La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 25 ottobre 2015

«Cani e agenti armati contro i profughi»

di Andrea Oskari Rossini
Un gruppo di ragazzi afghani esce dalla fore­sta e si dirige verso il cen­tro di Dimi­tro­v­grad, nella Ser­bia meri­dio­nale. Sono laceri, spor­chi, non por­tano nulla tranne un occa­sio­nale sac­chetto di pla­stica. Le sto­rie che rac­con­tano sulla Bul­ga­ria, che hanno appena attra­ver­sato, asso­mi­gliano a un film dell’orrore. «I cani delle guar­die di fron­tiera ci inse­gui­vano», rac­conta Zabiul­lah, di Nan­ga­har. «Spa­ra­vano, quin­dici di noi sono stati cat­tu­rati, uno è morto. Siamo rima­sti nella fore­sta per quat­tro giorni senza cibo». Gli altri annui­scono gra­ve­mente. L’interprete dal farsi incalza: «Sei sicuro che sia pro­prio morto?». «Sì, sicuro. È suc­cesso dome­nica».
Man­cano un nome, e un luogo, per vali­dare le testi­mo­nianze sulla nuova ucci­sione di un migrante in Bul­ga­ria. Ma tutti i rac­conti, anche quelli for­niti da altri gruppi che incon­triamo, con­cor­dano nel descri­vere un qua­dro di siste­ma­tica vio­lenza per­pe­trata dalla poli­zia di quel paese nei con­fronti dei pro­fu­ghi, in par­ti­co­lare nella regione al con­fine con la Tur­chia.
Salar, 25 anni, che lavora come volon­ta­rio a Dimi­tro­v­grad, dice che sono giorni che ascolta sto­rie di que­sto tipo. «Rac­con­tano che quando la poli­zia li cat­tura, in Bul­ga­ria, toglie loro tutto, soldi, tele­fo­nino, tutto. Poi lo vedi, in che con­di­zioni arri­vano».
Alcuni mostrano i segni delle per­cosse, o dei morsi dei cani. Un curdo siriano, Ibra­him, di Kami­shlié, uscito nel frat­tempo dal cen­tro di iden­ti­fi­ca­zione con la moglie e i figli, si uni­sce per spie­gare che in Bul­ga­ria è stato dete­nuto per giorni «per nes­sun motivo».
25 euro fino a Belgrado
Dra­gana Golu­bovi, del Com­mis­sa­riato serbo per i Rifu­giati, ci spiega che a Dimi­tro­v­grad arri­vano di media tra le 1.500 e le 2.000 per­sone alla set­ti­mana, quasi tutti gio­vani, molti mino­renni. Non per­mette di entrare nel cen­tro di iden­ti­fi­ca­zione dove, come spie­gano i volon­tari all’esterno, le con­di­zioni sono «molto spar­tane». La per­ma­nenza dura soli­ta­mente poche ore. Dopo l’identificazione, ai pro­fu­ghi viene for­nito un per­messo di 72 ore per attra­ver­sare il ter­ri­to­rio serbo. Fuori dal cen­tro ci sono un auto­bus, e alcuni taxi. Andare a Bel­grado costa 25 euro con il bus, 200 con il taxi. Intorno ai migranti della rotta bal­ca­nica fio­ri­sce una discreta eco­no­mia, anche in que­sto cen­tro sper­duto del meri­dione serbo. Molti afgani però non hanno più nulla, tranne i vestiti spor­chi di fango, e alcuni si guar­dano intorno smar­riti. I volon­tari pre­senti cer­cano di aiu­tare, ma non sem­brano bene accolti dalla gente del posto, che forse li con­si­dera come con­cor­renza. Arriva anche la poli­zia, che fa smon­tare una tenda «no bor­der» pre­pa­rata accanto al fur­gon­cino con i vestiti e i generi di con­forto. Nella serata, la situa­zione sem­bra risolversi.
Da luglio 200mila rifu­giati
A Pre­ševo, 200 chi­lo­me­tri da qui, al con­fine tra Ser­bia e Mace­do­nia, la situa­zione è diversa. I flussi, anzi­tutto, sono molto più con­si­stenti. «Nella gior­nata di lunedì sono entrate 8.000 per­sone, ma la media è di 5/6.000 al giorno», spiega Slo­bo­dan Savovi, respon­sa­bile del cen­tro di iden­ti­fi­ca­zione «One stop cen­tre» per il Com­mis­sa­riato serbo per i rifu­giati. «Dall’8 luglio, quando abbiamo aperto», dice Savovi, entrando all’interno della strut­tura, «sono pas­sate 200.000 per­sone».
I pro­fu­ghi si inco­lon­nano in lun­ghe file fuori dalla ex mani­fat­tura di tabac­chi. Dopo i con­trolli con il metal detec­tor, e il sac­chet­tino di cibo for­nito dalla Croce rossa, le per­sone ven­gono regi­strate e rice­vono il per­messo di tre giorni. «Pos­sono anche fare domanda di asilo, spiega Savovi, ma in pra­tica non lo fa nes­suno».
Diver­sa­mente da Dimi­tro­v­grad, qui la stra­grande mag­gio­ranza delle per­sone in fila viene dalla Siria. Sono fami­glie, e ci sono tan­tis­simi bam­bini. Per i siriani, l’incubo non è stata la Bul­ga­ria, ma il breve tratto di mare tra Tur­chia e Gre­cia. La cifra da pagare ai traf­fi­canti, per salire sui gom­moni, varia tra i 1.000 e i 1.500 dol­lari a testa. I mafiosi però non sal­gono. Spie­gano come fun­ziona il motore, e indi­cano la riva da rag­giun­gere. «Ci ha sal­vati la marina greca», spiega un uomo che aspetta con i suoi bam­bini. «Il canotto stava affon­dando, ci hanno por­tato loro a Miti­lene».
Anche a Pre­ševo le con­di­zioni sono molto spar­tane. L’intero sistema dell’accoglienza si basa sulla pre­vi­sione che i pro­fu­ghi reste­ranno solo poche ore. Fuori dal cen­tro di iden­ti­fi­ca­zione, i ven­di­tori dei biglietti per il con­fine con la Croa­zia atten­dono impa­zienti. Il viag­gio costa 35 euro. Gli auto­bus, alcune decine, par­tono in con­ti­nua­zione. Le infor­ma­zioni, e il con­forto, ven­gono for­niti anche qui pre­va­len­te­mente dai volon­tari. Tra gli altri ci sono anche Vjo­leta e Goran, del gruppo delle Donne in nero di Bel­grado, («Siamo stati soli­dali con i rifu­giati delle guerre nei Bal­cani, siamo soli­dali con i migranti»), e Vanja, una ragazza bosniaca rifu­gia­tasi in Sviz­zera durante le guerre nei Bal­cani, che da mesi aiuta qui i migranti insieme alla sua asso­cia­zione, Borderfree.
Fango e spor­ci­zia tra le tende 
Pre­ševo, una cit­ta­dina di poco più di 10.000 abi­tanti, a mag­gio­ranza alba­nese, è la prin­ci­pale porta di ingresso in Ser­bia nella rotta bal­ca­nica. I diversi flussi, quello pro­ve­niente dalla Mace­do­nia e quello pro­ve­niente dalla Bul­ga­ria, con­flui­scono poi a Ber­ka­sovo, poco a nord di Šid, da dove i pro­fu­ghi entrano in Croa­zia. Se a monte, in Austria, in Slo­ve­nia, o nella stessa Croa­zia, i con­fini ven­gono chiusi, anche tem­po­ra­nea­mente, o i flussi ven­gono ral­len­tati, è a Ber­ka­sovo che suc­cede il puti­fe­rio. Qui i migranti devono per­cor­rere alcuni chi­lo­me­tri a piedi per arri­vare al valico di fron­tiera che, gio­vedì scorso, asso­mi­gliava a un girone dan­te­sco. Fango, spor­ci­zia e detriti cir­con­dano dei ten­doni che por­tano verso i recinti e i cor­doni della poli­zia croata che deli­mi­tano il con­fine. La gente si ammassa, spinge, i poli­ziotti urlano cer­cando di far pas­sare le per­sone in pic­coli gruppi. Ine­vi­ta­bil­mente, le fami­glie ven­gono sepa­rate, men­tre i volon­tari da entrambi i lati delle bar­ri­cate cer­cano di riu­nire i bam­bini con il pro­prio gruppo. Pro­prio i bam­bini, insieme alle donne e agli anziani, sono quelli che più sof­frono in que­sta situa­zione. Inspie­ga­bil­mente, non c’è alcun accesso prio­ri­ta­rio per loro, o in gene­rale per le cate­go­rie più vul­ne­ra­bili. Restano per ore sotto i ten­doni, al freddo e nella spor­ci­zia, aspet­tando di poter con­ti­nuare il viag­gio. Se doves­sero atten­dere più di poche ore, nes­suno sa esat­ta­mente cosa potrebbe suc­ce­dere.
Il flusso di rifu­giati e migranti che attra­versa la peni­sola bal­ca­nica si sta len­ta­mente tra­sfor­mando in una crisi uma­ni­ta­ria, di grandi pro­por­zioni. Le con­di­zioni lungo il cam­mino non stanno miglio­rando, ma peg­gio­rano, insieme alle con­di­zioni del tempo. L’unica cosa che non sem­bra cam­biare è la deter­mi­na­zione di que­sti popoli in fuga. Le donne siriane in cam­mino, fuori di sé dalla stan­chezza, con i figli in brac­cio, hanno lo sguardo deciso, come fos­sero in una mis­sione. È lo stesso sguardo dei ragazzi afghani. È stata data loro una spe­ranza, non li fer­mano né il mare, né le botte dei poli­ziotti bul­gari, né i muri di Orbán.

Fonte: il manifesto 

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