La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 10 marzo 2017

L’Europa deve tornare alla scuola del mondo. Da scolara

di Boaventura de Sousa Santos 
L’Europa e il Nord Globale sono nel complesso assaliti da un sentimento politico e storico di spossatezza. Dopo cinque secoli di imposizione delle sue soluzioni al mondo, l’Europa sembra incapace di risolvere i propri problemi e trasferisce la loro risoluzione alle multinazionali, attraverso accordi di libero scambio il cui scopo consiste nell’eliminare le ultime vestigia della coesione sociale e della coscienza ambientale conseguite dopo la seconda guerra mondiale. Negli USA Donald Trump emerge più come conseguenza che come causa della disaggregazione di un sistema politico fortemente disfunzionale, corrotto e antidemocratico, in cui la candidata che ha ricevuto più voti alle elezioni nazionali è sconfitta da un candidato che ha ottenuto tre milioni di voti popolari meno della sua concorrente. La convinzione prevalente è che non ci siano alternative alla condizione critica raggiunta dal mondo.
Nella loro recente riunione al World Economic Forum di Davos i leader del mondo hanno riconosciuto che gli otto uomini più ricchi del mondo detengono la stessa ricchezza della metà più povera della popolazione mondiale; purtroppo ciò non li ha ispirati a sostenere politiche che potrebbero contribuire a ridistribuire la ricchezza. Al contrario, hanno sollecitato gli espropriati del mondo a migliorare le loro prestazioni in da poter diventare anche loro ricchi nel futuro.
Nel frattempo gli strumenti di analisi e di comunicazione sociale globale ci impediscono di vedere che fuori dall’Europa e dal Nord Globale è in corso una considerevole innovazione sociale e politica che potrebbe stimolare la ricerca di nuove soluzioni globali per garantire che il futuro sia politicamente più democratico, socialmente più solidale ed ecologicamente più sostenibile. In modo abbastanza interessante alcune di queste soluzioni hanno avuto origine in idee ed esperienze europee (che l’Europa nel frattempo ha abbandonato) reinterpretate e riconfigurate alla luce dei diversi nuovi contesti specifici e liberate da dogmi e ortodossie. Contemporaneamente l’Europa pare avvizzirsi, mentre il mondo non europeo sta vivendo un’espansione. Il futuro del mondo sarà considerevolmente meno europeo del suo passato.
Parrebbe logico pensare che l’Europa trarrebbe vantaggio da una migliore conoscenza degli sviluppi innovativi che stanno emergendo in tutto il mondo. Perché ciò fosse possibile, tuttavia, l’Europa dovrebbe essere pronta a mettere in discussione la propria immagine di sé come maestra del mondo, che è prevalsa in tutta l’era moderna, e immaginarsi piuttosto come scolara del mondo, una co-apprendista del futuro insieme con altre regioni e culture del mondo. Ma l’Europa trova estremamente difficile apprendere da esperienza non europee, specialmente quando hanno origine nel Sud Globale, e ciò è dovuto alla persistenza del pregiudizio coloniale. Dopotutto, come potrebbe l’Europa trarre vantaggio dalle esperienze di “regioni e culture più arretrate”, da soluzioni che sembrano affrontare problemi che si supponevano risolti in Europa tanto tempo fa?
Come può essere superato questo pregiudizio in modo che si possa arrivare a una nuova volontà di mutuo apprendimento globale? Per rispondere a questa domanda dobbiamo tornare indietro nel tempo. Il picco del potere globale e imperiale dell’Europa è finito nel 1945. Quando i paesi periferici del Sud Globale, molti dei quali erano stati ex colonie europee, sono divenuti indipendenti e hanno cercato di decidere la propria storia in un mondo post-europeo, il loro percorso è stato carico di ostacoli, poiché Europa e Stati Uniti hanno contrastato ogni tentativo di una rottura con il sistema capitalista e l’Unione Sovietica si è rifiutata di accettare qualsiasi alternativa che non fosse la propria. Il movimento dei non allineati, nato nel 1955 con la Conferenza di Bandung, convocata dai presidenti Nehru (India), Sukarno (Indonesia), Nasser (Egitto), Nkrumah (Ghana) e Tito (Jugoslavia) fu la prima manifestazione di questa intenzione storica di disegnare un percorso alternativo alla visione bipolare, auto-contraddittoria che l’Europa offriva al mondo: ora liberale e capitalista, ora marxista e socialista; due sistemi che non erano esattamente sensibili alle realtà che esistevano fuori dall’Europa, ed entrambi che richiedevano una lealtà incondizionata. Questo dicotomizzazione delle questioni mondiali, spettacolarmente illustrata dalla Guerra Fredda, ha fatto sorgere dilemmi politici insolubili per le nuove élite politiche del Sud Globale, anche per quelle che erano più distanziate dalla cultura occidentale capitalista e comunista, identificando in entrambi i sistemi trappole gemelle basate sulla supremazia dell’”uomo bianco”.
Nel frattempo il movimento dei non allineati è stato neutralizzato dal neoliberismo globale e dalla caduta del muro di Berlino e il cosiddetto Terzo Mondo è divenuto tanto diversificato da perdere la propria specificità. Ma ciò non ha impedito che nuove soluzioni continuassero a essere ideate e messe in atto. Tuttavia ogni volta che esse hanno messo in discussione la prevalenza del Nord Globale e, particolarmente, dell’imperialismo antiamericano, tali soluzioni sono state violentemente contrattaccate: dall’embargo contro Cuba alla distruzione di Iraq, Libia e Siria; dal Nuovo Ordine Economico Internazionale alla neutralizzazione dei BRICS (la cooperazione tra i cosiddetti paesi emergenti: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). La verità è che, nonostante questo, la tenacia con cui i popoli del mondo continuano a cercare soluzioni per la libertà e l’autonomia stupisce tuttora gli analisti. Il mio proposito non è di rendere romantica la loro tenacia o di dire che le soluzioni risultanti devono essere accettate acriticamente. E’ semplicemente questione di avviare una conversazione con il mondo, una conversazione che non deve essere limitata a una discussione delle soluzioni legittimate in passato da una piccola parte del mondo, del mondo eurocentrico. Tali soluzioni hanno incluso, successivamente o contemporaneamente, colonialismo, evangelizzazione, imperialismo, neocolonialismo, assistenza esterna, diritti umani, assistenza umanitaria. Poiché dipendeva da tali soluzioni, il mondo non europeo ha quasi invariabilmente finito per adottarle, volontariamente o costretto, il che è la causa della sua posizione subalterna nei confronti dell’Europa e degli USA. Comunque non ha mai smesso di pensare fuori dagli schemi eurocentrici. In questi tempi in cui le alternative paiono essere state eliminate, questo pensiero è estremamente prezioso nella misura in cui può far sorgere la possibilità di nuovi apprendimenti globali come alternativa alla stagnazione e alla guerra.
Per quanto riguarda l’Europa questo apprendimento dipende da due condizioni principali, anche se nessuna di essere è compatibile con soluzioni immediate. Entrambe comportano una nuova visione dell’Europa. La prima consiste nell’avviare un profondo dibattito sul concetto stesso di Europa. E’ importante cominciare ricordando che non c’è alcuna definizione di “europeo”, almeno in termini di politiche culturali. Quante “Europe” ci sono? Quanti paesi sono paesi europei? Che cosa significa essere europeo? La disintegrazione dell’Unione Sovietica, la riunificazione della Germania e il movimento su vasta scala di migranti, lavoratori e profughi in tutta Europa hanno fatto nascere nuove complessità, sia per quanto riguarda le identità sia per quanto riguarda i confini. Per questo motivo molti autori sostengono che discorrere di ”identità europea” è prematuro. Allo stesso modo non esiste una cosa quale “un’unica Europa”, ma piuttosto una pluralità di definizioni specifiche e contrastanti di essa; ci sono “identità europee” contrastanti, rivali, che dipendono sia dal disegno dei confini sia dalla percezione della natura dell’”europeità”. La protezione dei confini e le autorità dell’immigrazione stanno gradualmente sviluppando le proprie visioni dell’Europa e dell’identità europea, anche se totalmente scollegate da altri livelli di discussione.
La seconda condizione, strettamente collegata alla prima, ha a che fare con quello che è inteso come Sud Globale come mondo non europeo. Il Sud che si confronta con l’Europa come “l’altro” esiste sia all’interno dell’Europa sia fuori di essa. Nei primi decenni del diciannovesimo secolo Metternich, lo statista austriaco, scrisse che “Asien beginnt and der Landstrasse”, il che significa che l’Asia comincia in una strada della periferia di Vienna, la strada in cui vivevano gli immigrati dai Balcani. Allora, come oggi, la distinzione tra i Balcani e l’Europa sembrava chiara, come se i primi non appartenessero all’Europa. Oggi il Sud all’interno dell’Europa sono gli immigrati, i Rom, i figli di immigrati, alcuni dei quali sono nati diverse generazioni fa in questa stessa Europa e hanno passaporti europei, anche se non sono considerati “europei come gli altri”. C’è ancora un altro Sud all’interno dell’Europa che è particolarmente importante per noi; il Sud che, essendo geograficamente periferico, è periferico anche in molti altri sensi. Mi sto riferendo a Portogallo, Spagna, Italia meridionale e Grecia. Storicamente ci sono sempre state due Europe, quella al centro e quella alla periferia, con la prima che non ha mai concepito di poter imparare qualcosa di positivo dall’esperienza della seconda.
Il Sud fuori dall’Europa è stato considerato in un modo esageratamente riduzionista dal quindicesimo secolo. Era costituito da paesi che fornivano materie prime e che successivamente si sono sviluppati in mercati di consumo da esplorare; paesi i cui disastri naturali chiedono aiuti umanitari europei; paesi che non sono in grado di provvedere alla loro popolazione, facendo sorgere il problema dell’immigrazione che “affligge” l’Europa; paesi che allevano terroristi da combattere spietatamente. Questa visione del Sud Globale è tuttora dominata dall’impresa coloniale che stabiliva che, indipendentemente dalla diversità dei loro passati, i popoli e le nazioni soggetti al dominio europeo erano condannati a un unico futuro comune: il futuro che era dettato dall’Europa. Il futuro dell’Europa è divenuto così ostaggio dei limiti che imponeva al mondo non europeo. Quante idee, quanti progetti sono stati scartati, screditati, abbandonati, demonizzati in Europa per la semplice ragione che non erano al servizio del progetto coloniale?
L’Europa deve tornare a scuola, alla scuola del mondo e della sua infinita diversità. Al fine di imparare deve essere disposta a disimparare molte delle sue concezioni di sé e molte delle sue concezioni del mondo non europeo che l’hanno portato dove si trova ora, a questo momento zero di innovazione sociale e politica.

Da ZNetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo
Traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2017 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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