La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

lunedì 9 novembre 2015

I guru dell’individualismo di massa. Sugli hipsters

di Daniela Voso
Alcuni sostengono che il fenomeno hipster sia in discesa e che stia per scomparire. Negli Stati Uniti ha avuto già due fasi dal 1999 al 2009, soprattutto a New York, San Francisco, Los Angeles e Seattle; in Europa ha raggiunto il suo apice con un decennio di ritardo, e città come Milano o Roma ne sono ancora piene. Questo particolarmente negli ambienti in cui si concentrano artisti, designer, lavoratori della comunicazione, pubblicitari e creativi in genere. Dunque il Pigneto e Monti per Roma; da via Paolo Sarpi ai Navigli, a Milano.
Una delle peggiori offese che si possa fare a un hipster è quella di chiamarlo hipster. In linea con un esasperato narcisismo, l’hipster non ama essere racchiuso in una definizione, non ama che la sua immagine possa legarsi a uno stereotipo e soprattutto non ama essere uguale a qualcun altro. Detesta essere ciò che oggettivamente è: parte di una serie, o forse l’espressione della nuova conquista capitalista, nello specifico la colonizzazione di un nuovo territorio di consumatori omologati. Resta pertanto impossibile dare una definizione in cui un hipster si possa riconoscere. Chi sono allora gli hipsters degli anni ’10 in Italia?
Ho provato per gioco a domandare ad alcune persone tra amici e non. Tra le risposte più diffuse, numerose varianti di “modaioli” o “molto troppo modaioli”. In sintesi: una tendenza del momento. Esiste di fatto un senso di generalizzato disprezzo per questo soggetto alla moda, pigro e autocentrato, impegnato anima e corpo alla ricerca di essere figo figo in modo assurdo. Tra le diverse risposte, quella più interessante mi è stata data però da un giovane incontrato per caso sul treno: «Gli hipsters? Sono forse quei tipi che sembrano dei nerd e che in realtà sono dei fighetti?». Questa apparente semplificazione coglie invece uno dei nodi caratteristici dell’identità hipster. Fare o essere hipster è infatti innanzitutto uno stile di vita. L’hipster di oggi non ha nulla a che vedere con i White Negroes degli anni ’50: è principalmente bianco, ascolta musica indie, mangia bio e prodotti a km 0 (è locavore), si muove in biciletta (magari a scatto fisso), è alla continua e fanatica ricerca dei “buoni sapori di una volta”. La costruzione della sua immagine, come le sue scelte di vita, sono il risultato di una nostalgia per il passato conciliata con l’uso disinvolto delle tecnologie digitali più recenti. Si parla tuttavia di un passato che ci appartiene solo per un verso, perché è quello dell’America degli anni settanta, con alcune concessioni frutto di un’evoluzione interna al fenomeno che raggiunge uno strano sincretismo tra l’estetica rude del boscaiolo americano e quella elegante del dandy europeo. Pertanto camicia di flanella scozzese a quadri e hermit bear si alternano a favoriti, baffi, barbe e acconciature in stile vittoriano. A questi si aggiungono i pantaloni stretti con il risvoltino e gli occhiali con la montatura spessa. In altri termini l’hipster ha recuperato oggetti e comportamenti fuori moda o considerati senza stile nelle comuni accezioni metropolitane per trasformarli nella propria grammatica distintiva rispetto alle masse.
Tuttavia, nonostante la concordanza tra abbigliamento, musica, stile di vita e dimensione massiccia del fenomeno, questo non può essere racchiuso all’interno dei parametri classici propri di una moda giovanile. Gli hipsters delle nostre città non sono adolescenti né studenti, hanno almeno dieci anni di più, e non hanno neppure una posizione politica di qualunque tipo, anzi sono post-politici. Ogni sera file di trenta e quarantenni escono dai portoni di casa per colonizzare i bar di quartiere e, oltre a rovistare tra cantine e soffitte alla ricerca di borsette vintage e giradischi portatili Crowsley, sborsano centinaia di euro in vestiti American Apparel, camice scozzesi (per lei) o floreali (per lui), nel tredicesimo tatuaggio, nell’acquisto dell’ultimo iPhone e in Moscow Mule serviti nei barattoli per le marmellate Quattro Stagioni. Pur appartenendo alla generazione TQ, nella percezione comune l’hipster non ha famiglia: se ce l’ha la nasconde. Certo: l’ingresso nel mondo del lavoro avviene sempre più tardi; e se la fascia d’età in cui erano compresi i giovani negli anni sessanta arrivava a 21 anni oggi si è estesa fino ai 40. Rispetto alla quotidianità, poi, se a 45 anni ancora non hai famiglia, con molta probabilità continui a condurre la stessa vita di quando ne avevi 16 conciliando responsabilità, scuola-università-lavoro, con momenti di socialità fuori casa, party-concerti-aperitivi; se hai famiglia e sei un intellettuale o un creativo, lo stesso, magari cambiando gli orari delle tue attività e la capacità di restare sobrio. In ogni caso, oggi rispetto alla tua adolescenza, hai più soldi a disposizione e la necessità di gestire diversamente le energie. Il dato che colpisce è la dimensione massiccia di questa estetizzazione del trenta-quarantenne alla ricerca (o nel suo tentativo) di uno stile “diverso” e fuori dal comune senso estetico, e il suo carattere inedito. Per la prima volta, un atteggiamento che finora era esclusivo di adolescenti o ventenni si replica nelle fasce d’età superiori e già produttive, come una sorta di esaltazione della creatività del singolo e dell’affermazione della sua specificità rispetto a un’ipotetica massa omologata, che tuttavia genera, di fatto, un nuovo fenomeno di massa.
A tratti sembra di trovarsi di fronte a un movimento di riflusso che mette l’individuo al primo posto. Una forma di anarco-individualismo non sostenuto da una forma di coscienza politica. Nostalgico del passato in piena era capitalista, al riuso creativo dell’oggetto dimenticato in soffitta l’hipster alterna l’acquisto di nuove tecnologie, ma soprattutto orienta i suoi consumi concentrandosi sui momenti di socialità, innovazione e condivisione. Se si esclude la ricerca ossessiva di comportamenti eco-friendly e trovate tecnologiche per migliorare la qualità della vita secondo le autenticheesigenze del singolo senza inseguire “bisogni indotti”, privo di senso di colpa e votato al piacere edonista l’hipster è lontano dal mondo della politica. Per certi versi appare addirittura un reazionario, così come il dandy, l’aristocratico che non voleva accettare la sua decadenza. In ogni luogo in cui vadano a risiedere, gli hipsters fanno schizzare il costo della vita diventando il simbolo dei processi di gentrificazione dei centri urbani e dei quartieri degradati. Di recente a Londra nell’area di Brick Lane durante una protesta contro l’aumento degli affitti, i dimostranti si sono accaniti, ricoprendolo di vernice, sul Cereal Killer Cafe, ritenuto il simbolo della gentrificazione del quartiere portata dagli hipsters. Il Cereal Killer Cafe è un bar monoprodotto che vende esclusivamente cereali provenienti da tutto il mondo, da abbinare a numerosi tipi di latte. Un esercizio commerciale di cui, certamente, si sentiva il bisogno.
Nessuno può avere paura di una tazza di cereali; eppure questa caratteristica del caso potrebbe apparire particolarmente emblematica. È un fatto che le pubblicità dei cereali (e delle merendine) sono state considerate per anni il primo strumento di educazione al consumo delle giovani generazioni, spesso passata attraverso la personificazione del prodotto con personaggi come Clementina del Mulino Bianco o Tony la Tigre per la Kellog’s. Mark Greif in What Was the Hipsters (n+1 Foundation, New York 2010) scriveva che nel 1999 i primi neo-hipster spuntarono a Seattle proprio in reazione all’apice della protesta alterglobalista. Per i neo-hipster il rifiuto del prodotto di massa va allora di pari passo a una sua ammissione spensierata, come liberazione dalle opposizioni ai brand tipiche delle controculture giovanili degli anni ’90. Fin qui tutto bene, il superamento programmatico delle tendenze precedenti è generalmente il punto di partenza di ogni controcultura, ma quella hipster non è una controcultura. L’hipster appartiene alla stessa generazione dei gruppi che fino al 2001 gridavano “No Logo” e “No Oil” indossando felpe con cappuccio e pantaloni larghi, ma quella hipster è una cultura priva di impegno politico. L’hipster non è di sinistra, non è di destra: è post-politico. In un momento di crisi economica che ha investito l’Occidente, l’hipster ritrova nella sfera individuale e in quella ridotta del quartiere la sua dimensione. Non importa che si viaggi da Parigi a Londra a New York (l’hipster è cittadino del mondo) importa che ovunque si vada ci sia la vita di quartiere. Mentre la civiltà crolla, loro si ritirano in piccole nicchie: sono i guru dell’individualismo di massa.

Fonte: Le parole e le cose 

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