La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 7 marzo 2017

Reddito di cittadinanza: il recente esperimento finlandese


di Miriam Rossi 
Al pari degli altri Paesi scandinavi, la Finlandia è nota per avvalersi di un’ottima politica di welfare. Anche recentemente ha destato l’interesse internazionale la decisione del governo (il primo fra quelli europei) di introdurre il cosiddetto “reddito di cittadinanza” in forma sperimentale per i prossimi due anni. Interesse che però non poteva non andare a braccetto con una certa dote di perplessità per un progetto che coinvolgerà, dal gennaio 2017 fino alla fine del 2018, 2mila disoccupati scelti a caso tra i 175mila che beneficiano di sussidi statali, con età compresa tra i 25 e i 58 anni. I 20 milioni di euro investiti nel progetto serviranno a coprire gli assegni da 560 euro mensili corrisposti a ciascuno dei disoccupati e che saranno versati anche nel caso in cui il beneficiario troverà, come auspicato, lavoro.
L’obiettivo dell’azione, dunque, non è solo combattere la povertà, ma osservare il comportamento dei cittadini quando, azzerando la loro insicurezza economica, sono più liberi di scegliere anche tra un lavoro pagato meno ma più gratificante, rispetto a un impiego più sicuro ma meno stimolante. 
In Finlandia il tasso di disoccupazione è pari al 7,9% (la più alta nel nord Europa) e il sistema di welfare copre ogni sfera della vita dei cittadini (asilo, scuola, università, ospedali, riabilitazioni, alloggi, assicurazioni, disabilità, trasporti, pensioni), con costi per lo Stato che si aggirano tra i 13,4 e i 14,5 miliardi di euro all’anno per una popolazione pari ai 5,5 milioni di abitanti. Un welfare che vada eventualmente a coprire con reddito di cittadinanza l’intera popolazione avrebbe costi molto elevati ma, al di là della conta e del peso sulle finanze del Paese, in questi due anni la governance finlandese cercherà di valutare attentamente la sua efficacia dinanzi a un mercato del lavoro in pressante complessità a fronte della globalizzazione e della robotizzazione tracimante. Paradossalmente da scalzare c’è proprio un atteggiamento innescato dal sistema di welfare attuale nel quale rimangono imprigionati molti giovani che, nel timore di perdere i generosi incentivi statali alla disoccupazione si guardano bene dall’accettare impieghi a basso salario o a tempo determinato, e tendono a rimanere dunque ai margini del mercato del lavoro. 
La domanda sorge spontanea, avrebbe detto Antonio Lubrano. Come potranno evitarsi gli abusi di chi impiegherà il denaro pubblico del reddito di cittadinanza non tanto per ottenere una buona posizione lavorativa, da intendersi dunque come un investimento per l’intero Paese, ma come un bancomat atto a foraggiare una biennale “vacanza” a spese dello Stato? Non c’è modo, in effetti, e i detrattori del progetto già prefigurano un aumento della “pigrizia” dei molti che, ben contenti di avere un reddito, non si impegneranno affatto nella ricerca di un lavoro. 
Immaginate se questo esperimento sociale si svolgesse in Italia. In un Paese ad alto tasso di corruzione e frode come il nostro, esso solleverebbe polemiche di ogni genere: da diffidenze in relazione all’estrazione “pilotata” dei beneficiari alla rilevazione della mancata efficienza del sistema amministrativo statale atto a controllare e a erogare i fondi di cittadinanza. Come distinguere poi gli aventi diritto dai lavoratori in nero e dagli evasori? Inoltre in un Paese di quasi 60 milioni di abitanti, con un tasso nazionale di disoccupazione del 12% e giovanile di oltre il 40%, come potrebbe configurarsi una politica del genere? Se guardare nei prossimi due anni alla Finlandia potrebbe consentire di rilevare effettivamente se si verificherà la riduzione della povertà e l’aumento del tasso di occupazione auspicati, è però altrettanto vero che le peculiarità di uno Stato, del suo mercato del lavoro e delle fasce sociali più deboli non consentono di immaginare una specularità tra il Paese scandinavo e il Belpaese. Inoltre la differenza tra essere pagato dallo Stato per non lavorare e ottenere un contributo per cercare un lavoro può essere molto labile in un contesto quale quello italiano laddove i cosiddetti “neet”, gli inattivi, ossia i giovani che non studiano e non cercano lavoro, risultano in costante aumento. 
Per evitare questi possibili abusi degli strumenti governativi messi in atto e bypassando le controindicazioni non di poco conto per le finanze dello Stato che sarebbero sobbarcate da un costo pressoché insostenibile, in molti anche in Italia propongono l’istituzione del reddito minimo garantito in alternativa al reddito di cittadinanza. In poche parole, se il reddito di cittadinanza, come quello attuato in Finlandia su un campione di prova, va a essere dato a tutti i cittadini dello Stato a prescindere dalla proprie condizioni sociali ed economiche, il reddito minimo garantito andrebbe invece a rivolgersi a quella fascia della popolazione che versa in condizioni di povertà assoluta. Si eliminerebbe così anche quell’iniquità percepita nel momento in cui i soldi pubblici vanno anche a “chi fa surf tutto il giorno davanti alla spiaggia di Malibu”, come ha ben espresso al riguardo il filosofo John Rawls. 
Secondo una recente rilevazione ISTAT la popolazione italiana estremamente povera ammonta al 7,6%, ossia a circa 4 milioni e 600mila individui; un numero cresciuto esponenzialmente a seguito della crisi economica tenendo conto che nel 2007 erano stati calcolati in 1 milione e 800mila i cittadini con standard di vita minimamente accettabili. Accanto a questi, si contano più di 8 milioni e 300mila di cittadini che versano in condizioni di povertà relativa e che, al pari degli altri, possono chiedere sussidi di vario genere o fare appello alla carità. Non esiste però un sistema di sostegno che interviene “in automatico” a dare supporto a queste categorie più povere, senza la necessità di fare richieste specifiche al servizio statale istituito e in attesa che vengano accolte. Un sistema di welfare universale di questo genere non esiste in Italia nonostante se ne discuta da tempo, e in questo aspetto delle politiche sociali il Belpaese è un esempio unico in Europa; il solo altro Paese che non lo deteneva, la Grecia, dal gennaio di questo anno ha predisposto una garanzia di reddito minimo. Sarà il caso di lavorarci su, non tanto per scalzare un indegno ultimo posto, quanto per avviare quanto prima una modernizzazione delle nostrane, vetuste politiche del welfare italiane. 

Fonte: unimondo.org 

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