La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 10 marzo 2017

Perché Trump fa paura

di Fausto Durante 
Lo scorso 28 febbraio il sito internet del Washington Post pubblicava, con un commento ispirato da una vena di perfidia polemica, la conferma di una notizia che da qualche tempo – e con particolare insistenza dopo l’elezione di Donald Trump a presidente degli Usa – circolava nella capitale statunitense: i due principali sindacati americani, l’Afl-Cio e il Seiu, rispettivamente 12,5 e 2 milioni di iscritti, si preparano a drastici tagli, sia al personale che ai bilanci. Secondo il Post, il portavoce di Afl-Cio Josh Goldstein avrebbe annunciato la rinuncia a “diverse dozzine” dei circa 400 lavoratori nella sede centrale del sindacato a Lafayette Square, mentre il Seiu avrebbe comunicato ai propri dipendenti la necessità di tagliare del 30% il bilancio, con dirette conseguenze sull’occupazione.
Il tutto in un quadro di difficoltà permanente per i sindacati statunitensi, la cui percentuale di rappresentanza reale del lavoro si è dimezzata rispetto all’inizio degli anni ottanta e le cui attività sono messe in difficoltà dall’ostilità non solo delle imprese, ma anche del sistema giudiziario e della legislazione sfavorevole alla sindacalizzazione e all’esercizio di contrattazione e rappresentanza collettiva del lavoro in molti Stati degli Usa.
È evidente che con l’avvento al potere di Donald Trump, la cui idiosincrasia nei confronti delle unions è nota, tanto da indurlo a contrastare con ogni mezzo nelle sue imprese i tentativi di penetrazione delle diverse sigle sindacali, il quadro rischia di peggiorare sensibilmente. Non è un caso che i leader delle due organizzazioni, Mary Key Henry di Seiu e, con molta più visibilità, Richard Trumka di Afl-Cio, si fossero spesi a fianco di Hillary Clinton nella sua sfortunata corsa alla presidenza. Ed è proprio per questo che, intingendo la penna nel veleno, il commentatore del Washington Post concludeva il suo articolo sottolineando che il sindacato negli Usa ora deve decidere se impegnare le sue risorse sempre più limitate nell’organizzare i lavoratori o gli elettori.
Una discussione già avviata nel sindacato, in effetti, poiché – come è stato fatto notare negli ambienti sindacali statunitensi – non è del tutto corretto affermare che i lavoratori americani abbiano votato in maggioranza per Trump, come vorrebbero le interpretazioni prevalenti e più in voga. Invece, è certo che la quota di partecipazione al voto dei lavoratori dipendenti e soprattutto dei blue collars è drammaticamente calata, provocando un indiretto vantaggio per il vincitore repubblicano. Tendenza che – e anche questa è una discussione aperta nel sindacato – avrebbe potuto essere molto diversa se a contendere la presidenza a Trump fosse stato il senatore Bernie Sanders, speranza dell’America di sinistra, non a caso sostenuto da diverse strutture e federazioni del sindacato nelle primarie democratiche.
Nell’immediato, il quadro che il sindacato dovrà affrontare è quello che una delle storiche riviste della sinistra Usa, The Jacobin Magazine, descrive in questi termini: “L’inimmaginabile è realtà: la destra estrema è entrata alla Casa Bianca, un maniaco impastato nell’odio è consigliere della sicurezza nazionale, un bianco suprematista controlla la macchina del dipartimento della giustizia, l’industria del carbone domina il dipartimento del commercio e una persona ricchissima educata privatamente nella propria casa è incaricata delle politiche per l’istruzione. Dopo un’elezione che avrebbe dovuto sancire un ruolo crescente per le donne, i millennials, gli ambientalisti, le persone di colore, un’estrema destra geriatrica ha conquistato il potere politico e decisionale a un livello spaventoso”.
Come reagire, quindi, è il tema aperto nel sindacato americano. La prima risposta di Afl-Cio è stata l’approvazione di un documento che contiene i principali impegni di lavoro. Il primo punto in agenda è ricostruire l'unità del mondo del lavoro, frammentato e diviso al suo interno, come le dinamiche elettorali hanno dimostrato. Se i lavoratori sono uniti, questo è il presupposto, è più difficile mettere i loro diritti in discussione. Altro tema cruciale è quello della sindacalizzazione, che le unions vogliono favorire attraverso il rapporto diretto con i luoghi di lavoro e le nuove forme di comunicazione che le tecnologie offrono. Il rischio che nuovi Stati come Missouri, Kentucky e New Hampshire si aggiungano all’elenco di quelli con legislazioni ostili si combatte anche con l’impulso al proselitismo e all’organizzazione.
Senza dimenticare i delicati temi dell’integrazione dei migranti e dei nuovi americani nel mercato del lavoro, visto come risposta culturale e sociale alla furibonda campagna anti immigrazione di Trump, e della contrattazione collettiva, che l’Afl-Cio rilancia come strumento di crescita e innovazione, oltre che di integrazione sociale e di risposta all'insicurezza e alla rabbia che i risultati elettorali hanno evidenziato.
Non molto diverse sono le valutazioni di Seiu, che ha iniziato a sviluppare – anche per il radicamento più forte nei settori della sanità e dei servizi di cura – una campagna per difendere le conquiste ottenute in questo campo nel corso della presidenza di Barack Obama, estendere il diritto alla salute e alle cure a fasce di popolazione oggi escluse, includere nel sistema immigrati e lavoratori stranieri.
Ovviamente, è troppo presto per fare valutazioni tanto sulle mosse che Trump e la sua squadra faranno in tema di economia e lavoro quanto sulle prime strategie che i sindacati stanno elaborando per rispondere al nuovo contesto in cui dovranno operare. Ciò che si può dire è che in seno all’Oil, all’Ocse e alle grandi istituzioni internazionali in cui ai sindacati è dato modo di partecipare, la cifra prevalente nei contributi che vengono dagli Usa è prevalentemente improntata al pessimismo e alla cupezza della prospettiva. La propaganda di Trump ha fatto breccia anche in parte dell’elettorato democratico e dell’insediamento sociale del sindacato e, dunque, la preoccupazione che ciò possa tramutarsi in un cambio di campo strutturale e definitivo è molto forte, così come è presente il rischio di una possibile involuzione in senso nazionalista e protezionistico delle politiche economiche e commerciali americane, involuzione che – per quanto sbagliata e negativa – può nell’immediato costituire fattore di consenso presso quella parte del mondo del lavoro americano che vive con paura e senso di arretramento sociale l’attuale corso della globalizzazione.
Quale che sia l’evoluzione, in ogni caso il sindacato americano dovrà fare i conti con il tema che a livello globale è di fronte all’insieme del mondo del lavoro. Ossia come contribuire, con la propria autonomia e la propria cultura politica, alla ricostruzione di un pensiero economico della sinistra e del movimento dei lavoratori, alternativo a quel pensiero unico che ha determinato il trionfo del liberismo su scala internazionale. Un compito che riguarda tutti, anche il sindacato italiano ed europeo, come ci dimostrano la crisi del progetto europeo, il trionfo dell’austerità e delle disuguaglianze, la Brexit e i fantasmi evocati dai leader nazionalisti e xenofobi che governano in diversi Paesi europei e che si candidano alle elezioni imminenti in Francia, in Olanda, in Germania. Se riprende l’iniziativa e la battaglia ideale della sinistra politica e sociale, anche quei fantasmi (e lo stesso Donald Trump) faranno meno paura.

Fonte: rassegna.it 

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.