La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 17 ottobre 2015

I nuovi schiavi, l’ultimo regalo a caporali e imprenditori

di Antonio Bevere
È ormai sotto gli occhi di tutti che frutta e ver­dura, nel con­sumo e nella tra­sfor­ma­zione indu­striale, sono in gran parte di «pro­ve­nienza delit­tuosa»: giun­gono nei mer­cati e nelle fab­bri­che gra­zie all’opera di lavo­ra­tori che svol­gono la loro atti­vità in con­di­zioni di sfrut­ta­mento, penal­mente rile­vante, a norma dell’art. 600 del codice penale.
E’ noto che que­sto arti­colo tratta un delitto a fat­ti­spe­cie plu­rima: nel campo lavo­ra­tivo, chi lo com­pie, alter­na­ti­va­mente, eser­cita su una per­sona i poteri del pro­prie­ta­rio, che, impli­cando la «rei­fi­ca­zione» della vit­tima, ne com­porta «ex se» lo sfrut­ta­mento (ridu­zione e man­te­ni­mento in schia­vitù), ovvero appro­fitta dello stato di neces­sità del lavo­ra­tore e lo pone in uno stato di sog­ge­zione con­ti­nua­tiva, che ne com­porta lo sfrut­ta­mento (ridu­zione o man­te­ni­mento in ser­vitù). In entrambi i casi il col­pe­vole è punito con la reclu­sione da otto a venti anni.
Dal codice (art. 603 bis) sono chia­ra­mente scan­diti i fatti che dimo­strano l’esistenza di un rap­porto di lavoro in cui la parte forte (l’imprenditore) sfrutta la parte debole: siste­ma­tica retri­bu­zione in misura ille­gal­mente ridotta; vio­la­zione della nor­ma­tiva su ora­rio, riposo set­ti­ma­nale, sicu­rezza e igiene nei luo­ghi di lavoro; sot­to­po­si­zione a con­di­zioni lavo­ra­tive, a metodi di sor­ve­glianza, a situa­zioni allog­gia­tive par­ti­co­lar­mente degra­danti.
Que­sti dati sono nella norma che vieta l’intermediazione tra lavo­ra­tore sfrut­tato e imprenditore.
L’intermediario (il capo­rale, la cui mol­te­plice figura cri­mi­nale è ben descritta da Fio­rella Fari­nelli sul quin­di­ci­nale “Rocca”) è punito con pena meno pesante (da 5 a 8 anni di reclu­sione), rispetto a quella pre­vi­sta per l’utente finale del lavoro ser­vile. L’attenzione delle isti­tu­zioni e degli organi di infor­ma­zione dovrebbe essere quindi mag­gior­mente mirata sul reato più grave (ridu­zione in ser­vitù) e sul sommo ver­tice dello sfrut­ta­mento di uomini e donne in stato di neces­sità, cioè sul pro­prie­ta­rio ter­riero e comun­que sull’imprenditore inte­res­sato alla rac­colta e alla tra­sfor­ma­zione di uva, pomo­doro, olive.
L’attenzione e la seve­rità della magi­stra­tura dovreb­bero essere incre­men­tate dagli eventi mor­tali della pas­sata estate: il decesso del brac­ciante sot­to­po­sto allo sfrut­ta­mento rende neces­sa­rio accer­tare se l’evento mor­tale, sicu­ra­mente non voluto, sia stato con­cre­ta­mente pre­ve­di­bile, alla luce delle disu­mane ed inci­vili con­di­zioni di lavoro, sta­bil­mente impo­ste durante la rac­colta di frutta e ver­dura. L’indagine di poli­zia e magi­stra­tura è in grado di veri­fi­care se l’utilizzatore del lavoro ser­vile possa essere chia­mato, a norma dell’art. 586 c.p., a rispon­dere, a titolo di dolo, della ridu­zione in ser­vitù (art. 600) e, a titolo di colpa (con pena più severa), della morte non voluta ma pre­ve­di­bile del lavo­ra­tore (tem­pe­ra­tura afri­cana, ritmi mas­sa­cranti, insop­por­ta­bile numero di ore).
Siano ben­ve­nute le cam­pa­gne cono­sci­tive delle isti­tu­zioni locali e la pro­spet­tata inda­gine par­la­men­tare sul feno­meno del capo­ra­lato e sul reato sus­si­dia­rio pre­vi­sto dall’art. 603 bis, pur­ché non rien­trino, invo­lon­ta­ria­mente, nel dise­gno del tacito allen­ta­mento repres­sivo, per rico­no­sci­mento dello stato di neces­sità, verso il prin­ci­pale mandante-utente-beneficiario dei mer­canti di brac­cia, respon­sa­bile del più grave reato di ridu­zione in servitù.
Nell’attuale rilan­cio della libertà di impresa, il padrone potrebbe appa­rire meri­te­vole di atte­nua­zione del rigore inve­sti­ga­tivo e puni­tivo, in quanto oppresso dalle natu­rali sca­denze sta­gio­nali e dalla dif­fi­coltà di abban­do­nare un metodo di lavoro in cui costi, ritmo e moda­lità devono fare i conti con la depe­ri­bi­lità dei pro­dotti da rac­co­gliere e da tra­sfor­mare, non­chè con la con­cor­renza stra­niera.
In chiave di rea­li­stica poli­tica cri­mi­nale può essere inter­pre­tata l’abrogazione, con decreto del 15.6.2015, del reato di som­mi­ni­stra­zione frau­do­lenta di mano­do­pera, com­messa «con la spe­ci­fica fina­lità di elu­dere norme inde­ro­ga­bili di legge o di con­tratto col­let­tivo appli­cato al lavo­ra­tore» (su que­sto cadeau del legi­sla­tore, v. Asnaghi-Rausei su bol­let­tino Adpat). La san­zione pre­vi­sta per il reo era di 20 euro per cia­scun lavo­ra­tore abu­si­va­mente impie­gato e per ogni giorno di uti­liz­za­zione fraudolenta.
Al di là della minima san­zione, la natura penale dell’infrazione con­sen­tiva inda­gini ido­nee alla rico­stru­zione delle ille­cite filiere di lavoro in nero e di sfrut­ta­mento in capo all’utilizzatore finale. L’abrogazione del reato osta­cola l’intervento di un’autorità ispet­tiva, lasciando al debole lavo­ra­tore la dimo­stra­zione della natura frau­do­lenta della som­mi­ni­stra­zione delle sue prestazioni.
L’opposizione alla moderna schia­vitù diventa quindi diretto com­pito di tutta la società che giu­dica non abro­ga­bile la tutela costi­tu­zio­nale dei lavoratori .

Fonte: il manifesto 

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