La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 7 marzo 2017

Qualcosa di enorme


di Luca Lenzini
Poco prima della caduta del muro di Berlino, un anziano poeta europeo osservava en passant, licenziando un suo libro di saggi1(1987): “Qualcosa di enorme si va svolgendo sotto i nostri occhi, e diviene leggibile, che ha cominciato a recuperare, sebbene nessuno dia segno di sospettarlo, alcuni dei massimi moventi delle idee di cosciente rivolgimento sociale. Furono dell’Europa borghese dell’Ottocento. Senza speranze né disperazioni, non me ne aspetto nessun risarcimento ma semmai una crescita del livello delle contraddizioni.” Difficile intendere cosa volesse dire. Rivolgimento sociale? Se qualcosa era uscito in quegli anni dall’ordine del giorno, e in modo plateale, era proprio una tale idea; e con essa la nozione stessa di conflitto.
Anzi gli anni novanta di tutto il repertorio semantico e retorico legato al conflitto furono il ben sigillato sepolcro, ed era toccato a Margareth Thatcher spiegarci che una cosa come la “società” non esisteva proprio (“And, you know, there is no such thing as society”, 1987). A posteriori, si potrebbe magari concedere al nostro poeta che sì, il “livello delle contraddizioni” era al tempo tutt’altro che azzerato, e che presto avrebbe raggiunto ragguardevoli e drammatiche altezze, come in effetti si vide meglio, a livello planetario, a partire dal ’91 e poi via via fino ai giorni nostri, di guerra in crisi e di crisi in esodi e terrorismi senza fine; ma subito aggiungendo, però, che quanto ebbe a caratterizzare l’epoca, da allora, non fu affatto la coscienza delle contraddizioni bensì la sua rimozione. Del resto, quale universo ideologico, tecnologico, mentale era ed è più remoto dall’”Europa borghese dell’Ottocento” del mondo della globalizzazione? Erano (e sono) gli allievi di Von Hayek e i “Chicago Boys” (dai tempi del Cile scuola preminente) a dare il tempo, mica i nipotini di Marx o Bakunin, e non solo a Berlino ma a Mosca e Pechino… e cos’era poi il “Washington Consensus”, se non il condensato delle parole d’ordine volte a cancellare anche i più incerti e velleitari tentativi di cambiamento, nonché ogni residuo di “welfare” che ostacolasse il libero dispiegarsi del Mercato? 
Sebbene nessuno dia segno di sospettarlo, ecco: questa frase di sapore ironico coglieva, forse, la deriva immemore della fin de siécle; ma la “leggibilità” evocata dal poeta avrebbe avuto tutt’altro destino, di segno opposto rispetto a quello di un possibile rischiaramento o, tanto meno, di una rivelazione riguardante i “massimi moventi” – figuriamoci, liberté égalité fraternité? Decisamente, non uno dei nobili ideali era up to date. In forma di pamphlet qualcuno, di recente, ha pensato bene di riassumere le cifre relative al mondo globalizzato2: “l’1 per cento della popolazione mondiale possiede il 46 per cento delle risorse disponibili. […]; il 10 per cento della popolazione mondiale possiede l’86 per cento delle risorse disponibili; il 50 per cento della popolazione mondiale non possiede nulla.” L’osservatore in questione – un francese, vedi caso – da questo quadro deduce una manifesta regressione ai bei tempi dell’Ancien Régime, visto che quel 10 per cento detentore della gran parte delle risorse è paragonabile, di fatto, alla quota della nobiltà pre-1789. Sì, tutto ciò è diventato senz’altro leggibile; non però i “massimi moventi”. Singolare contraddizione. 
Gli anonimi ma influenti spin doctors dell’Intellighenzia Occidentale che per l’occasione (il trionfo del liberismo) hanno rispolverato antichi detti – mors tua vita mea, homo homini lupus (et coetera…) – sapevano quello che facevano, in realtà, né si trattava di una tattica basata su nuovi algoritmi. Naturalizzare la contraddizione, retrodatarla ed eternarla come unica verità di passato e presente, lungo i millenni: era questo il modo per penetrare là dove importava, cioè fin nel senso comune. E qui entriamo in una zona molto interessante, quanto al livello delle contraddizioni; ma anche per la stessa leggibilità dei fenomeni in atto. Il “senso comune”, per l’appunto; la zona in cui le contraddizioni esistono senza esser percepite come tali, ma anzi si fondono e proliferano in una congerie nebulosa di stanza al limite dell’inconscio, satura di apoftegmi low-cost già pronti per l’uso e ognuno fornito di una parcella di verità stravolta. La società senza più conflitto e approdata nel dopo-Storia era il perfetto target per le operazioni legate alle nuove “enclosures” e alla distruzione del Welfare; né c’è bisogno di rammentare a chi spettasse il lavoro grosso, di fondo. I media, ovviamente; ma non per quell’opera di “manipolazione” che si attribuisce loro, come se il compito assegnato fosse solo, per un qualche oscuro complotto, di celare e deformare la realtà, propalare menzogne e dedicarsi esclusivamente all’intrattenimento. Questo, in effetti, avveniva e avviene, con una certa regolarità, e in occasioni critiche (vedi la guerra in Irak e le sue “giustificazioni”) ha i suoi grandi momenti, ma si tratta di ingenuità e tutto sommato di episodiche rozzezze a fronte dell’aspetto più profondo e pervasivo, strettamente connesso a quelle zone di cui si diceva, situate nel corpo della società, nelle sue dinamiche di amnesia ed esorcismo, esposizione e occultamento, informazione e disinformazione (conviventi nel medium). 
Non manca la bibliografia al riguardo. Una volta liquidati gli astiosi esponenti del “pensiero critico”, come conveniva con l’avvento incontrastato della “comunicazione” e dei suoi azzimati adepti, tuttavia, anche la cura delle contraddizioni era finalizzata al marketing; sicché le operazioni di sgombero avevano campo aperto e con il passar del tempo (tempo che, per sua natura, non smette mai di passare) la stessa memoria dei conflitti andava in giudicato, o peggio era regolata dalla par condicio. Eppure l’ultimo libro di Primo Levi, I sommersi e i salvati, che è del 1986, aveva qualcosa da dire per chi volesse intendere quelle dinamiche di cui ora si diceva, sottraendosi a ogni apologia dell’esistente come a ogni dimenticanza del passato. Il fatto che l’esplorazione di Levi, così feconda e insieme rigorosa, fosse svolta sul terreno più aspro ed efferato, lo sterminio nazista, non è affatto un motivo per circoscriverne la portata, per quanto possa sembrare fuor di luogo o addirittura provocatorio e insultante rispetto alle vittime dei lager e dell’universo concentrazionario, con le sue logiche coercitive e senza scampo, irripetibili – certo. Levi scriveva perché il passato, l’orrore non tornasse, perché le sue logiche non fossero dimenticate, anzi diventassero intollerabili alla coscienza: poiché proprio la tolleranza e la complicità, il silenzio, la rassegnazione e la paura avevano in fin dei conti reso possibile quell’universo, che non era confinato nei lager ma comprendeva la società che stava loro attorno. Lui stesso aveva indicato nel capitolo dedicato alla Zona grigia il fulcro del libro e qui si leggono, tra tanto altro, dei passaggi tesi a mettere in luce il funzionamento di ciò che egli ebbe a chiamare l’”abdicazione intellettuale”, come può esser definita la cooptazione degli “uomini di cultura” al crimine in corso, la loro collaborazione al “senso comune”. Ecco come Levi riproduce l’argomentare di chi, con l’apparenza di saperla lunga, si rende complice: 
Sì, le SS potevano bene fare quello che facevano: il diritto naturale non esiste, e le categorie morali nascono e muoiono come le mode. C’era una Germania che mandava a morte gli ebrei e gli avversari politici perché riteneva che solo per questa via avrebbe potuto realizzarsi. Ebbene? Anche la civiltà greca era fondata sulla schiavitù, e un esercito ateniese si era accasermato a Melos come le SS in Ucraina. Erano state uccise vittime umane in numero inaudito, fin là dove la luce della storia può illuminare il passato e, comunque, la perennità del progresso umano non era che un’ingenuità nata nel XIX secolo. “Links, zwei, drei, vier”, l’ordine dei Kapos per scandire il passo, era un rituale come tanti altri. A fronte dell’orrore non c’è molto da opporre: la Via Appia era stata fiancheggiata da due siepi di schiavi crocifissi, e a Birkenau si spandeva il fetore di corpi umani bruciati3. 
Non è dunque per proporre paragoni provocatori che le pagine di Levi, nel loro pacato e implacabile andamento riflessivo, possono essere oggi chiamate in causa, bensì perché hanno tuttora una forza straordinaria nell’analizzare le dinamiche di quella “zona grigia”, di complicità più o meno occulte, che è composta di privilegiati, di risparmiati (provvisoriamente e strumentalmente) all’orrore, che l’orrore contribuiscono a mantenere. 
Certamente, noi non viviamo in un universo concentrazionario. Certamente, non ci sono ronde di SS nei nostri quartieri, né Kapos; e il carattere di unicum del “sistema” nazista non è revocabile o in dubbio. Il disumano, però, non è assente dal nostro universo e in fondo noi siamo dei privilegiati, non senza collaudate spiegazioni sull’eternità del male e circostanziate notizie sull’Appia Antica (“Oh campo del pasado, fragor de tantas tumbas estropeadas4…”). Le statistiche sulla globalizzazione non sono prive di interesse, ma dopo tutto si tratta di schemi e cifre, astrazioni, e per il momento possiamo ancora difendere il nostro “stile di vita” (finché rientriamo nella quota giusta). È nel contesto dell’abdicazione a comprendere e a supporto di questa difesa, più strenua nell’inconscio che nella coscienza della quota privilegiata del mondo globalizzato che l’azione dei media e l’uso delle immagini – dominante, com’è noto, nella nostra “civiltà” – rivela la sua cruda potenza, per nulla astratta e tanto più efficace quanto più ciò che si presenta come minaccia non è più uno spettro del passato, un residuo arcaico relegato nell’ambito di lontani continenti, ma si manifesta qui e ora, irrompendo nel nostro tempo, in diretta e nell’ambito più domestico, nei “profughi” che si arrampicano sui muri recintati di filo spinato, nei “born again” che compiono il massacro, nei corpi offesi di Abu Grahib e nei loro aguzzini, nei decapitati su YouTube e nei loro boia, nei naufragi infiniti del Mediterraneo, nei disperati di Gaza, Calais, Juarez o Aleppo: essi sono il nostro presente e tutto quello che vogliamo non essere, la conferma del nostro privilegio e il ricatto che non dobbiamo scordare. 
Come le lusinghe del consumismo e la fantasmagoria di un’esistenza dedita al piacere e al lusso, o ai succedanei di seconda mano del consumo per tutti, debbono risplendere agli occhi dei diseredati, così il dolore, la devastazione, la violenza e l’ingiustizia vanno mostrati urbi et orbi e anzi debbono essere assunti come rubrica fissa del palinsesto planetario, tra una pubblicità e l’altra e prima della satira che sempre accompagna e rende felici i ridicoli sovrani di un giorno. Allo stesso tempo chi aveva alzato la testa e messo in dubbio l’inevitabilità della guerra e della disuguaglianza, e persino creduto nel mito dell’emancipazione, deve finalmente capire che il progresso è un’altra cosa, e può al massimo prevedere istituzioni caritatevoli per i più “sfortunati”: così il nuovo Millennio si è incaricato di decretare che la modernità stessa, dall’epoca del suo infantile illuminismo fino alle tarde isterie novecentesche, non era stata che una parentesi. 
Dell’esperimento moderno sul versante distopico e dell’esperienza delle zone grigie, nondimeno, c’era e c’è qualcosa che può ancora servire: l’indifferenza che aveva consentito l’orrore e che, questa sì, abita i nostri quartieri. L’acquisita normalità della violenza, la contemporaneità e la convivenza di orrore e routine, da una parte, dall’altra la diffusa insicurezza (e una rabbia sorda) vanno di pari passo; trovando nella lonely crowd di cui ebbe a parlare una volta Adorno5 il terreno elettivo di manovra, terreno che sembra ogni volta assorbire il peggio, non esser mai sazio di quanto di disumano si offre alla vista; una specie di selvaggia ingordigia che fa tutt’uno con l’indifferenza, nelle varie sfumature dal cinismo protervo alla rassegnata condoglianza; nutriti, l’uno e l’altra, di mozziconi di notizie, schiamazzi da talk-show e post del più vieto qualunquismo (includendo perciò una protesta malmostosa e ambivalente). 
L’enorme di cui parlava il poeta, prima ancora che nelle “battaglie di popoli estrani6“, è in questa gelida, gelatinosa e turpe zona grigia che avanza. “La freddezza delle monadi sociali, dei concorrenti isolati, era, in quanto indifferenza al destino degli altri, il presupposto perché soltanto pochissimi si dessero da fare. I giustizieri, i servi accodati alla massa cieca, ben sanno ciò; proprio per questo ne danno sempre di nuovo la prova.” (così Adorno sulla società del nazismo7.) Sempre di nuovo, infatti. Quel tale che fantasticava di Massimi Moventi aveva, però, avvertito il mutamento di scala, la magnitudo del qualcosa che di giorno in giorno, di anno in anno abbiamo lasciato crescere, fino al giorno in cui guardandoci allo specchio quel che abbiamo visto era un dipinto di Francis Bacon. (Resta un mistero come potesse, il poeta, starsene «senza speranze né disperazioni», ma anche lì c’è forse un’indicazione da raccogliere per i nostri giorni, e nessuna ombra di abdicazione.) 

Note 

1 Franco Fortini, Introduzione a Nuovi saggi italiani, Milano, Garzanti, 1987, p. 10. 

2 Alain Badiou, Il nostro male viene da più lontano. Pensare i massacri del 13 novembre, Torino, Einaudi, 2016, p. 23. 

3 Primo Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986, p. 108. 

4 Julio Cortázar, Via Appia Antica (in Poemas), in Papeles inesperados, Madrid, Alfaguara, 2009; trad. it. in J.C., Carte inaspettate, a cura di Aurora Bernárdez e Carles Álvarez Garriga, Torino, Einaudi, 2012, p. 304 (“O campo del passato, fragore di tombe diroccate…”). 

5 Theodor W. Adorno, L’educazione dopo Auschwitz [1966], in Parole chiave. Modelli critici, saggio introduttivo di Tito Perlini, Milano, SugarCo, 1974, p. 138. 

6 Franco Fortini, Come presto… in Composita solvantur, Torino, Einaudi, 1994. 

7 Theodor W. Adorno, L’educazione dopo Auschwitz cit., p. 139. 

Fonte: lostraniero.net 

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