La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

lunedì 9 novembre 2015

Europa, Italia, Eritrea: patto di sangue

di Gianni Ballarini
Uscita dalle stanze del potere eritreo, la delegazione italiana sprizzava ottimismo nei commenti: «Dialogo aperto e franco», il giudizio di Raffaele De Lutio, direttore centrale per i paesi dell’Africa subsahariana della Farnesina. «Una svolta», la chiosa di Stefano Pontesilli, ambasciatore italiano ad Asmara. La missione ad alto livello in Eritrea era composta anche da Giampaolo Cantini, direttore generale della Cooperazione italiana e da Cristina Rovaglia, direttrice generale del dipartimento per gli italiani all’estero e delle politiche migratorie.
Il 24 marzo scorso, gli alti funzionari del ministero sono stati ricevuti dal presidente Isaias Afwerki, dal suo eterno consigliere politico Yemane Gebreab e dall’uomo forte dell’esecutivo, il generale Sebhat Ephrem, ex ministro della difesa, ora a capo del dicastero delle miniere e dell’energia, l’uomo che non solo conosce molto bene l’esercito, ma che attualmente gestisce i rapporti economici con chi vuole investire nel paese.
Gli italiani sono volati ad Asmara, ufficialmente, per riavviare il dialogo e l’aiuto bilaterale. Sono ritornati a Roma, lasciando in eredità la promessa di un finanziamento di 2,5 milioni di euro da investire in istruzione, sicurezza alimentare ed energia e ricevendo in dono da Gebreab un messaggio da portare a Bruxelles. Con due punti rilevanti: l’Unione europea e i suoi paesi, se vogliono impedire la fuga di migliaia di eritrei ogni mese, dovrebbero mettere fine al rilascio, quasi automatico, dell’asilo politico a chi scappa dall’Eritrea; Bruxelles, poi, dovrebbe allargare il cordone della borsa finanziaria, per sostenere lo sviluppo e il lavoro nel paese.
Afwerki e Gebreab si sarebbero mostrati disponibili, con la delegazione italiana, a ristabilire un minimo di democrazia nel paese, che risponda almeno in parte ai criteri occidentali, prevedendo da qui a 5 anni elezioni a livello locale. Avrebbero poi promesso di limitare il servizio di leva a 18 mesi, quando oggi l’Eritrea è un’immensa nazione-caserma, dove si veste la divisa a 18 anni e non si sa quando la si dismette.
Ma questa è una promessa che il regime fa regolarmente, ma che con altrettanta sistematicità disattende o smentisce. Infatti, il 21 giugno Afwerki, interrogato sul tema, ribadiva che la leva militare resta obbligatoria «perché non abbiamo altra scelta, a causa delle minacce poste dalla vicina Etiopia, un nemico con una popolazione 15-20 volte superiore alla nostra».
Collaborare con i dittatori.
Al di là delle chiacchiere, resta tuttavia il dato politico: l’Europa e alcuni suoi paesi stanno da mesi cercando un accordo con Asmara affinché blindi le frontiere, evitando, in questo modo, che l’Eritrea si confermi tra le maggiori esportatici al mondo di migranti e di richiedenti asilo. In Italia, ad esempio, nei primi nove mesi del 2015 sono arrivati oltre 130mila stranieri, con gli eritrei a rappresentare il gruppo più numeroso: 34.370 persone.
«L’Unione europea deve cooperare anche con i regimi dittatoriali per fronteggiare il fenomeno dell’immigrazione, contrastare i trafficanti e proteggere meglio i propri confini», la posizione ribadita dalla Commissione europea anche al termine della discussione tenuta a marzo a Bruxelles. «Questo non significa che vogliamo legittimare i dittatori», precisa il commissario per la migrazione Dimitris Avramopoulos. «Ma dobbiamo cooperare laddove abbiamo deciso di lottare contro il traffico degli esseri umani».
L’Europa sta predisponendo una serie di pacchetti di aiuto per sostenere questa politica: per l’Eritrea, ad esempio, ci sono in ballo 312 milioni di euro nel quadro dell’11° Fondo europeo per lo sviluppo, che copre il periodo 2014-2020 (il triplo di quello stanziato nel 2007 e che è stato utilizzato solo in parte dal regime di Asmara). Ma il 14 settembre, il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, ha annunciato lo stanziamento di 1,8 miliardi di euro per istituire un “fondo fiduciario di emergenza per la stabilità e di lotta contro le cause profonde della migrazione irregolare in Africa”. Copre la zona saheliana, l’Africa orientale e il nord del continente. Il suo utilizzo verrà chiarito al meeting de La Valletta (Malta) l’11-12 novembre, dove sono stati caldamente invitati tutti i presidenti africani i cui paesi sono coinvolti nel fenomeno migratorio. A partire proprio da Isaias, dato che all’Eritrea sembra destinata una grossa fetta di quel fondo.
Appare evidente come sia forte la pressione dei vari governi dei paesi membri dell’Ue a strumentalizzare i fondi di sviluppo e di cooperazione per una politica di “esternalizzazione” delle forme di controllo e di contenimento dei flussi migratori direttamente nei paesi da cui le persone scappano. Lasciando solo sullo sfondo e come eventuale (e non quindi come precondizione per l’avvio di qualsiasi tipo di rapporto) la richiesta ai regimi, come quello eritreo, del rispetto delle norme universali dei diritti dell’uomo.
Le ipocrisie europee.
Sotto la pressione di un’opinione pubblica spaventata dai numeri delle migrazioni, ci sono alcuni paesi europei per i quali Asmara si sarebbe già convertita alla democrazia, facendo passi da gigante sulla tutela dei diritti. È del novembre del 2014 la pubblicazione del Servizio immigrazione danese di un rapporto in cui si evidenzia «un’evoluzione positiva delle condizioni di vita in Eritrea». Per Copenaghen è perfino sicuro il rientro a casa dei migranti scappati oltre confine. L’obiettivo è chiaro: minimizzando la gravità della situazione dei diritti umani, si rende più facile respingere le domande di asilo. Anche Norvegia e Gran Bretagna hanno inviato, sul finire del 2014, le loro delegazioni ad Asmara. Secondo alcuni funzionari delle Nazioni unite, citati dal quotidiano britannico The Guardian, anche il segretario di stato norvegese Jøran Kellmyr avrebbe siglato con Afwerki un accordo che consente al suo paese di ricacciare indietro i migranti eritrei. Il Britain’s Home Office, il ministero dell’interno britannico, ha pubblicato un rapporto, a marzo 2015, in cui sostiene che «il servizio militare eritreo non può essere assimilato a una persecuzione, né a un trattamento degradante o a un lavoro forzato. E coloro che rifiutano il servizio non sono considerati in patria né come traditori né come oppositori politici. Quindi è poco probabile che questi individui siano stati arrestati al loro ritorno in Eritrea».
Secondo il The Guardian, anche l’Italia vorrebbe seguire l’esempio britannico e norvegese. Dalla Farnesina nessun commento. Tuttavia ha creato qualche leggero imbarazzo l’eccessivo entusiasmo mostrato dall’ambasciatore italiano ad Asmara nei confronti del regime. Africa confidential racconta di un incidente diplomatico sfiorato in cui sarebbe incorso l’ambasciatore Pontesilli. Il 2 giugno ha invitato a Villa Roma, la sua residenza ad Asmara, il consigliere politico Gebreab in occasione della festa della repubblica. E il consigliere fidato di Afwerki non si è fatto alcuno scrupolo a twittare, subito dopo, gli elogi sperticati ricevuti da Pontesilli sulle condizioni del paese. Cattivo tempismo per l’ambasciatore, visto che sei giorni dopo sarebbe uscito il rapporto dell’Onu (vedi box) che l’ha clamorosamente contraddetto e nel quale si descrive un paese, l’Eritrea, «governato dalla paura e non dalle leggi».
Dalla Farnesina si rompe il silenzio solo per precisare alcuni aspetti della missione italiana ad Asmara. Tra cui:
a) «I rapporti diplomatici tra Italia ed Eritrea non erano interrotti prima della visita della delegazione il 24 marzo scorso, così come le relazioni economiche. Non vi era quindi nessuna necessità di riaprirle». (In effetti, già Lapo Pistelli, ex viceministro degli esteri, rilanciò le relazioni bilaterali con la sua visita ad Asmara il 2 luglio 2014, che interruppe un’assenza istituzionale italiana di 17 anni).
b) «La risposta alla domanda “Cosa spinge migliaia di eritrei a scappare dal loro paese?” è forse scontata e attiene a un mix di motivazioni di origine politica, derivanti dalla mancanza di diritti e libertà fondamentali, ed economiche legate all’assenza di sviluppo e di prospettive individuali. A fronte di tale consapevolezza si registrava l’assenza di una qualsiasi strategia politica tesa a rimuovere o almeno attenuare gli effetti di tale problematica. La risposta data dalla comunità internazionale sembrava limitarsi all’attesa che prima o poi, per consunzione interna, il regime dovesse crollare. Abbiamo ritenuto che nell’attesa, il prezzo da pagare, anche in termini di vite umane, fosse eccessivo e che qualcosa andava tentato».
c) «Il tentativo di riavviare un dialogo politico con l’Eritrea persegue varie finalità: coinvolgere il paese nel quadro del “Processo di Khartoum” sulle migrazioni; ottenere l’allentamento di alcune misure interne in materia di libertà e diritti civili, in primis la riforma della normativa in materia di Servizio nazionale civile; creare le condizioni per l’avvio di iniziative di cooperazione volte ad alleviare il disagio e la povertà delle popolazioni civili».
Quando poi è stato chiesto alla Farnesina il dettaglio su quali rassicurazioni e impegni concreti il regime avrebbe fornito in cambio delle aperture italiane, non è arrivata alcuna risposta ufficiale.

Fonte: Nigrizia

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