La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 16 ottobre 2015

Viaggio nel protettorato di Grecia

di Matteo Nucci
«Il compromesso che abbiamo raggiunto con la Grecia è duro per Atene. È il risultato della loro “Primavera Greca”». Così scrisse in un tweet, all’alba del 13 luglio scorso, dopo la famosa notte di trattative che portarono alla firma del memorandum, il ministro delle finanze slovacco Peter Kažimír. Gli analisti più neutrali sottolinearono che l’ironia della storia si perdeva nel sarcasmo degli epigoni. In rete le reazioni sconcertate spinsero Kažimír, socialdemocratico nato a giugno del 1968, due mesi scarsi prima che i carri armati russi stroncassero la “Primavera di Praga”, a tornare sui suoi passi. Rimosse il tweet e non se ne parlò più. Ma certo aveva ragione, Kažimír. La “Primavera greca” è finita nella notte fra il 12 e il 13 luglio. E chi non voleva crederci ha dovuto fare i conti con l’autunno che, dopo il terzo voto in un anno, ha decretato la fine di ogni illusione.
«Abbiamo votato come per risolvere una faccenda interna, un po’ per metterci d’accordo e non litigare più. Ma cosa vuoi che importi fuori di qui?» Mary, artista ateniese, lo dice in uno di questi pomeriggi in cui su Atene pioggia e vento freddo hanno strappato il velo di un’estate che aveva fisicamente nascosto l’epilogo di una speranza. «Sono andata a votare, sì, ma sono passati secoli da gennaio quando pareva che ogni cosa potesse cambiare». Nella città che fino a pochi mesi fa ribolliva di discussioni politiche, zeppa di osservatori stranieri, il fervore ha cambiato radicalmente segno. «Sono rimasti gli artisti stranieri. Chiamano Atene, senza ironia, “la nuova Berlino”. Forse ricominceremo da lì, dall’arte».
“La nuova Berlino”, non la conoscono in molti. È una città complessa. Dimitris, attore, strenuo sostenitore del KKE, il partito comunista, non fa sconti: «Per queste strade hai l’impressione che la libertà sia immensa. Ma è l’illusione generata dal caos di un paese conservatore tornato a pieno titolo a livello di un Protettorato». Deluso dal voto del suo partito che non scende sotto il cinque per cento ma neppure sale e soprattutto non attrae giovani come lui, Dimitris evoca una forma di sudditanza che è ben nota ai greci fin dagli albori dell’indipendenza moderna, dopo i quattro secoli di dominio ottomano. «In un protettorato però almeno le vicende interne sono gestite dal governo. Qui ora avremo rappresentanti della Troika all’interno dei ministeri. Non ci resterà neppure la minima libertà di legiferare». Cosa si è votato a fare allora? «Il KKE è ancora contro tutti gli accordi che sono stati raggiunti. Quelli che hanno scelto i partiti succubi all’Europa, ossia tutti gli altri, non so cosa si aspettino».
Chi ha parlato di “voto fotocopia” dovrebbe riflettere su questo. L’impressione che le forze in campo abbiano ripetuto i risultati di gennaio è veritiera, ma all’apparenza. E non tanto perché l’astensione ha completamente trasformato il numero dei votanti, quanto perché la partecipazione è stata di tutt’altro segno. Due giorni prima delle elezioni, durante la ricorrenza dell’omicidio di Pavlos Fyssas (delitto di cui Alba Dorata si è assunta la responsabilità morale poco prima del voto e tuttavia non ha perso affatto consensi), a Exarhia, quartiere anarchico e studentesco per eccellenza, sono ricominciati gli scontri di strada. Cassonetti incendiati, molotov che volavano da una strada all’altra, poliziotti antisommossa, lacrimogeni, guerriglia urbana. «Quando non c’è spazio per il dissenso» mi ha detto Victoria, una ragazza del quartiere «il dissenso diventa violenza. Tutto questo, in Europa, è destinato a aumentare». Forse aveva ragione, forse era soltanto l’anniversario di una morte inaccettabile. Quel che è certo è che le parole di Victoria raccontavano una verità sentita un po’ ovunque qui, da destra a sinistra: in Europa non c’è spazio per il dissenso; si può votare ma la politica è decisa altrove. E non solo per questioni estere, come appunto capitava di norma nei Protettorati, ma anche per questioni interne, magari minime e locali, ma che proprio per questo sui locali hanno un impatto notevole.
Pochi giorni fa ero a pranzo in una di quelle taverne greche ridotte all’essenziale, sperdute su arterie polverose, meta di camionisti e amanti del celebre vino in botti, la retsina. Si discuteva del richiamo europeo a legiferare su raki e tsipouro, le varianti greche della grappa, perlopiù prodotte artigianalmente.
Il diktat non ammette scampo: tsipouro e grappa devono essere prodotte secondo gli standard europei e soprattutto non devono usufruire di esenzioni fiscali che ne avvantaggino la vendita rispetto ai prodotti d’importazione. Non si rideva dei mali altrui, però, in taverna. Non si chiamavano in causa le colpe, ben sproporzionate quanto a lesione dei diritti della concorrenza, della Volkswagen. Si parlava invece di un formaggio che in taverna non hanno più potuto servire agli avventori perché infrangeva certe regole europee. I vecchi ne decantavano la qualità e mi hanno promesso «almeno un assaggio, un giorno, quando tornerai», visto che «quella delizia», in clandestinità, è sopravvissuta. Ecco, forse è la clandestinità il futuro a cui sono destinate certe tradizioni, certi caratteri greci?
In fondo non ci sarebbe nulla di nuovo. La musica dei ribelli degli anni Venti-Trenta, il blues greco, ossia il rebetiko, con le sue melodie struggenti e le voci impastate di hashish e malinconia, è sopravvissuta clandestinamente a ogni divieto. E ancora oggi, spesso, si nasconde, perpetuando il suo carattere rivoluzionario negli anni della grande rinascita, non a caso al tempo della crisi.Vado a ascoltarla una notte in un vicolo dove il bel portone del palazzo neoclassico apre solo a chi suoni un campanellino e venga riconosciuto dal proprietario, un tipo che di giorno va a pesca e di notte apre a pochi eletti, infrangendo non so quanti divieti. Si deve aspettare che sia tardi. Solamente dopo le tre di notte i veri musicisti entrano in campo. Sono anziani suonatori di bouzouki e baglamas, tra cui svetta un settantacinquenne che suona bene solo se fuma hashish. Sono altre le cose da proibire – ripetono tutti, ridendo. Le leggi inaccettabili noi non le accettiamo. La democrazia è questa. Se non riconosciamo giusta una regola la rifiutiamo. Ecco risplendere il famoso orgoglio greco, la propensione a resistere: parti strutturali del dna di un popolo, che passi o meno la sua “primavera”.
Del resto in Grecia, quanto a legalità, sono ben altre le riforme che si aspettano. Per esempio, appunto, la macchina della giustizia. Un girone infernale da cui l’Europa stranamente sembra disinteressarsi. Olympia, giovane avvocato, mi spiega che leggi e leggine reduplicate per ogni minima inezia rappresentano un groviglio di molto peggiore rispetto a quello italiano e che la lunghezza dei processi e l’idea che la giustizia possa tranquillamente non arrivare mai è all’ordine del giorno. D’estate i tribunali chiudono da metà giugno a metà settembre fatte salve le urgenze. Tre mesi interi che ritardano inesorabilmente una enorme massa di cause. A questo si aggiunga la chiusura in tempo di elezioni, visto che magistrati e avvocati sono chiamati a collaborare al processo elettorale. Cause sospese e ridestinate fra anni, una sventura assoluta.
«Ecco le vere riforme di cui abbiamo bisogno. Se l’Europa spingesse su questo anziché chiedendo la privatizzazione dell’acqua che è un bene pubblico» dice Nikos, impiegato in un albergo, trentenne. Lui è uno di quelli che Tsipras non lo ha più votato. «Avevo votato No al referendum. Il No ha stravinto eppoi è arrivato il Sì. Figuriamoci. Io ero anche pronto a lasciare l’euro. Sarebbe stata una disgrazia ma cosa cambia? Non sarà una disgrazia anche ora?». Nikos si calma solo ricominciando a parlare di Atene, la sua città. Per via Benaki, passiamo davanti a uno delle migliaia di murales con cui i migliori street artist in circolazione stanno trasformando il volto della città. Lo indica orgoglioso. Porta la firma di un ragazzo balinese, WD, ossia Wild Drawing. Raffigura uno dei trentamila senzatetto di Atene addormentato su un marciapiede. Accanto, tremante, il titolo: “No Land for The Poor”. Ma Nikos dice che il titolo è sbagliato. Che la terra qui, per adesso, è ancora di tutti.

Appendice: intervista a Petros Markaris

La casa di Petros Markaris, settantottenne re del noir greco, è in una di quelle stradine ateniesi in cui improvvisamente dal caos si sprofonda in una dimensione fatta di pace, bar, chiacchiere, ombra di alberi e traffico interdetto. Kostas Charitos, l’eroe a cui Markaris, dopo una vita da traduttore, sceneggiatore e drammaturgo, ha ceduto le chiavi della sua riflessione sociale, s’infila spesso in stradine del genere. Per riscoprire la sua città, ripensarla, condannarla, amarla, come nell’ultimo esemplare della cosiddetta “trilogia della crisi”: Titoli di coda (Bompiani).
È tutto quello che capita in questo pomeriggio, in cui Markaris passa continuamente dall’invettiva alla dichiarazione d’amore sconsolato per un paese che lui, nato a Istanbul da famiglia greco armena, ama smisuratamente e che soffre a vedere immerso in correnti apparentemente destinate a trascinarlo via.
«Alexis Tsipras è un genio della comunicazione. Ma è un populista. Offre speranze di sicurezza a un Paese che da sempre ha bisogno di sicurezza e che per questo vuole l’Europa» dice all’indomani del voto «Mi ricorda Andreas Papandreou (il fondatore del PASOK). Se chiudo gli occhi a ascoltarlo, il timbro della voce, l’andamento dei suoi discorsi, i contenuti, ogni cosa mi ricorda Andreas. Ma da quel PASOK tutto è cambiato. Innanzitutto allora i soldi arrivavano a palate e oggi non ce ne sono proprio più. E in secondo luogo il partito di Papandreou era unito e lui lo gestiva da padrone. Syriza invece è un insieme di forze diverse, opinioni, leader che si trovano spesso l’uno contro l’altro. Non so come potrà gestire il futuro, Tsipras. Anche perché arrivano tempi durissimi. Ciò che richiede il memorandum firmato a luglio in molte parti non è applicabile. Lo sanno anche coloro che lo hanno imposto».
Il motivo per cui lo abbiano imposto secondo Markaris è chiaro: «Si è trattato di una punizione per Tsipras che aveva creduto di poter dissentire. Il referendum è stato un grande errore. Si devono conoscere i propri antagonisti quando si va alla guerra. Tsipras non conosceva l’Europa. Col no del referendum si è sentito forte in Grecia, ma poi a Bruxelles lo hanno piegato sulla sua reale debolezza. E lo hanno punito. D’altronde quando si è soli contro tutti non si vince mai».
Lo spazio del dissenso in Europa si è davvero esaurito? «Sì. Ti dicono che puoi fare elezioni ma che la politica sarà quella che decidono loro. Che Europa è questa? Io non ho neppure votato, stavolta. Lo trovavo inutile. E del resto quel che cambierà e sovvertirà lo stato delle cose non poteva essere un piccolo Paese che da solo fa la voce grossa. Saranno le ondate di profughi che nessuno può fermare. Un cambiamento epocale che ha mostrato tutta insieme la debolezza europea. Neanche su questioni così immense riescono a prendere una posizione veloce, unita e forte. E dov’è la sinistra in tutto questo? Scomparsa. Dominano i mercati e il malcontento mentre le formazioni radicali ne approfittano. Inutile lamentarsi, però. O si lascia questa Europa con tutte le conseguenze del caso. O ci si sta dentro per quel che è. Tanto cambierà tutto, fra poco, lo ripeto. Non riusciamo neanche a immaginare come».

Fonte: minimaetmoralia.it 

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