La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 25 marzo 2017

Flat tax, chi la vuole? Storia di un dibattito

di Jan Mazza
Per flat tax, letteralmente “tassa piatta”, si intende una tassa con aliquota costante – proporzionale, quindi, e non progressiva (con aliquote crescenti rispetto al reddito/patrimonio) né, al contrario, regressiva. Il termine in realtà ha assunto un uso più esteso, il quale però non copre l’ultima esca preparata dal governo italiano per attrarre la residenza fiscale di stranieri facoltosi: un contributo annuale di 100.000 euro (più venticinque mila per ogni familiare interessato), disponibile solo per persone fisiche che abbiano trascorso nove degli ultimi dieci anni fuori dall’Italia (allo scopo di evitare il “rientro” di italiani con residenze fittizie), e dalla durata massima di quindici anni. Un’imposta in questo caso regressiva (detta anche imposta capitaria), in quanto insensibile alla reale capacità contributiva del tax-payer, da applicare esclusivamente sui redditi prodotti all’estero.
L’offerta di vantaggi fiscali simili, nonostante le polemiche suscitate, non è certo una novità a livello europeo, e si inserisce in un’ormai lunga storia di aste al ribasso che verosimilmente rappresenta uno dei più evidenti fallimenti del progetto unitario, spia di una paradossale competizione interna e di una più vasta assenza di scopi e strategie comuni – pure su un tema così economicamente e simbolicamente cruciale come le politiche tributarie. L’articolo apparso su Le Monde, dell’ottimo economista Gabriel Zucman, specializzato in paradisi fiscali, spiega chiaramente come l’Europa sia chiamata a un cambio di passo nella coordinazione delle imposte sui redditi d’impresa, anche a costo di scontentare paradisi fiscali come il Lussemburgo e l’Irlanda, o più che accettabili “purgatori” come i Paesi Bassi e l’Austria.
Nonostante, quindi, le possibili ripercussioni su altri membri UE, e al di là dell’uso improprio che i media italiani (e non solo) hanno diffuso nell’ultima occasione, il termine flat tax ricorre con cadenza ciclica nel dibattito politico e, tra alterne fortune, continua a rappresentarne un riferimento – seppur, come vedremo, più ideale che pratico.
Origine e varianti della flat tax
Uno dei più celebri sostenitori di una variante di flat tax fu l’economista premio Nobel Milton Friedman, campione dei freshwater economists (economisti d’acqua dolce, come quelli di Chicago e della regione di Grandi Laghi), sostenitori del mercato libero e ostili agli interventi statali, tradizionalmente opposti ai saltwater economists, maggioritari nelle scuole americane affacciate sugli oceani e inclini ad accettare l’intervento pubblico per correggere i fallimenti di mercato.
La proposta di Friedman è stata definita Negative Income Tax (NIT), in quanto implica la possibilità per contribuenti con un reddito (sottratte le debite deduzioni) sotto una certa soglia di ricevere una tassa negativa (ovvero un pagamento dallo Stato). Questo benefit avrebbe teoricamente consentito di sostituire gran parte delle agevolazioni offerte dal welfare state, considerate dispersive e inefficienti, insieme al relativo apparato burocratico.
La NIT rappresenta solo una delle possibili versioni di flat tax, che si distinguono per tre elementi fondamentali: (I) la definizione del reddito tassabile, (II) l’eventuale presenza di soglie (inferiori o superiori), (III) l’estensione delle deduzioni ammesse.
Primo, quale reddito includere? La risposta più semplice è tutto, ma non terrebbe conto di alcune situazioni particolari, come ad esempio i dividendi (di norma già tassati). Determinare il reddito sottoposto alla flat tax, inoltre, ha chiare implicazioni distributive: più estese le fonti prese in considerazione, meno rilevante tende a essere il carico regressivo derivante da forme di reddito da capitale solitamente meno tassate – oltre che concentrate nelle mani di un numero ristretto di contribuenti.
In aggiunta, diverse versioni di flat tax includono soglie inferiori, al di sotto delle quali l’importo dovuto può essere nullo o addirittura negativo (come nel caso della NIT), o superiori (capped flat tax), ovvero con nessun pagamento oltre una certa soglia. Queste considerazioni evidenziano il ruolo della flat tax all’interno del sistema fiscale, il cui carico complessivo rischia di diventare regressivo se, di fianco a tasse tipicamente tali come quelle su reddito da capitale o sul consumo (l’italiana IVA), si affianca una tassazione sul reddito proporzionale anziché progressiva.
Infine, il labirinto delle deduzioni: definirle si è spesso rivelato il compito più gravoso per sostenitori e policy-maker. Se da una parte alcune voci non possono che essere detratte dal computo del reddito imponibile (interessi sui mutui, donazioni filantropiche, certe spese di gestione a loro volta difficili da determinare), dall’altra ogni dettaglio tecnico rappresenta un’implicita minaccia all’irresistibile fascino della flat tax, avocata proprio in virtù della sua semplicità.
La flat tax viene quindi proposta come nemica della burocrazia (proprio in quanto semplice, almeno sulla carta) e anche dell’evasione, grazie alla sua aderenza ai principi prescritti dalla cosiddetta curva di Laffer, consigliere economico di Ronald Reagan che ipotizzò un’ipotetica aliquota ottimale oltre la quale il prelievo fiscale scoraggerebbe l’iniziativa economica e incentiverebbe l’economia sommersa, diminuendo il gettito complessivo. Da notare come l’evidenza empirica – seppur variabile – suggerisca che tale aliquota ottimale si situi intorno al 70%, circa il triplo della percentuale normalmente proposta dai sostenitori della flat tax [1].
Realizzazione storica e fortuna politica
Sembra naturale: viste le premesse filosofiche ed economiche, conservatori e libertari, in particolare negli Stati Uniti d’America, terra dall’impareggiata diffidenza verso l’interferenza statale, sono sempre stati i più grandi sostenitori di questa politica fiscale. È curioso tuttavia notare come a tale afflato ideale non sia mai corrisposta un’implementazione pratica (anche se alcuni stati americani aggiungono una flat tax alla progressiva imposta federale), verificatasi invece, con ironia della storia, in Russia e in altre circoscritte zone del mondo.
In America, a dire il vero, ci sono stati due tentativi di introduzione della flat tax, entrambi caduti nel vuoto. Il primo nel 1862, durante la Guerra Civile e quando ancora non esisteva alcuna imposta sul reddito; la tassa fu immediatamente modificata per poi essere abolita. Il secondo nel 1894, ma in questo caso l’introduzione fu respinta dalla Corte Suprema.
Regioni più improbabili hanno invece applicato la ricetta. In particolare, paesi dell’Europa dell’Est particolarmente inclini alla cultura di mercato dopo decenni di dominazione sovietica (Lituania, Estonia, Lettonia, Slovacchia), oltre alla Russia stessa, spesso citata, seppur in modo controverso [2], come esempio dell’efficacia della flat tax. Alcuni paesi con una forma assimilabile di tassazione: Arabia Saudita, Bielorussia, Bolivia, Bulgaria, Kazakistan, Romania, Serbia, Ucraina.
In Europa occidentale, dove la progressività della tassazione ha radici culturali più profonde, il principio della flat tax ha tradizionalmente trovato terreno sterile. Seppur suggerita in più occasioni (da tecnici e consiglieri economici in Germania e in Olanda, da George Osborne seppur con qualche emendamento nel Regno Unito), nessun governo ha per il momento seguito il consiglio, confermando come la flat tax sia storicamente più portata per le pagine dei programmi elettorali che per quelle dei decreti attuativi.
Attualmente viene sostenuta in Francia (ma solo sui redditi da capitale) da François Fillon, candidato dei Repubblicani, ed Emmanuel Macron, candidato indipendente, e in Italia da Matteo Salvini (aliquota unica al 15%), sulle orme di una presunta proposta del programma di Donald Trump (le cui politiche fiscali sembrano in realtà vertere su trattamenti differenziati per importazioni ed esportazioni e su possibili tagli alle aliquote, senza menzioni per la flat tax).
Il vero padre della flat tax in Italia è stato però Silvio Berlusconi, che per primo la propose, con un’aliquota unica al 33%, durante la sua prima vittoriosa campagna del 1994, e poi a più riprese fino a periodi recenti. Trovando però sulla strada, oltre a un clima culturale tendenzialmente ostile e a costi difficilmente sostenibili, un irremovibile articolo 53 della Costituzione: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Chiaro e semplice, quasi come la flat tax.

[1] Voce “Laffer curve” nel New Palgrave Dictionary of Economics: http://www.dictionaryofeconomics.com/article?id=pde2008_L000015.

[2] Pro e contro dell’esperienza russa vengono analizzati in questo studio del Fondo Monetario Internazionale: http://www.imf.org/external/pubs/ft/wp/2006/wp06218.pdf.

Fonte: pandorarivista.it

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