La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 16 ottobre 2015

Piccola storia della diaspora armena

di Antonello Tolve
Ex tabacchificio riqualificato nel 2009 dai proprietari per accogliere nei suoi ampi spazi (si tratta di un antico edificio industriale di quattro piani utilizzato, appunto, fino al 1950 come Tünün Deposu) progetti d'arte contemporanea sempre più aperti al dialogo e alla polifonia culturale, il DEPO Cultural Centre di Istanbul – considerato dal milieu artistico un importante luogo istituzionale alternativo della Turchia – ospita, fino al prossimo novembre, un nuovo racconto che, in linea con la sua vocazione primaria, muove dalla collaborazione tra il territorio turco e i diversi paesi del Medio Oriente, del Caucaso del Sud, dei Balcani e dell'Europa per modellare la storia umana, intellettuale e sociale del popolo armeno.
Al centro del nuovo percorso espositivo disegnato, progettato e coordinato da Silvina Der-Meguerditchian (artista con sede a Berlino, anche se figlia di immigrati armeni in Argentina), c'è infatti non solo il desiderio di esaminare i vari volti del multiculturalismo, ma anche l'esigenza di riscattare, mediante una manovra estetica, una comunità randagia che, sin dal 1375 (anno in cui termina la sovranità armena in Cililia), e in maniera più cruda nel 1915 (anno del genocidio e della diaspora), è stata costretta a sgretolarsi, a vivere e a rifugiarsi, in diversi paesi d'Europa, nei Balcani, in Medio Oriente, in Russia, in Crimea, in Georgia, in Siria, nel Libano, e tra le tante altre destinazioni o mete, a Cipro e Gerusalemme.
Così, proprio oggi che l'Armenia vive, ancora una volta, un periodo quantomai difficile, e proprio in occasione del centenario (1915-2015), una serie di artisti, spinti dal desiderio di rileggere la storia della Հայկական սփյուռք (diaspora armena), impugna le armi del sapere, per costruire, con Torunlar – aidiyetin yeni coğrafyları / Grandchildren – new geographies of belonging, negli spazi del DEPO, un percorso corale sulle varie comunità armene presenti in diversi Paesi del globo e, contemporaneamente, sull'origine delle pratiche legate alla diversità, alla pluralità, all'alterità.
Grazie al lavoro di tredici voci del panorama artistico internazionale – Achot Achot (Yerevan/Paris), Maria Bedoian (Buenos Aires), Talin Büyükkürkciyan (Istanbul), Hera Büyüktaşçıyan (Istanbul), Silvina Der-Meguerditchian (Buenos Aires/Berlin), Linda Ganjian (New York), Archi Galentz (Moscow/Berlin), Karine Matsakyan (Yerevan) Mikayel Ohanjanyan (Yerevan/Florenz), Ani Setyan (Istanbul), Arman Tadevosyan (Gyumri/Nancy), Scout Tufankjian (New York), Marie Zolamian (Beirut/Liege) – la rassegna, curata da Barbara Höffer, presenta un percorso visivo la cui poliglottìa linguistica risponde ad un naturale cosmopolitismo che mette da parte le differenze sociali e politiche con lo scopo di puntare l'indice sulla memoria di una identità sovranazionale. Si tratta di una piccola storia, di un racconto che nasce dalla voce di artisti, figli d'un conflitto, discendenti di una etnia (che, tra il 1915 e il 1916, ha subito una violenza inaudita) la cui forza e vitalità ha saltato il fosso della sofferenza per avviare un processo culturale di stampo neobabelico. «In a global context where mobility and the virtual world challenge established identifications with national societies, ethnic groups or religions, Armenians can be considered a good example of a group with a long, cosmopolitan and globalized history», puntualizza infatti Silvina Der-Meguerditchian nel testo che introduce alla mostra.
Dall'idea di religione proposto da Achot Achot con il progetto Afactum (2015) allaCoral Galaxia (2014-2015) di María Bedoian, per giungere via via alla – davvero poetica – Blind Topographia (2015) di Hera Büyüktaşçıyan e alla formidabile installazione Geldim (I Came) di Ani Setyan o al Labirinto spaziale (2015) di Mikayel Ohanjanyan, la mostra si presenta come un discorso totale, con un disegno sovraterritoriale che descrive i principi e le pratiche della convivialità, della partecipazione, della coesistenza. Ma anche come un viaggio nella storia per non dimenticare o, al massimo, per dimenticare a memoria il dolore.

Fonte: Alfabeta2

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