La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 7 marzo 2017

Contro la violenza sulle donne educhiamo alla libertà

di Francesca Sironi  
Offrire parole che servano a una nuova formazione all'amore. E al rispetto. È lo scopo di "Lasciatele vivere", un volume con 18 interventi per affrontare la piaga dei femminicidi e degli stupri lontano dalle semplificazioni  9 febbraio. Picchia la moglie e la figlia di 16 anni con un tubo di plastica. Arrestato a Pomezia.  18 febbraio. 37 anni, operaio. Sant'Agata sul Santerno, Ravenna. I maltrattamenti - denuncia la moglie - erano continui. L'ultima volta per due ore lui la picchia a pugni e calci, trascinandola poi per le scale di casa. Quando arriva la polizia tiene stretto il bambino che ha in braccio. Lo usa come scudo.  8 febbraio. Certaldo, Firenze. Lui ha 31 anni. La sua compagna, per le botte, arriva in ospedale con il naso fratturato, «traumi al cranio e all'emitorace sinistro, prognosi di 25 giorni». Hanno due figli piccoli. 
4 febbraio. Garlasco, Pavia. Lui 59 anni. Picchia la moglie di 50 e minaccia la figlia. Viene allontanato da casa. 
6 febbraio. Picchia la moglie con una scopa e calci, davanti alla bambina di due anni. Vimercate, Monza. 
24 gennaio, periferia di Reggio Emilia. A lungo lei subisce insulti e violenze. Lui era arrivato a rompere la lavatrice per farle lavare i panni a mano. L'ultima volta la picchia, poi la ferisce ai polsi con un pezzo di vetro da un bicchiere in frantumi. Quindi tenta di strangolarla. Lei riesce a scappare e chiamare il 112. 
«La conta degli stupri, dei maltrattamenti, degli omicidi di cui sono vittime le donne lascia sempre sgomenti. Tutta questa violenza brutale ha una chiara matrice razzista. Soprattutto se interpretiamo il razzismo, come ci invitava a fare Lacan, come odio irriducibile nei confronti della libertà dell’Altro. La donna, infatti, è una delle incarnazioni più forti, anarchiche, erratiche, impossibile da misurare e da governare, di questa libertà». A parlare è lo psicoanalista Massimo Recalcati, in uno degli interventi raccolti in “LASCIATELE VIVERE, Voci sulla violenza contro le donne” (Pendragon, 2017) un volume curato da Valeria Babini dell'università di Bologna per affrontare «questa piaga lontano dalle semplificazioni e dalle spettacolarizzazioni, con voci autorevoli della cultura umanistica e scientifica». 
Il libro, che nasce dall'esperienza del primo corso universitario obbligatorio sul problema riporta in oltre 200 pagine frammenti di riflessione che senza mai dimenticare i lividi, o i femminicidi, attraversano le violenze arrivando anche quelle meno urlate del linguaggio o delle carriere, per fermarsi quindi al centro: al potere, alle gerarchie. Perché come ribadiscono in molti, nel corso delle pagine, la violenza non è naturale. Non “capita”. «In natura lo stupro non esiste, gli animali non stuprano. Certe forme di sessualità animale possono essere interpretate come violente, però lo stupro di gruppo, ad esempio, è una cosa tipicamente umana. Lo stupro è stato sempre usato nelle guerre: stuprare la donna del nemico serviva per umiliare e mortificare il vinto», scrive ad esempio la scrittrice Dacia Maraini. 
I maltrattamenti come sintomo di uno squilibrio culturale. Come dolore che affiora di un problema che riguarda il potere. «La radicalità di cui abbiamo bisogno, di fronte alla violenza sulle donne, non consiste nella facile condanna urlata ma nella capacità di vedere le radici di questa violenza nella cultura in cui siamo immersi, nella forma che i nostri desideri e le nostre rappresentazioni del corpo assumono», mostra Stefano Ciccone, fondatore di Maschile Plurale: «Svelare la nostra appartenenza a questo ordine impone a noi uomini di riconoscere l’impossibilità di dirci estranei e innocenti». C'è una responsabilità precisa, continua Ciccone: «È necessario che gli uomini riescano a produrre parole in grado di rappresentare questa nuova e diversa collocazione di fronte al potere e a un cambiamento che lo mette in discussione. Per contrastare la violenza dobbiamo provare a rendere visibile un’alternativa di libertà, per gli uomini, al conosciuto feticcio del potere. Questo può avvenire solo attraverso pratiche collettive che ancora oggi stentano a emergere». 
Ecco affiorare però la parola che percorre come un appiglio quasi tutti gli interventi raccolti nel libro. Di fronte alle botte. Alla morte. Di fronte a quel potere distorto, a cosa guardare? Alla libertà. «Dovremmo pensare che l’educazione alla sessualità implichi sempre una educazione al rispetto dell’alterità. Dovremmo pensare che essa sia una educazione al discorso amoroso», scrive Recalcati: «La domanda d’amore che muove l’uno verso l’altro non deve mai essere scambiata con il sopruso che annienta la libertà, ma come un dono di libertà. Non è questa la forma più alta e intensa dell’amore, quando c’è?». 
È una domanda che parte dall'oltre della violenza. Ma che arriva presto sulle terre note a moltissime coppie: «Vi è una degradazione dell’amore non soltanto tutte le volte che si giunge al limite estremo di eliminare fisicamente o di mutilare l’altra o l’altro», aggiunge ad esempio il filosofo Remo Bodei: «Ma tutte le volte che il rapporto viene inquinato dalla convinzione o dalla pratica di possesso padronale del corpo, della mente e del cuore dell’altro (o, soprattutto, dell’altra), tutte le volte che l’amore diventa qualcosa di banale, parte di un gioco provvisorio in cui l’altro è fungibile, cioè se ne può fare a meno: “chiodo scaccia chiodo”, si dice per indicare il cambio di partner». 
Come fare? «Restare in coppia con la stessa persona non implica necessariamente una fedeltà nibelungica: vuol dire semplicemente che, quando l’affetto c’è o non c’è più, esso va coltivato, e coltivare gli affetti vuol dire sostanzialmente rispettare gli altri». 
La capacità di questo affetto è un'esperienza nuova, ancora da esplorare, in un mondo «in cui le scelte si sono moltiplicate» e «i rapporti umani son diventati più liberi ma anche più complessi», chiude Bodei. È un'educazione che deve passare da tutti, a prescindere dal sesso: «Recentemente ho assistito a un processo per stupro di una bambina di 12 anni, violentata da un gruppo di 15-16enni. Fuori dal tribunale le mamme dei ragazzi urlavano contro la vittima perché andava in giro con le gonne corte, che li aveva provocati. Questo per dire come non sia una questione di genere; quelle madri appartengono a una cultura che crede ancora che esistano i predatori e le prede, e che le prede debbano sempre scappare», ricorda Dacia Maraiani. 
Ed è un'educazione che riguarda anche i media, dove ancora «le motivazioni dominanti riportate su questi crimini sono: perché l’ha fatto? È un mostro; è uno psicopatico; è “innamorato”; era in “preda all’ira”; vede in pericolo la sua famiglia; vede in pericolo la sua virilità», scrive Daniela Minerva, caporedattrice di Repubblica: «Magari è inevitabile cercare le motivazioni del crimine, ma indagare quello che spinge un uomo a violare o uccidere una donna ha due conseguenze odiose: trasformare le motivazioni in giustificazioni e presupporre una ragione che è propria del carnefice, escludendo così che ci sia un perché collettivo e che la violenza di genere sia per molti versi implicita nei rapporti sociali». 

Fonte: espresso.repubblica.it 

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