La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 16 ottobre 2015

Sel si spacca sulla Cosa rossa: poltronisti filoPd contro base filounità

di Luca Sappino
Parto complicato è quello della Cosa rossa. Per sintesi la situazione è questa. Gli interessati - si va da Giuseppe Civati,Sergio Cofferati eStefano Fassina ai partiti che animarono la lista Tsipras alle ultime europee - hanno i programmi in comune ma non riescono proprio a intendersi sul da farsi per stare insieme e stenta ad arrivare, ad esempio, la convocazione di una fase costituente.
Ad allontanare l’appuntamento ci si è messa prima la fondazione di Possibile, il movimento di Civati («Io non volevo fare una sigla in più, ho messo Possibile a disposizione di tutti», dice; «Non è vero», replicano gli altri), poi la vicenda dei referendum falliti (che Civati ha voluto fare, fermandosi a circa 300mila firme, e Sel e gli altri - Fiom compresa - no), e ora il nodo delle alleanze alle amministrative.
Sempre per sintesi: Civati, Fassina, Rifondazione e parte di Sel vogliono rompere con il Pd di Renzi ovunque, Nichi Vendola - spinto da pezzi istituzionali del partito e dal partito milanese, soprattutto - no.
L’ex presidente della regione Puglia al manifesto l’ha detta così: «Su una cosa Civati ha ragione: sul pro­filo di auto­no­mia politico-culturale che deve avere la nuova sini­stra. Ma l’autonomia non può essere inter­pre­tata come la pro­pone l’ultimo che è uscito dal Pd e cioè come una rot­tura gene­ra­liz­zata con il Pd senza guar­dare in fac­cia le situa­zioni spe­ci­fi­che». In particolare Vendola vuole tenere in piedi l’alleanza con il Pd a Milano e a Cagliari. E se Cagliari, ad ascoltarlo bene, potrebbe esser l’unica eccezione anche per Civati («Secondo me Zedda prende più voti e vince meglio se fa a meno del Pd, ma se non se la sente, certo non mi metto a presentare un candidato alternativo», ha detto durante un’assemblea a Viterbo), Milano è invece una rottura fondamentale per l'ex Pd: «Mi sembrerebbe folle fare un campagna elettorale in cui dovremo spiegare da una lato che la riforma costituzionale del Pd segue una deriva autoritaria, e dall’altro che con il Pd vogliamo governare insieme una città come Milano». O Roma o Bologna. Già.
Perché non c’è solo Milano, ovviamente, che va al voto a maggio: e se a Bologna le ultime scelte di Merola e lo sgombero del centro sociale Atlantide hanno aiutato Sel a sciogliere ogni riserva dando il via al percorso unitario e autonomo (così come sarà a Napoli e a Torino), anche a Roma pezzi del partito di Vendola preferirebbero non rompere. Nonostante l’affaire Marino, nonostante il Pd sia giudicato parte del problema della città. Le ragioni sono ben argomentate, per carità. Rompendo a Roma - è però un punto spesso omesso - si teme che di mettere in crisi anche la regione Lazio, dove invece il centrosinistra è saldo. Proprio da lì si leva una delle voci più preoccupate per la tenuta dell’alleanza, quella di Massimiliano Smeriglio, vicepresidente della Regione.
Nel suo ultimo libro (A fattor comune, Bordeaux), intervistato da Daniela Preziosi, sempre de il manifesto, Smeriglio dice: «Chi pensa di utilizzare le amministrative per contarci in un processo a freddo di antagonismo al Pd anziché misurarci con un progetto città per città sbaglia in maniera grossolana». Ma non c’è però solo Massimiliano Smeriglio o Gianluca Peciola, consigliere comunale a Roma, o Paolo Cento il coordinatore romano del partito che da un lato si appella a Civati per costruire la lista civica a sinistra, dall’altro (fosse pure per tenere insieme i pezzi) chiede che le primarie «non siano monopolizzate da palazzo Chigi» (e se ci sono le primarie, vuol dire che c’è la coalizione con il Pd). Non c’è solo la partita sui territori.
Come gìà per il voto sulle riforme costituzionali, si fanno insistenti i timori sulle scelte future dei senatori Dario Stefàno e Luciano Uras. Ora che Matteo Renzi ha perso un pezzo di Ncd, in Sel temono che qualcuno possa fare la scelta che già fecero alla Camera alcuni colleghi ai tempi dello strappo di Gennaro Migliore. E se non bastasse il tweet con cui Stefàno apprezza un aspetto della manovra finanziara presentata dal governo Renzi, i due hanno scritto un post, insieme, abbastanza chiaro.
Riprendendo un passaggio della lettera con cui Pietro Ingrao annunciava il suo voto a Sel - e alla coalizione di centrosinistra, ma era il 2013 e c’era Bersani -, i due aprono la strada all’addio. Se Ingrao scriveva che «solo una vittoria netta del centrosinistra può creare le condizioni perché le lotte non esprimano solo rabbia, ma si traducano in cambiamenti concreti», i due aggiungono sull’Huffingtopost che «oggi solcare quel terreno richiede scelte coraggiose, ancora più coraggiose dei tempi della fondazione di Sel. Richiede l'abbandono delle logiche minoritarie, dell'approccio da aggregazione compressa, divisiva e dai contorni ambigui.
Richiede di scegliere tra la costruzione di un'ampia area politica di governo democratico e di sinistra e una discutibile nostalgia verso un passato di testimonianza ideologica, già sperimentato, anche nei suoi esiti fallimentari per le istanze delle classi popolari». La sintesi sembra dunque abbastanza semplice. Azzardiamo: se Sel segue la strada di Civati e Fassina scavando un solco tra la sinistra e il Pd, Uras forse no, ma Stefàno difficilmente ci sarà.
Lunedì 19, comunque, tutti i soggetti della frastagliata sinistra si riuniranno nuovamente a un tavolo comune. L'ultima volta neanche lì è andata benissimo: «Generalmente Civati non partecipa se non con emissari, e questo non ci aiuta neanche nel nostro dibattito interno», dicono da Sel; «Civati si comporta come un elefante in cristalleria», ha sintetizzato Vendola. Ma poi, dopo una presidenza molto vivace, il partito di Vendola riunirà il 24 ottobre la propria assemblea. Lì toccherà tirar fuori una sola versione delle due diverse che hanno visto divedersi anche Nichi Vendola, il presidente, da Nicola Fratoianni, coordinatore del partito, che senza i toni di Civati è però per stabilire in maniera netta la rottura con il Pd di Renzi, senza tenere aperta quella a molti pare proprio una porta per eventuali prossime elezioni politiche, sperando magari - come fa allo scoperto solo Stefàno, ma non è il solo - in una modifica dell’Italicum.

Fonte: L'Espresso

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