La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 10 novembre 2015

Kissinger, il bombardatore


di Greg Grandin 
Nell’aprile del 2014 l’ESPN ha pubblicato una fotografia di un duo improbabile: Samantha Power, ambasciatrice USA all’ONU e l’ex consigliere per la sicurezza nazionale e segretario di stato Henry Kissinger, alla partita di apertura del campionato tra gli Yankees e i Red Socks. In giubbini di lana in un caldo giorno di primavera godevano visibilmente della reciproca compagnia, mostrandosi a tutto il mondo come una versione geopolitica del ventunesimo secolo di Katherine Hepburn e Spencer Tracy. Le facezie sottintese, tuttavia, non erano a proposito di sesso, bensì di morte.
Da giornalista la Power si era fatta un nome come difensore dei diritti umani, conquistando un Premio Pulitzer per il suo libro A Problem from Hell: America and the Age of Genocide [Un problema infernale: gli Stati Uniti e l’era del genocidio]. Avendo lavorato presso il Consiglio della Sicurezza Nazionale prima di passare all’ONU, era considerata un “falco liberale” influente dell’era Obama.

Era anche una musa ispiratrice di un gruppo di protagonisti della politica e di intellettuali che ritengono che la diplomazia statunitense dovrebbe essere guidata non da interessi economici o di sicurezza nazionale, bensì da ideali umanitari, specialmente la promozione della democrazia e la difesa dei diritti umani.
Gli Stati Uniti, la Power ha a lungo affermato, hanno la responsabilità di proteggere i più vulnerabili del mondo. Nel 2011 ha avuto un ruolo cruciale nel convincere il presidente Obama a inviare l’aviazione statunitense a impedire che militari leali all’autocrate libico Muammar Gheddafi massacrassero civili. Quella campagna condusse alla sua morte, al rovesciamento violento del suo regime e, alla fine, a uno stato in rovina e crescente roccaforte dell’ISIS e di altri gruppi terroristici. Per contro Kissinger è identificato con una scuola di “realismo politico” che afferma che il potere statunitense dovrebbe servire gli interessi statunitensi, anche se ciò significa sacrificare i diritti umani altrui.
Secondo l’ESPN la Power aveva scherzosamente chiesto a Kissinger se la sua fedeltà agli Yankees era dovuta a “conservare una prospettiva realistica sul mondo”. La Power, una fervente tifosa dei Red Sox, solo recentemente non era riuscita a convincere le Nazioni Unite ad avallare una campagna di bombardamenti statunitensi in Siria, e perciò Kissinger non ha potuto resistere a rispondere con una frecciata delle sue. “Potresti finire” ha detto “a fare cose più realistiche”. Era il suo modo per suggerire che lei lasciasse i Red Sox per gli Yankees. “Il difensore dei diritti umani”, la Power ha ritorto, riferendosi a sé stessa in terza persona, “si innamora dei Red Sox, degli schiacciati, di quelli che non possono vincere la World Series”.
“Ora”, ha replicato Kissinger, “gli schiacciati siamo noi”, un riferimento agli scarsi risultati degli Yankees nella stagione precedente. Nel corso della sua carica Kissinger era stato coinvolto in tre dei genocidi che la Power cita nel suo libro: i “campi della morte” di Pol Pot in Cambogia, che non ci sarebbero mai stati se egli non avesse famigeratamente ordinato una campagna di bombardamenti durata quattro anni e mezzo in quel paese; il massacro indonesiano a Timor Est e quello pachistano in Bangladesh, entrambi accelerati da lui.
Potreste pensare che la reciproca conoscenza delle sue politiche sotto i presidenti Richard Nixon e Gerald Ford e degli orrori derivati da esse gettasse un’ombra sulla loro conversazione, ma il loro scherzare era vivace. “Se un tifoso degli Yankee e una tifosa dei Red Socks possono dirigersi nel cuore delle tenebre per la prima partita della stagione”, ha commentato la Power, “tutto è possibile”.
Tutto, salvo, pare, districare il paese dalle sue guerre interminabili.
Solo recentemente Barack Obama ha annunciato che i soldati statunitensi non lasceranno presto l’Afghanistan e ha anche formulato un più profondo impegno a combattere lo Stato Islamico in Iraq e in Siria, compreso il dispiegamento del primo contingente statunitense a terra in quel paese. In effetti un nuovo libro del giornalista del New York Times Charlie Savage, Power Wars, suggerisce che c’è stata ben poca differenza concreta tra l’amministrazione di George W. Bush e quella di Obama quanto alle politiche della sicurezza nazionale o alle giustificazioni legali utilizzate per perseguire cambiamenti di regime nel Medio Oriente Allargato.
Henry Kissinger, naturalmente, non è singolarmente responsabile dell’evoluzione dello stato della sicurezza nazionale statunitense in una mostruosità. Tale stato ha avuto molti amministratori. Ma il suo esempio – specialmente il suo costante appoggio ai bombardamenti come strumento di “diplomazia” e la sua militarizzazione del Golfo Persico – ha attraversato decenni, gettando una luce spettrale sulla via che ci ha portato a una condizione di guerra eterna.
Dalla Cambogia …
Nel giro di giorni dall’insediamento di Nixon nel gennaio del 1969, il consigliere per la sicurezza nazionale Kissinger chiese al Pentagono di elencare le proprie opzioni di bombardamento in Indocina. Il presidente precedente, Lyndon Baines Johnson, aveva sospeso la propria campagna di bombardamenti contro il Vietnam del Nord nella speranza di negoziare un cessate il fuoco più vasto. Kissinger e Nixon erano ansiosi di rilanciarla, un compito duro considerato il sostegno politico interno a uno stop ai bombardamenti.
L’opzione successiva: cominciare a bombardare oltre confine in Cambogia per distruggere le linee di rifornimento, i depositi e le basi del nemico ritenute localizzate nel paese. Nixon e Kissinger ritenevano anche che una simile offensiva avrebbe costretto Hanoi a fare concessioni al tavolo negoziale. Il 24 febbraio Kissinger e il suo assistente militare, colonnello Halexander Haig, incontrarono il colonnello dell’aviazione Ray Sitton, un esperto dei bombardieri B-52, per cominciare a pianificare il Menu, il sinistro nome in codice della campagna di bombardamenti a venire.
Dato che Nixon era stato eletto sulla promessa di por fine alla guerra in Vietnam, Kissinger ritenne che non era sufficiente classificare Menu nella categoria “massima segretezza”. Era necessaria una segretezza assoluta e totale, specialmente nei confronti del Congresso. Egli non dubitava che il Congresso, cruciale per lo stanziamento dei fondi necessari per condurre missioni militari specifiche, non avrebbe mai approvato una campagna di bombardamenti contro un paese neutrale con il quale gli Stati Uniti non erano in guerra.
Kissinger, Haig e Sitton se ne vennero fuori invece con un ingegnoso inganno. Sulla base di raccomandazioni del generale Creighton Abrams, comandante delle operazioni militari in Vietnam, Sitton avrebbe stilato i bersagli cambogiani da attaccare e poi li avrebbe passati a Kissinger e Haig per l’approvazione. Poi avrebbe trasmesso segretamente le coordinate a Saigon e un corriere le avrebbe consegnate a stazioni radar dove l’ufficiale in comando avrebbe, all’ultimo minuto, spostato i bombardamenti dei B-52 dal Vietnam del Sud agli obiettivi cambogiani concordati.
Poi quell’ufficiale avrebbe bruciato le mappe, i tabulati dei computer, i rapporti dei radar o i messaggi relativi che potevano rivelare il bersaglio effettivo. “Un intero forno speciale” fu creato per trattare i documenti, avrebbe successivamente testimoniato Abrams davanti al Congresso. “Abbiamo bruciato probabilmente per 12 ore al giorno”. Falsa documentazione “post-attacco” sarebbe stata poi redatta indicando che le missioni avevano volato sul Vietnam del Sud secondo i piani.
Kissinger era molto presente. “Attaccate qui in quest’area”, Sitton ricorda che Kissinger gli diceva, “oppure qui in quest’altra area”. I bombardamenti galvanizzavano il consigliere per la sicurezza nazionale. Il primo attacco ebbe luogo il 18 marzo 1969. “K davvero eccitato”, scrisse nel suo diario Bob Haldeman, capo di stato maggiore di Nixon. “Arrivato raggiante [nell’Ufficio Ovale] con il rapporto”.
Di fatto egli controllava ogni aspetto dei bombardamenti. Come scrisse in seguito il giornalista Seymour Hersh “Quando gli uomini dell’esercito presentavano una proposta di lista dei bombardamenti Kissinger ridisegnava le missioni, spostando decine di aerei, forse, da un’area all’altra e modificando gli orari dei bombardamenti … sembrava godere a fare il bombardatore”. (Tale godimento non si sarebbe limitato alla Cambogia. Secondo i giornalisti del Washington Post Bob Woodward e Carl Bernstein, quando i bombardamenti sul Vietnam del Nord alla fine ripresero, Kissinger “espresse entusiasmo per la dimensione dei crateri delle bombe”). Un rapporto del Pentagono, pubblicato nel 1973, affermava che “Henry A. Kissinger ha approvato ciascuno dei 3.875 bombardamenti sulla Cambogia dal 1969 al 1970” – la fase più segreta dei bombardamenti – “e i metodi per evitare che finissero sui giornali”.
Nel complesso, tra il 1969 e il 1973, gli Stati Uniti sganciarono mezzo milione di tonnellate di bombe sulla sola Cambogia, uccidendo almeno 100.000 civili. E non si dimentichino il Laos e il Vietnam sia del Nord sia del Sud. “E’ un’ondata dopo l’altra di aerei. Vede, loro non possono vedere i B-52 e quelli hanno sganciato un milione di libbre di bombe”, disse Kissinger a Nixon dopo i bombardamenti dell’aprile 1972 sulla città portuale nordvietnamita di Haiphong, mentre tentava di rassicurare il presidente che la strategia stava funzionando: “Scommetto con lei che avremo avuto là sopra più aerei in un giorno di quanti ne ha avuti Johnson in un mese … Ogni aereo può trasportare dieci volte il carico di un aereo della seconda guerra mondiale”.
Col passare dei mesi, tuttavia, i bombardamenti non riuscirono affatto a costringere Hanoi al tavolo dei negoziati. D’altro canto riuscirono ad aiutare Kissinger nelle sue rivalità tra uffici. La sua sola fonte di potere era Nixon, che era un sostenitore dei bombardamenti. Così Kissinger abbracciò il suo ruolo di Primo Bombardatore per mostrare ai militaristi duri di cui il presidente si era circondato che lui era il “falco dei falchi”. E tuttavia, alla fine, persino Nixon giunse a vedere che le campagne di bombardamento erano un vicolo cieco. “K. Abbiamo avuto dieci anni di controllo totale dell’aria in Laos e V.Nam”, gli scrisse Nixon in un rapporto di massima segretezza sull’efficacia dei bombardamenti. “Il risultato = Zero”. (Era il gennaio del 1972, tre mesi prima Kissinger aveva assicurato Nixon che “un’ondata dopo l’altra” di bombardamenti avrebbe conseguito lo scopo).
Durante quei quattro anni e mezzo in cui l’esercito statunitense sganciò più di 6.000.000 di tonnellate di bombe sull’Asia Sud-orientale, Kissinger si rivelò non un supremo realista politico, bensì il supremo idealista del pianeta. Si rifiutò di fermarsi quando si trattò di una politica intesa a realizzare un mondo in cui egli credeva di dover vivere, un mondo in cui, grazie alla potenza materiale dell’esercito statunitense, piegare poveri paesi contadini come Cambogia, Laos e Vietnam del Nord alla sua volontà, in contrasto con il mondo in cui realmente viveva, in cui per quanto bombardasse non riusciva a costringere Hanoi a sottomettersi. Come disse all’epoca: “Mi rifiuto di credere che una piccola potenza di quarta categoria come il Vietnam del Nord non abbia un punto di rottura”.
In realtà quella campagna di bombardamenti ebbe un effetto impressionante: destabilizzò la Cambogia, provocando un colpo di stato nel 1970 che a sua volta provocò un’invasione statunitense lo stesso anno che non fece che allargare la base sociale dell’insurrezione che cresceva nelle campagne, portando a un’intensificazione dei bombardamenti statunitensi che si estesero a quasi l’intero paese, devastandolo e creando le condizioni per l’ascesa al potere dei genocidi Khmer Rossi.
… alla prima Guerra del Golfo
Avendo tollerato, autorizzato o pianificato così tante invasioni – quella indonesiana a Timor Est, quella pachistana in Bangladesh, quella statunitense in Cambogia, quella sudvietnamita in Laos e quella sudafricana in Angola – Henry Kissinger assunse la sola posizione logica agli inizi di agosto 1990, quando Saddam Hussein inviò l’esercito iracheno in Kuwait: condannò l’atto. In carica, si era dato da fare per pompare le ambizioni regionali di Baghdad. Da consulente e guru privato aveva promosso l’idea che l’Iraq di Saddam potesse servire da contrappeso sacrificabile all’Iran rivoluzionario. Arrivati a quel punto sapeva esattamente che cosa doveva essere fatto: l’annessione del Kuwait doveva essere rovesciata.
Il presidente George H. W. Bush lanciò presto l’Operazione Scudo del Deserto, inviando un enorme contingente di truppe in Arabia Saudita. Ma, una volta là, che cosa dovevano fare esattamente? Contenere l’Iraq? Attaccare e liberare il Kuwait? Andare a Baghdad e deporre Saddam? Non c’era una chiara unanimità tra i consulenti o gli analisti di politica estera. Conservatori di spicco, che si erano fatti un nome combattendo la Guerra Fredda, offrivano consigli contrastanti. L’ex ambasciatrice all’ONU, Jeane Kirkpatrick, ad esempio, si opponeva a qualsiasi azione contro l’Iraq. Non riteneva che Washington avesse un “interesse distinto nel Golfo” ora che l’Unione Sovietica era scomparsa. Altri conservatori facevano presente che, con la Guerra Fredda finita, contava poco che fossero i baatisti iracheni o gli sceicchi locali a pompare il petrolio del Kuwait, fintanto che lo tiravano fuori da sottoterra.
Kissinger assunse la posizione di principio nel contrastare quelli che chiamava i “nuovi isolazionisti” degli Stati Uniti. Ciò che Bush avrebbe fatto in Kuwait, annunciò nella prima frase di un articolo indipendente ampiamente diffuso, avrebbe deciso le sorti dell’amministrazione. Qualsiasi cosa inferiore alla liberazione del Kuwait avrebbe trasformato in una “disfatta” la “dimostrazione di forza” di Bush in Arabia Saudita.
Lanciando l’esca ai colleghi conservatori riluttanti a lanciare una crociata nel Golfo, in termini da Guerra Fredda che non potevano non mordere, affermò che il loro consiglio era nientemeno che un’”abdicazione”. C’erano, insistette, “conseguenze” alla “mancata opposizione”. Egli può essere stato, in effetti, la prima persona a paragonare Saddam Hussein a Hitler. In articoli d’opinione, apparizioni televisive e testimonianze di fronte al Congresso, Kissinger si pronunciò con forza a favore dell’intervento, comprese la “distruzione chirurgica e progressiva delle forze militari irachene” e la deposizione dal potere del leader iracheno. “Gli Stati Uniti”, insistette, “hanno attraversato il loro Rubicone” e non c’era modo di tornare indietro.
Era di nuovo l’uomo del momento. Ma come erano cambiate le aspettative dal 1970! Quando il presidente Bush lanciò i suoi bombardieri il 17 gennaio 1991, lo fece in piena vista del pubblico, registrato perché tutti vedessero. Non c’era alcun velo di segretezza e nessun forno segreto, documenti bruciati o rapporti di volo contraffatti. Dopo quattro mesi di dibattito in diretta tra politici e guru, “bombe intelligenti” accesero il cielo di Baghdad e di Kuwait City mentre le telecamere televisive filmavano. Erano in attività attrezzature per la visione notturna, comunicazioni in tempo reale via satellite ed ex comandanti statunitensi pronti a raccontare la guerra nello stile dei commentatori sportivi fino ai replay istantanei. “In linguaggio da pagina sportiva”, disse l’inviato speciale della CBS Dan Rather la prima notte dell’attacco, “questo … non è sport. E’ guerra. Ma sin qui è una vittoria a man bassa”.
Lo stesso Kissinger era dappertutto – ABC, NBC, CBS, PBS, alla radio, sui giornali – a offrire la sua opinione. “Penso sia andata bene”, disse quella stessa notte a Dan Rather.
Sarebbe stata una manifestazione tecnologica di tale evidente onnipotenza che il presidente Bush ottenne il genere di approvazione di massa che Kissinger e Nixon non avrebbero mai sognato possibile. Con i replay istantanei vennero le gratificazioni istantanee, conferma che il presidente aveva il sostegno del pubblico. Il 18 gennaio, solo un giorno dopo l’attacco, la CBS annunciò che un nuovo sondaggio “indica un sostegno estremamente forte dall’offensiva nel Golfo di Mr. Bush”.
“Per Dio!” disse Bush trionfante, “Abbiamo scacciato la sindrome del Vietnam una volta per tutte.”
Le truppe di Saddam Hussein furono facilmente cacciate dal Kuwait e, momentaneamente, parve che il risultato avrebbe giustificato la logica che era stata dietro le campagne aeree clandestine di Kissinger e Nixon in Cambogia: che gli Stati Uniti dovevano essere liberi di usare la forza militare necessaria per forzare l’esito politico che perseguivano. Sembrò che il mondo in cui Kissinger aveva a lungo creduto di dover vivere alla fine si stesse realizzando.
… verso l’11 settembre
Saddam Hussein, tuttavia, restava al potere a Baghdad, creando un problema di proporzioni enormi per il successore di Bush, Bill Clinton. Sanzioni sempre più onerose, punteggiate da occasionali lanci di missili da crociera su Baghdad, non fecero che aggravare la crisi. Bambini stavano morendo di fame, civili erano uccisi da missili statunitensi; e il regime baatista si rifiutava di cedere.
Kissinger osservava tutto questo con una specie di distaccato divertimento. Per certi versi Clinton stava seguendo la sua guida: stava bombardando un paese con il quale non eravamo in guerra, senza l’approvazione del Congresso, in parte per placare la destra militarista. Nel 1998, a un congresso che commemorava il venticinquesimo anniversario degli accordi che avevano posto fine alla guerra del Vietnam, Kissinger espresse la sua opinione sull’Iraq. Il vero “problema”, disse, è la volontà. Si deve voler “spezzare la schiena” a coloro con cui non si vuol negoziare, proprio come avevano fatto lui e Nixon nell’Asia Sud-orientale. “Che abbiamo fatto o no la cosa giusta”, aggiunse Kissinger, “è davvero secondario”.
Ciò dovrebbe suonare come una dichiarazione considerevole negli annali del “realismo politico”.
Non sorprendentemente, allora, dopo l’11 settembre, Kissinger fu uno dei primi sostenitori di una reazione militare forte. Il 9 agosto 2002, per esempio, sottoscrisse una politica di cambiamento di regime in Iraq in un suo articolo indipendente, riconoscendola come “rivoluzionaria”. “Il concetto di prevenzione giustificata”, scrisse, “va contro la moderna legge internazionale”. Ma era necessario, a causa della novità della “minaccia terroristica” che “trascende lo stato nazione”.
C’era, tuttavia, “un altro motivo, generalmente non dichiarato, per farla finita con l’Iraq”: “dimostrare che una sfida terroristica o un attacco sistemico all’ordine internazionale produce conseguenze catastrofiche anche per i colpevoli, così come per i loro sostenitori”. Per essere – in vero stile Kissinger – nelle buone grazie dei membri più militaristi di un’amministrazione statunitense, il definitivo “realista” politico era, in altre parole, perfettamente disposto a ignorare che i baatisti laici di Baghdad erano nemici degli jihadisti islamici e che l’Iraq né aveva perpetrato l’11 settembre né ne aveva appoggiato i responsabili. Dopotutto “fare o no la cosa giusta è davvero secondario” rispetto al problema principale: essere disposti a fare qualcosa di decisivo, specialmente a usare la forza aerea per “spezzare la schiena” di … beh, di chiunque.
Meno di tre settimane dopo il vicepresidente Dick Cheney, esponendo la sua tesi a favore di un’invasione dell’Iraq davanti al congresso nazionale dei Veterani delle Guerre all’Estero, citò direttamente l’articolo di Kissinger. “Come ha recentemente dichiarato l’ex Segretario di Stato Kissinger”, affermò Cheney, c’è “un imperativo per un intervento preventivo”.
Nel 2005, dopo le rivelazioni sulla falsificazione delle informazioni dei servizi segreti e la manipolazione della stampa per neutralizzare l’opposizione all’invasione dell’Iraq, dopo Fallujah e Abu Ghraib, dopo che era divenuto chiaro che il beneficiario dell’occupazione sarebbe stato l’Iran rivoluzionario, Michael Gerson, l’estensore dei discorsi di George W. Bush, andò a trovare Kissinger a New York. Il sostegno del pubblico alla guerra stava ormai precipitando e le giustificazioni di Bush per scatenarla si stavano estendendo. La “responsabilità” degli Stati Uniti, aveva annunciato in precedenza quell’anno nel suo discorso del secondo insediamento, consisteva nel “liberare il mondo dal male”.
Gerson, che aveva contribuito a scrivere quel discorso, chiese a Kissinger che cosa ne pensasse. “All’inizio sono stato sconcertato”, disse Kissinger, ma poi finì per apprezzarlo per motivi strumentali. “Dopo aver riflettuto”, come ha raccontato Bob Woodward nel suo libro State of Denial, egli “ora riteneva che il discorso servisse a uno scopo e fosse una mossa molto intelligente, ponendo la guerra al terrore e la politica estera complessiva statunitense nel contesto dei valori statunitensi. Ciò avrebbe contribuito a sostenere una lunga campagna”.
In quell’incontro Kissinger diede a Gerson una copia di uno scellerato promemoria che aveva scritto a Nixon nel 1969 e gli chiese di consegnarlo a Bush. “Il ritiro dei soldati statunitensi diventerà come una ciliegia per il pubblico statunitense”, aveva avvertito,” Quanti più soldati tornano a casa, tanti più ne saranno pretesi.” Non fatevi prendere in quella trappola, disse Kissinger a Gerson, perché una volta che il ritiro comincerà diverrà “sempre più difficile mantenere il morale di quelli che restano, per non parlare delle loro madri.”
Kissinger ricordò allora il Vietnam, rammentando a Gerson che gli incentivi offerti nei negoziati devono essere sostenuti da minacce credibili di natura incontrollata. Come esempio egli tirò fuori uno dei molti “forti” ultimatum che aveva trasmesso ai nordvietnamiti, avvertendoli di “conseguenze terribili” se non avessero offerto le concessioni necessarie perché gli Stati Uniti si ritirassero dal Vietnam “con onore”. I vietnamiti non si piegarono.
“Non ebbi abbastanza potere”, fu il modo in cui Kissinger sintetizzò la sua esperienza più di tre decenni dopo.
Il cerchio sarà spezzato?
Quando si tratta di militarismo statunitense, il sentire comune pone l’idealista Samantha Power e il realista Kissinger agli estremi opposti di uno spettro. Il sentire comune sbaglia, come ha indicato lo stesso Kissinger. L’anno scorso, mentre promuoveva il suo libro World Order, ha risposto a domande sulle sue controverse politiche indicando Obama. Non c’era, ha detto, alcuna differenza tra ciò che aveva fatto lui con i B-52 in Cambogia e ciò che stava facendo il presidente con i droni in Pakistan, Somalia e Yemen. Quando gli è stato chiesto del suo ruolo nel rovesciamento di Salvador Allende, il presidente democraticamente eletto del Cile nel 1973, egli ha insistito nell’affermare che le sue azioni erano stato giustificate a posteriori da quanto Obama e la Power avevano fatto in Libia e volevano fare in Siria.
La difesa di Kissinger è stata, ovviamente, in parte fatua, specialmente la sua assurda affermazione che il mezzo milione di tonnellate di bombe che aveva fatto sganciare sulla Cambogia avevano causato la morte di un numero di civili inferiore a quello dei missili Hellfire dei droni di Obama. (Stime credibili calcolano in più di 100.000 le vittime civili in Cambogia; ai droni sono attribuiti circa 1.000 morti civili). Ha avuto ragione, tuttavia, nella sua affermazione che molti degli argomenti politici da lui sostenuti alla fine degli anni ’60 per giustificare le sue guerre illegali e clandestine in Cambogia e Laos, considerati all’epoca ben oltre il pensiero convenzionale, sono ora parte indiscussa e del tutto pubblica della politica statunitense. Ciò è stato particolarmente vero nel caso dell’idea che gli USA abbiano il diritto di violare la sovranità di un paese neutrale per distruggere “rifugi” del nemico. “Se si minacciano gli Stati Uniti, non ci sarà alcun porto sicuro”, ha affermato Barack Obama, offrendo a Kissinger la sua assoluzione retroattiva.
Qui, allora, c’è un’espressione perfetta del cerchio intatto del militarismo statunitense. Kissinger evoca le odierne guerre interminabili, senza limiti, per giustificare la sua diplomazia mediante la potenza aerea in Cambogia e altrove quasi mezzo secolo fa. Ma ciò che egli fece allora ha creato le condizioni per le guerre interminabili di oggi, sia quelle scatenate dai neocon di Bush sia quelle scatenate da liberali di Obama contro la guerra, come Samantha Power. Così vanno le cose a Washington.


Greg Grandin, collaboratore regolare di TomDispatch, insegna storia alla New York University. E’ autore di Fordlandia, The Empire of Necessity, che ha vinto il Premio Bancroft per la storia statunitense e, più recentemente, di Kissinger’s Shadow. The Long Reach of America’s Most Controversial Statesman.

Questo articolo è inizialmente apparso su TomDispatch.com, un blog del Nation Institute che offre un flusso costante di fonti, notizie e opinioni alternative a cura di Tom Engelhardt, a lungo direttore di edizione, cofondatore dell’American Empire Project, autore di The End of Victory Culture e di un romanzo, The Last Days of Publishing. Il suo libro più recente è Shadow Government: Surveillance, Secret Wars and a Global Security State in a Single-Superpower World (Haymarket Books).

Da Z Net Italy- Lo spirito della Resistenza è vivo
www.znetitaly.org
Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/kissinger-the-bombardier/
Originale: TomDispatch.com
Traduzione di Giuseppe Volpe
©2015 ZNet Italy- Licenza Creative Commons CC BY NC-SA 3.0

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