La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 16 ottobre 2015

Carl Schmitt, la maschera e la legge

di Luigi Azzariti-Fumaroli
Non essendo una potenza, la riflessione non può ingaggiare battaglia con le potenze; contro di loro, al più, può ingaggiare delle azioni di guerriglia: «non può – ha scritto Gilles Deleuze – dialogare con loro, non ha nulla da dire, nulla da comunicare, può solo avviare dei pourparler». Ed è in questa dimensione quasi svagata che nel 1971 Carl Schmitt, colui che con la sua comprovata esperienza di studioso attento ai temi della fine della democrazia era stato chiamato a dare un fondamento giuridico alla dittatura hitleriana, concesse una lunga intervista a Klaus Figge e a Dieter Groh per conto dell’emittente radiofonica Südwestrundfunk.
Si era in un tempo nel quale la controversa figura del giurista di Plettenberg aveva riottenuto la ribalta, per l’appoggio da lui offerto ai movimenti studenteschi nei quali egli aveva voluto riconoscere una nuova declinazione di quel concetto di «decisione» che aveva conosciuto la sua prima effettiva trasposizione nelle determinazioni assunte dal partito nazionalsocialista detentore, nel ’33, «del possesso degli strumenti legali del potere» atti a renderlo non più un movimento politico, ma un vero e proprio Stato.
Sebbene quindi ispirata dai rischi sottesi al rinnovarsi d’istanze e contestazioni avanzate da gruppi d’opposizione extraparlamentare, la conversazione aveva soprattutto lo scopo di conoscere quanto fosse accaduto al momento della presa del potere da parte di Hitler e di come Schmitt si fosse comportato nei confronti del nazismo.
A dispetto dello spesso divagante conversare dell’intervistato, i suoi interlocutori muovono dalla convinzione che il linguaggio sia legato a una determinata «angolazione» del tempo storico, dal quale esso riceverebbe la propria esatta misura. Il puntiglioso elenco degli accadimenti che connotarono gli anni di formazione, di studio e quindi di avvicinamento e di adesione al regime nazista, quale è da Schmitt seguito ripercorrendo con puntiglioso scrupolo le pagine dei suoi diari, parrebbe in tal senso soddisfare l’esigenza di legare indissolubilmente la propria parola alla storia scritta e questa, in ultima analisi, al calendario. Il calendario sembra infatti offrire protezione di fronte al rischio d’essere frainteso, di cadere in errore, di ammettere una responsabilità. Insomma, come al riguardo Schmitt stesso afferma: «senza calendario niente storia». Del resto, riportare nell’ambito della storia quotidiana il proprio engangement coi nazionalsocialisti è insegnamento che, al pari della tesi di una politicizzazione postuma della teologia, Schmitt parrebbe trarre da Agostino. Questi, nella sua ricerca sul tempo, ambiva a una conoscenza evidente, in virtù della quale si può vedere solo ciò che «è». Allo stesso modo, Schmitt rivendica l’esigenza di non separare mai la propria testimonianza dall’evidenza offerta dai suoi appunti; anzi, egli sostiene che l’inizio di ogni scienza storica sarebbe vincolato alla scrittura, «segue uno sciame di parole che va a cascare dietro il mondo», dimentico di tutto.
Tale passione per la scrittura, che sembra richiamare Schmitt nel novero dei protestanti anziché dei cattolici (se è vero che – sosteneva Hugo Ball – per i seguaci di Lutero «nero su bianco e molto chiaramente dev’essere leggibile quello che uno intende dire»), parrebbe d’altra parte implicare una sottile strategia apologetica. Che non teme di diventare farsesca allorché, continuando a valersi delle proprie effemeridi, si impone di rispondere alla domanda «da quanto partecipò al potere?» con un gaglioffo: «era un lunedì, lunedì era il 3 aprile, perciò partecipai al potere da questa data in poi». Appare qui evidente come l’ambizione di fissare tutto in base al calendario ubbidisca, nella ribalda facondia di Schmitt, al progetto di porre in prospettiva storica ogni proprio atto, così da renderlo parte integrante di un’operazione volta, come accade in ogni storiografia, a «comprendere» posizioni antinomiche e così «ridurre» l’elemento aberrante, il quale «diventa un caso particolare che si inscrive come dettaglio positivo nella testimonianza» (Michel de Certeau).
Benché tentato dal giustificare la prossimità al regime nazista trincerandosi dietro l’eterno ideale di onestà tipico del soldato, già invocato da Eichmann nove anni prima (ovvero: «so cosa devo fare perché è ciò che mi viene ordinato di fare»), Schmitt, da sostenitore dell’esigenza di una «Costituzione scritta», perché solo così dotata di forza di legge, si presenta qui nelle vesti di filologo avvertito di come la cronologia storica riesca a comporre una struttura analoga all’architettura dei luoghi e dei personaggi in un romanzo picaresco. Di questo Schmitt è cosciente: al punto da prendere congedo dai propri interlocutori proprio evocando la figura del picaro, evidentemente alludendo allo schema che tale figura esprime; uno schema che non si estrae necessariamente dalla realtà ma deriva – ha fatto osservare Francisco Rico – da una fortunata elaborazione romanzesca. L’eroe del romanzo picaresco è anzitutto «una forma e una formula narrative».
Laddove Heidegger, rispetto alle proprie implicazioni col nazismo, non si lasciò mai indurre a una dichiarazione dettata da una reazione morale, facendo in modo che il suo silenzio rappresenta l’obbligo di pensare ciò che egli non ha pensato, Schmitt appare smanioso di conferire al proprio ruolo, non importa quanto effettivamente prominente, un significato si starebbe quasi per dire dadaista, perché «il gesto del dadaista è quello di un gladiatore, un trastullo con dei miseri resti, un’esecuzione capitale della moralità ostentata. Ogni genere di maschera gli è gradita, come lo è il gioco a nascondino che implica un inganno».

Fonte: Alfabeta2

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