esplosione della protesta giovanile degli anni scorsi (ad esempio le manifestazioni di Gezi Park), ha portato a un risultato inaspettato: per la prima volta nella storia del Pese è entrata in parlamento una nutrita rappresentanza della sinistra filo-curda dell’HDP (Partito popolare democratico), formazione guidata dal giovane avvocato Selahattin Demirtaş. Andando ben oltre le rivendicazioni storiche del popolo curdo, aveva fatto da catalizzatore delle istanze di cambiamento provenienti da settori sempre più larghi della società, raccogliendo parimenti l’eredità della rivolta di Gezi Park.
Il nuovo ricorso alle urne era stato inserito da Erdoğan in una strategia per rimediare al deludente risultato delle elezioni precendenti. Un obiettivo da conseguire con ogni mezzo, compreso quello di silenziare la stampa libera, con assalti a sedi di testate indipendenti e arresti di giornalisti scomodi.
Nel frattempo, però, lo scenario sul fronte esterno è cambiato. La strategia di coinvolgimento del Paese nell’affaire siriano incomincia a mostrare i primi segni di debolezza, soprattutto per l’effetto delle interdizioni che la Russia inizia ad esercitare nell’area. Non solo. Com’è noto, sin dal 2011, cioè dall’inizio della crisi siriana, il governo di Ankara ha sostenuto con ogni mezzo i ribelli anti-Assad, compresi quelli dello Stato islamico. A spingerlo in questa direzione era stato il timore che la dissoluzione del Paese potesse favorire la nascita di uno stato curdo al proprio confine, oltre, naturalmente, all’atavica inimicizia con i governanti di Damasco.
Poi però il clima è cambiato. L’Isis incomincia a diventare una minaccia insopportabile per l’Occidente e gli Usa decidono di intervenire. A luglio iniziano i bombardamenti americani, la Turchia è costretta a mettere a disposizione le sue basi – rendendosi disponibile anche per un giro di vite sui simpatizzanti del Califfo entro i confini nazionali. L’occasione viene subito colta da Erdoğan per intensificare la repressione nei confronti del PKK, con una serie di attacchi militari nelle città di Cizre, Nusaybin, Mardin e nella stessa Diyarbakir, considerata dai curdi la loro capitale. Azioni che provocano la morte di centinaia di persone, molte civili, e si concludono con l’arresto di migliaia di individui.
È in questo clima, già segnato da una violenta caccia alle streghe, che matura l’attentato dell’11 ottobre. Per gli esponenti del HDP, l’attacco è parte integrante della strategia della paura messa in piedi dal presidente Erdoğan in vista delle elezioni anticipate fissate per il 1 novembre. L’obiettivo sarebbe creare nel Paese un clima di forte tensione e, al tempo stesso, accreditarsi come l’unico soggetto in grado di disinnescarla, assicurando un rapido ritorno alla normalità. In fondo, un’arma da giocare nella sua personale partita per la riorganizzazione in senso autoritario dello Stato e nella lotta agli odiati sfidanti della sinistra filo-curda. Eyyup Doru, rappresentate del HDP per l’Europa, in una intervista rilasciata al quotidiano francese L’Humanité, al riguardo non ha mostrato dubbi: «Crediamo che gli autori di questo attacco siano noti al governo. L’attentato avviene nella capitale turca, vicino agli uffici dei servizi segreti, che necessariamente sapevano cosa stava succedendo». Poi aggiunge: «Ciò di cui parliamo somiglia molto a un’azione del Daesh, ma si sarà notato che mai uno di loro salta in aria durante le manifestazioni dell’AKP (Il partito di Erdoğan, n.d.a). Questo ci fa dire che Erdoğan e Daesh sono, in realtà, due facce della stessa medaglia».
È questa convinzione che ha animato la grande manifestazione ad Ankara dopo la strage, nel corso della quale, a parte gli strali contro Erdoğan ed il governo dell’AKP, accusati di portare avanti una strategia terroristica, è stato ribadita la volontà di non arrendersi alla violenza e di continuare la lotta per un Turchia democratica, laica e pacificata. Intanto, proprio Erdoğan ha ordinato un’inchiesta speciale sull’attentato, che dovrebbe svolgersi parallelamente a quella già avviata dalla polizia. Ha riconosciuto anche che ci sarebbero state «carenze» da parte dei servizi di sicurezza e di intelligence, dicendosi pronto a prendere «qualsiasi provvedimento» se dalle indagini dovessero emergere «negligenze».
A poco più di due settimane dalle elezioni, in ogni caso, la situazione politica in Turchia rimane esplosiva, con rischi concreti di un’escalation di violenza o, per i più pessimisti, di una vera e propria guerra civile. Intelligentemente, il PKK ha dato disposizione ai suoi combattenti di interrompere qualsiasi attività contro le forze di sicurezza turche, «a meno che non siano attaccati». Sul fronte opposto, invece, nessuna marcia indietro rispetto alla rottura unilaterale delle trattative, dichiarata all’indomani delle elezioni dello scorso 7 giugno. Ma in queste ore inizia a circolare anche un’altra voce: Erdoğan potrebbe approfittare del grave clima di tensione che c’è nel Paese per annullare le elezioni. Il timore, nelle alte sfere del potere turco, è che la violenza che sta insanguinando il Paese, anziché favorire il disegno autoritario del presidente, potrebbe far da levatrice ad un forte sussulto democratico tra i cittadini, che nelle urne potrebbe tradursi in una nuova, e più pesante, sconfitta per il partito di governo.
Nelle ore immediatamente successive alla strage, un funzionario del governo aveva escluso categoricamente un rinvio del voto, dichiarando che «l’opzione non era stata neanche solo presa in considerazione». Oggi, però, l’ipotesi potrebbe risultare meno peregrina.

Fonte: Linkiesta

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