di Massimo Donà
Si ricorderà come, per Platone, al fine di capire il mistero della bellezza, fosse necessario indagare la struttura segreta custodita nell’opera del più grande architetto che mai si sarebbe potuto dare nella storia. Ossia, del Demiurgos.
D’altro canto, cosa avrebbe potuto essere assunto quale modello ideale per una costruzione “perfetta” se non il kosmos? Quello in cui tutti noi ci troviamo ad abitare, e che al cospetto di ogni sua manifestazione determinata e particolare, continua a presentarcisi come la sempre identica totalità da cui nulla può essere mai tenuto fuori.
Anche perché, qualunque cosa si volesse far esistere al di fuori di esso, non potrebbe che costituirsi come un ennesimo elemento, per quanto non ancora enumerato, sempre del medesimo kosmos – stante che, quando diciamo kosmos non indichiamo alcun determinato essente, e quindi nessun questo e nessun quello, ma sempre e solamente ciò che di fatto continua a presentarcisi nel semplice presentarsi come tale da parte di qualsivoglia determinatezza (la quale non sarebbe tale, ossia non sarebbe la de-terminatezza che è, se non in relazione a tutto ciò che la costituisce quale sua imprescindibile de-terminante… nulla escluso).
Ossia, tutto l’esistente; ché, tutto quel che esiste ora, insieme alla determinatezza con cui mi trovassi ad aver a che fare, dovrà esser riconosciuto come momento ineludibile della stessa “questità” che rende ogni determinatezza presente “un qualcosa”. Sì che sia anche facilmente comprensibile per quale ragione Platone concepisca tale kosmos come una perfetta “compiutezza”; stante che nessuna delle esistenze che dovessimo di volta in volta rinvenire, nel processo senza fine che è di fatto necessario al rinvenimento di tutto ciò che fa parte della totalità dell’esistente, potrà essere riconosciuta come realmente “mancante” all’attuale e determinata, nonché solo apparente perfezione del cosmo.
Ossia, tutto l’esistente; ché, tutto quel che esiste ora, insieme alla determinatezza con cui mi trovassi ad aver a che fare, dovrà esser riconosciuto come momento ineludibile della stessa “questità” che rende ogni determinatezza presente “un qualcosa”. Sì che sia anche facilmente comprensibile per quale ragione Platone concepisca tale kosmos come una perfetta “compiutezza”; stante che nessuna delle esistenze che dovessimo di volta in volta rinvenire, nel processo senza fine che è di fatto necessario al rinvenimento di tutto ciò che fa parte della totalità dell’esistente, potrà essere riconosciuta come realmente “mancante” all’attuale e determinata, nonché solo apparente perfezione del cosmo.
Insomma, tutto ciò che il discorso troverà e riconoscerà solo in conformità ad una sequenza temporale che rende ogni “poi” mancante al suo “prima”, e quindi sempre ancora da rinvenire…. indicherà qualcosa che questo medesimo discorrere dovrà ogni volta riconoscere come già appartenente al ‘prima’, nel suo essere ancora in attesa del proprio ‘poi’.
Sì che il nostro non riuscire ad abbracciare in un unico sguardo sincronico la determinatezza della totalità non dica affatto un nostro “limite”; perché nessun limite determinato, in questo processo di rinvenimento della totalità, potrà essere per noi un vero limite. Ossia, un limite insuperabile – un limite che, solo in quanto insuperabile, potrebbe limitarci davvero.
Noi possiamo infatti procedere sempre oltre ogni limite, e riconoscere ogni volta che quel che sembrava esterno al nostro sguardo… era solo apparentemente esterno rispetto al suo abbraccio – non a caso, ogni volta, quelle che sembrano costituirsi come “alterità”, vengono ineludibilmente ricomprese in un abbraccio che dunque, sia pur discorrendo, non farà altro che rinvenire quel doveva necessariamente essere già ‘suo’.
Insomma, se, in ogni determinatezza, ad essere chiamato in causa è tutto quel che esiste, e se pur tuttavia noi ci troviamo ogni volta al cospetto di un insieme determinato di essenti che lascia fuori di sé qualcos’altro… ciò non significa che questo “altro” non sia già compreso dallo specifico determinarsi (conformemente al modo in cui esso sempre si determina) da parte di ogni determinatezza.
Dire dunque che la totalità è qualcosa di indeterminato o incondizionato (come sarebbe stato perentoriamente stabilito da Kant) non significa che essa manchi di quel che la determina (il “non” preposto al suo esser comunque determinata, ossia al suo presentarsi sempre come ‘parte’, non indica cioè alcuna mancanza, e tanto meno esclusione), o che essa non riesca a presentarsi conformemente a quel che la medesima già sarebbe… in conformità alla supposta, per quanto sconosciuta, determinatezza di quel che la determina.
Il fatto è che, se essa non è determinata, ciò non dipende dal suo escludere da sé una qualche determinatezza, o la determinatezza tout court, ma perché, di ogni sua provvisoria determinatezza, si dovrà continuamente riconoscere che nessun ‘oltre’ varrà per essa come semplice e astratta esteriorità. Come semplicemente altro da essa. Tutti gli “oltre” che essa ci consentirà di rinvenire, dovranno cioè essere riconosciuti come già suoi; come già intrinsecamente costituenti quel che comunque “riconoscevamo”… pur senza riuscire ancora a riconoscere quegli ‘oltre’ come momenti della sua già data determinatezza. Dovranno cioè essere riconosciuti come suoi, ma insieme come altri dalla determinatezza di partenza (quella di cui cerchiamo in continuazione la vera determinante, senza renderci conto del fatto che essa c’è, e consiste, in senso proprio, nel semplice negarsi da parte di qualsivoglia determinatezza venga riconosciuta come già ‘sua’). Come quell’altro che, propriamente, non è affatto altro da essa. Come quell’altro da essa che insieme non è altro dalla medesima.
Che la totalità sia indeterminata significa dunque solo questo: che essa, non potendo mancare di alcuna determinatezza (stante che qualsivoglia determinatezza altra dalla determinatezza di partenza, ossia da quella determinatezza che riteniamo ogni volta determinatamente presente, mancherà alla determinatezza di partenza solo se concepita nella sua positiva parzialità, ossia, nella sua positiva determinatezza, e non in rapporto al suo non esser altra da quella), ci costringe a riconoscere come non-mancanti tutte le determinatezze che di volta in volta riusciremo a rinvenire come sue “altre determinanti”. Ciò significa peraltro che la parzialità nel cui volto il tutto sempre ci si presenta, non manca mai; per quanto presente nella forma della parzialità: perché, a mancare, in ognuno dei suoi volti, sarà piuttosto… sempre e solamente un’altra parte; che, peraltro, una volta rinvenuta, dovrà essere riconosciuta appunto come già condizionante quel che si lasciava riconoscere nella forma di una semplice parzialità. E dunque anche come non altra dalla medesima – ossia, dall’essente di volta in volta presente.
Perciò, quando riconosciamo, nella parte (nella determinatezza), la presenza della totalità (ossia, quando, in ogni cosa, riusciamo a riconoscere la perfetta intrascendibilità del kosmos prodotto dal Demiurgos platonico), di fatto non riconosciamo in essa altro che questo:… ossia, non tanto una serie precisa e determinata di componenti (ché, se si trattasse di ciò, vedremmo una semplice parte, e non la totalità che qualcuno potrebbe anche credere di avere davanti ai propri occhi), quanto piuttosto il non essere altro da essa da parte di quel che pur incontreremo, secondo l’ordine del tempo, come ‘altro’ dalla medesima.
La totalità dice cioè l’essere già da sempre compiuto da parte di un cammino (quello attraverso cui attingiamo tutte le diverse alterità…) che peraltro mai esperiamo come determinatamente “compiuto”; e che, solo per questo, ci autorizza a proseguire, attingendo una sempre possibile ulteriorità. Sì da fare ogni volta un passo in più, oltre a quelli (per quanti essi siano) già compiuti.
La totalità ci dice insomma che il non ancora compiuto altro non mostra se non il non esser ancora compiuto da parte di quel che è sin dall’inizio nello stesso tempo già compiuto. Ci mostra cioè che il compiuto si nega. Che esso si mostra “negandosi” – sì da consentirci, per ciò stesso, di procedere sempre oltre. Verso un oltre, però, di cui saremo ogni volta costretti a riconoscere il non essere affatto un oltre.
Dove, quindi, a non costituirsi come un oltre è il sempre realissimo “oltre” che potremo ogni volta proporci di raggiungere. Sì che “la sua negazione” non cancelli affatto il negato, né alluda a qualcosa di diverso rispetto al suo manifestarsi come un vero e proprio “oltre”. Che proprio per questo cercheremo di guadagnare procedendo oltre il nostro spazio esistenziale, in cerca di sempre nuovi spazi… consapevoli del fatto che essi ci spettano, anche solo per il fatto che possiamo proporci di abitarli e prenderne possesso. Perciò il nostro abitare è un essere sempre nel medesimo kosmos… sentendoci sicuramente autorizzati ad attraversare tutti gli spazi che le esistenze sempre determinate in cui esso, solo, può mostrarsi (sia pur negandone la determinatezza; negando che in esse si risolva quel che c’è e che, a mostrarsi, nelle medesime, possa davvero essere la determinatezza del kosmos… e non, più semplicemente, la sua perfetta ‘icona’ – immagine non di qualcosa d’altro, ma sempre e solamente del suo stesso non essere quel che è), ci prospettano quali territori di sempre nuove conquiste. E dunque quali luoghi di attraversamento, procedendo lungo i quali, solamente, potremo confermare di non esserci mai spostati di un millimetro dall’intrascendibile indeterminatezza spaziale che ognuno di tali luoghi porta in ogni caso alla luce.
Ossia, dalla bellezza imparagonabile che già Platone riconosceva come caratterizzante questo unico kosmos – che perciò sarebbe diventato icona perfetta dell’unità cui doveva aver guardato il Demiurgos nell’accingersi a produrlo –, se non altro per il fatto che ogni volta risulta perfettamente impossibile ‘distinguere’ le cose legate (le cose nella loro parzialità o determinatezza) e il legame che le connette le une alle altre… stante che il legame è la cosa stessa in quanto riconosciuta nel proprio originario negarsi. Sì che nulla di altro– che non sia esso medesimo destinato a presentare ogni volta ancora lo stesso kosmos – possa offrirsi come semplicemente ‘altro’ dalkosmos chiamato ogni volta inderogabilmente in causa. Rendendo il kosmos medesimo perfettamente im-paragonabile…. non solo e non tanto, dunque, perché troppo bello rispetto a qualsiasi altra bellezza determinata, ma perché nessun’altra bellezza può essere rinvenuta al di là di esso (che sia al medesimo in qualche modo paragonabile), o meglio per il fatto che in ogni cosiddetta altra bellezza determinata, a presentarsi sarà sempre la sua (del kosmos) stessa imparagonabile bellezza, percepita appunto come bellezza di questa o quella sua espressione. O anche… come il suo (di questa o quella espressione determinata) esser bella in ragione del mostrarsi, in essa (là dove la medesima appaia bella), da parte del kosmos tutto intero… anzi sempre del medesimo kosmos – e quindi del mostrarsi, in essa, di un’unità che non dice tanto l’esser una di questa o quella cosa, quanto piuttosto l’unità che, pur essendo tale sempre e solamente nell’esser una di questa o quella delle sue determinatezze, di queste stesse costituisce di fatto la più radicale “negazione”.
Riuscendo comunque a manifestarsi finanche nell’esser sempre se medesima da parte di qualsivoglia determinatezza, pur nel suo incessante negarsi e trasformarsi in conformità a quel divenire che, pur non dando luogo a diverse ipostasi separate, viene da noi esperito come se il passato fosse altro dal presente, e il presente altro dal futuro. Infatti, ognuno di noi vive il prima come ormai sostituito da un presente che di quello avrebbe ormai finito per occupare lo spazio esistenziale, modificando così la sua stessa determinatezza. Facendo di quel che era presente e che ora è semplicemente passato, ciò che ha ormai lasciato il posto a qualcosa d’altro… e che pur tuttavia continua inspiegabilmente ad apparire come l’essersi fatto diverso da parte di qualcosa che rimane comunque lo stesso di prima – di cui si dovrà nello stesso tempo riconoscere il non essersi affatto modificato… se non apparentemente. Ché altrimenti non potremmo neppure riconoscere l’essersi modificato da parte di questo o quell’essente.
Eppure non tutto quel che appare, appare come il manifestarsi di una sempre identica bellezza. Non di tutto siamo infatti risposti a riconoscere l’esser bello – ciò che peraltro dovrebbe conseguire a tutto questo discorso, là dove si riconoscesse che, ad apparire, in esso, sia sempre il medesimo kosmos.
Resta dunque da spiegare cosa renda possibile un’immagine imperfetta dell’unità di cui tutto rimane comunque nello stesso tempo fedele manifestazione. Come sia possibile, cioè, una cattiva immagine dell’Uno. Si da poter anche capire cosa possa davvero rendere qualcosa (stante la non determinatezza dell’Uno in quanto tale) perfettamente impotente a mostrarci l’Uno che nel tempo continua in ogni caso a mostrarsi. Rendendola cioè astrattamente ‘diversa’… e dunque semplicemente ‘mancante’.
Vedremo cosa renda possibile questa diminutio, di per sé apparentemente inspiegabile, stante il fatto, a mostrarsi, è, ogni volta, e in ogni cosa, sempre la medesima e perfetta unità. E vedremo anche che… se, a rendere possibile tale diminutio, è sempre e solamente laparzialità di quel che, apparendo, appare sempre e comunque come semplice determinatezza parziale, questa stessa parzialità può farsi comunque capace di svelare quel che parziale non è affatto. E vedremo quindi come ciò sia reso possibile proprio dal fare dell’artista… e dal suo aver a cuore non tanto il conseguimento di un altro spazio (dello spazio che ancora ci mancherebbe, e della sua parzialità), quanto piuttosto il conseguimento di quel “limite ultimo” che non è un limite “dello” spazio e neppure “nello” spazio… ma consente piuttosto l’esperienza di quella verità temporale che, sola, sembra in grado di ricondurre “lo spazio” alla propria originaria e mai mancante determinatezza… facendola risuonare di una “negazione” come quella in virtù della quale, solamente, questo spazio viene prima e quello spazio viene dopo, e il passato e il futuro riescono a distinguersi mostrando che, a dirsi, in questo stesso loro distinguersi, altro non è che l’originario distinguersi di quel che distinto non è affatto (come il presente trascendentale di agostiniana memoria – che è sempre se stesso in qualità di presenza di quel che non è più e presenza di quel che non è ancora).
Ecco il compito di cui l’arte può farsi carico; ritrovando la natura originariamente musicale che, sola, sembra consentirci di riconsegnare lo spazio al tempo – e di fare i conti con una spazialità incatturabile appunto perché “ultima” (dato che sempre catturabili sono invece tutti gli spazi che si dicono altri da quelli da noi temporaneamente abitati – da quelli che, in quanto tali, non sono mai ultimi, già per il loro semplice indicare un’ulteriorità ed una prosecuzione sempre ancora possibili). Perché coincidente cioè con l’esperienza di quell’inutilizzabile e impraticabile che è costituito in primis dall’inoggettualità del ‘suono’ – la stessa che possiamo solamente ‘ammirare’ e contemplare a distanza di sicurezza; guardandoci bene dal disporci nei suoi confronti come faremmo al cospetto di una qualsiasi delle spazialità destinate a disegnare le oggettualità parziali e sempre manchevoli che può capitarci di incontrare in qualità di soggetti agenti.
Fonte: Scenari Mimesis
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.