di Andrea Baldazzini
L’intento che qui ci proponiamo di svolgere è quello di fornire una presentazione generale delle origini della teoria politica del Comune, soffermandosi in particolare sulla prospettiva elaborata da Pierre Dardot e Christian Laval nel loro ultimo libro tradotto da poco in italiano per Derive Approdi con il titolo “Del Comune o della rivoluzione nel XXI secolo”. É un libro molto corposo e articolato che si pone immediatamente come un tentativo di ripensamento complessivo del concetto di Comune. Come vedremo è importante distinguere fin da subito il tema del Comune da quello dei cosiddetti Beni Comuni poichè essi hanno storie e significati radicalmente diversi, anche se spesso e volentieri vengono evocati negli stessi contesti di discussione. Inoltre, chiunque può intuire quanto il Comune, qui assunto come termine di discussione e non come semplice aggettivo, abbia origini antichissime, anzi, si può dire che da sempre nella storia occidentale si parla di Comune.
Tanto per fare alcuni esempi basti pensare all’oikos greco, termine che letteralmente significa ‘casa’ ma, viene utilizzato anche per indicare le più importanti realtà sociali greche come la famiglia o lo Stato inteso appunto quale insieme di queste famiglie. Esso indica insomma le dimensioni collettive in cui vi è produzione di e in Comune. Oppure si pensi al termine aristotelico koinònein, cioè il “mettere in comune” che indica l’azione dei cittadini di deliberare in comune per determinare ciò che conviene alla città e ciò che è giusto fare.
Tanto per fare alcuni esempi basti pensare all’oikos greco, termine che letteralmente significa ‘casa’ ma, viene utilizzato anche per indicare le più importanti realtà sociali greche come la famiglia o lo Stato inteso appunto quale insieme di queste famiglie. Esso indica insomma le dimensioni collettive in cui vi è produzione di e in Comune. Oppure si pensi al termine aristotelico koinònein, cioè il “mettere in comune” che indica l’azione dei cittadini di deliberare in comune per determinare ciò che conviene alla città e ciò che è giusto fare.
Facendo un salto di alcuni secoli si può pensare al Comune e alla sua nascita come realtà politica reale nella forma di quell’ente territoriale di base, sorto dopo la scomparsa dei regimi feudali, dotato di un certo grado di autonomia amministrativa e rivolto agli interessi dei sui abitanti o comunque della popolazione locale.
Facendo un altro salto di alcuni secoli arrivando all’800, si può notare come il tema in questione emerga in relazione ai concetti di socialismo, comunismo, anarchismo, in relazione insomma a tutte quelle riflessioni critiche verso il sistema di produzione capitalistico. Ciò è molto importante in quanto a partire da quegli anni, il tema del Comune inizia a venir discusso esclusivamente a partire da tematiche di carattere politico-economico quali la produzione, la proprietà, le risorse, i profitti, il lavoro ecc, il comune acquista insomma una sorta di primo statuto epistemologico sul quale verrà piano piano costruendosi un intero filone critico. Questa brevissima panoramica ha voluto solo mostrare come il termine Comune attraversi tutta la storia dell’Occidente, cambiando notevolmente semantica, ma rimanendo ancorato ad un uso quotidiano che ne fa un concetto allo stesso tempo familiare e sconosciuto.
Volendo però definire una data precisa a partire dalla quale il concetto di Comune subisce una svolta radicale, iniziando così a venir trattato secondo i canoni dei dibattiti contemporanei, è necessario evocare il famoso articolo del 1968 di Garrett Hardin pubblicato sulla prestigiosa rivista Science con il titolo “La tragedia dei beni comuni” dove l’autore con questa espressione intende il risultato di una situazione in cui diversi individui, utilizzano un bene comune per interessi propri, e nella quale i diritti di proprietànon sono chiari, cosicché non viene garantito il fatto che chi trarrà i benefici dall’uso della risorsa, ne dovrà sostenerne anche i costi. Secondo Hardin riconoscere l’esistenza di risorse comuni significa riconoscere la necessità di non abbandonare le suddette risorse al libero arbitrio individuale, ma utilizzarle secondo una gestione condivisa che utilizza regole e limiti. Dagli anni ’70 in poi, in conseguenza anche delle spinte politico-culturali prodotte dal ’68, il dibattito intorno al comune ha assunto innumerevoli sfumature, andando a intersecarsi persino con il tema dell’ecologia e dello stato sociale. Purtroppo non vi è qui la possibilità di ripercorre nello specifico tutti i vari passaggi della discussione, ma prima di entrare nel merito del libro che qui presentiamo è obbligatorio evocare altri tre autori, i quali costituiscono poi i veri punti di riferimento per i nostri Dardot e Laval. Il primo di essi è certamente Elinor Ostrom, premio nobel per l’economia nel 2009 e in particolare è per noi importante il suo libro del 1990 “Governare i beni comuni” il cui titolo originale è “Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action” dove ad essere messo a tema è proprio la governance dei beni comuni. Gli altri due autori sono Toni Negri e Michael Hardt e in particolare il loro libro del 2010 intitolato “Comune. Oltre il pubblico e il privato” oltre al secondo lavoro del 2012 del quale è autore solo Negri che si intitola “Inventare il comune”. A questo punto disponiamo di un quadro generale, anche se non del tutto esaustivo, a partire dal quale possiamo entrare nel merito delle considerazioni dei nostri due autori francesi.
Va sottolineato inoltre che l’interesse verso quest’opera è molteplice: una volta tanto ci si trova davanti a un lavoro che non intende fermarsi all’aspetto meramente analitico-descrittivo della questione, ma avanza proposte che hanno un preciso valore pratico, e a tal proposito si guardi alla parte finale del libro dove vi sono elencati una serie di principi politici che vogliono in modo esplicito suggerire come si possa «istituire l’inappropriabile», cioè come si possa trasformare in agire quanto precedentemente teorizzato, mantenendo ferma la convinzione che oggi non esistono certezze in politica e che l’unica strada è quella della “sperimentazione razionale” (mia espressione).
Vi è infatti un’unica premessa: è sbagliato tentare di considerare quanto qui proposto con le categorie politiche a cui siamo abituati, cercando di farvi aderire le solite chiavi di interpretazione, perchè parlare di Comune e politica oggi, significa prima di tutto dimostrare di credere nell’esistenza di un’alternativa allo stato attuale dei fatti, che la condizione del presente può essere cambiata, che non esiste necessità nel mondo, ma solo contingenze profondamente radicate che richiedono un pensiero altrettanto radicale per essere sradicate.
Come scrivono gli autori nelle primissime pagine del libro: «Il Comune è diventato il nome di un regime di pratiche, di lotte, d’istituzioni e di ricerche che aprono su un avvenire non capitalista. Questo libro intende identificare nel principio politico del comune il senso dei movimenti, delle lotte e dei discorsi che un po’ ovunque nel mondo, in questi ultimi anni, si sono opposti alla razionalità neoliberista». Un esponente del movimento Gezi Park di Istanbul (2013) ha ben riassunto l’idea di base proposta dagli autori così: «Comune è il nome di una forma politica, quella dell’autogoverno locale, mentre commons, è nel caso specifico, il nome di quegli spazi urbani che la politica neoliberista di Erdogan vuole confiscare a vantaggio degli interessi privati».
Da queste poche righe emerge già la prima importante distinzione: come non bisogna identificare il Comune con i beni comuni, così non bisogna neanche identificare il Comune con i commons la cui origine fa riferimento alle pratiche di autogestione della terra in epoca medioevale, e che mano a mano è diventato il termine che indica l’insieme delle risorse materiali e immateriali considerate dalla maggioranza come comuni e dunque inappropriabili.
Non potendo però presentarvi il libro nella sua interezza ho deciso di suddividere il mio discorso in tre parti, l’insieme delle quali vuole provare a rispondere alla domanda intorno a cui alla fine si costruisce l’intera riflessione degli autori: che rapporto c’è tra il Comune, inteso come autentico principio politico e l’istituzione (che non ha il senso classico di strutture del potere costituito) ?
Ebbene, per rispondere a questo interrogativo bisogna prima di tutto rispondere ad altre tre domande: Che cos’è il comune e che differenza c’è con i commons ? Che cos’è un’istituzione e come nasce? infine, che cos’è una prassi istituente?
Partiamo dalla prima domanda, alla quale con l’esempio di Gazi Park abbiamo in parte già risposto. Il Comune viene qui usato dagli autori come sostantivo e non come aggettivo, indica il nome di un principio politico che racchiude uno scheletro teorico a partire dal quale è possibile dare vita a una prassi politica, che viene così sostenuta da una visione complessiva e non più parziale, guadagnandone in termini di legittimazione ed efficacia. Volendo fornire un riassunto dei vettori che dovrebbero guidare la prassi, si può dire che il comune deve diventare il motore della trasformazione sociale, per poi opporre il diritto d’uso al diritto di proprietà, l’impresa comune e l’associazione devono prevalere nella sfera dell’economia; inoltre va riaffermata la necessità di rifondare la democrazia sociale, così come il bisogno di trasformare i servizi pubblici in istituzioni del comune e infine, l’ultimo passo sarà quello di istituire i comuni globali inventandosi una federazione dei comuni. Ovviamente, come appare chiaro, tali proposte hanno un carattere più di guida che di precetto, il loro obiettivo è quello di spostare l’attenzione delle persone su quelle tematiche che oggi non vengono nemmeno considerate politiche, ma che in realtà intervengono nella gran parte della vita quotidiana di ognuno: dagli spazi urbani, agli spazi di lavoro, a internet, alle principali risorse naturali, al sapere, oggi non si smette mai di vivere nel comune, di produrre in comune, di consumare in comune e dunque non si dovrebbe nemmeno smettere di lottare in comune. Inoltre non è un caso che il paradigma sociologico contemporaneo maggiormente considerato e studiato, sia proprio quello relazionale, che fa della relazione il centro della nostra vita, relazione che, a sua volta, mostra la necessità dell’esistenza di una dimensione comune quale base per ogni relazionalità che altrimenti non potrebbe nemmeno sorgere.
Per quanto riguarda invece i commons bisogna richiamare in causa Elinor Ostrom, la quale ha definito con chiarezza come essi non siano tanto delle ‘cose’ che preesisterebbero alle pratiche, piuttosto essi sono delle «relazioni sociali tra individui che utilizzano determinate risorse in comune in base a regole d’uso, di condivisione o di coproduzione», sono cioè degli spazi istituzionali, all’interno dei quali vi è una continua interazione tra persone e risorse più o meno materiali. Questa è un’osservazione importante perchè sottolinea come la caratteristica generale dei commons sia il loro essere oggetti si una regolazione collettiva auto-organizzata. Inoltre, «l’accento posto sulla costituzione di regole pratiche di azione, introduce una concezione di governance dei commons visti come sistemi istituzionali di incentivo alla cooperazione». Volendo essere essenziali si potrebbe affermare che «i commons sono delle istituzioni che consentono una gestione comune in base a regole multi-livello stabilite dagli stessi “appropriatori”». La teoria dei commons proposta dalla Ostrom diventa fondamentale perchè compie un grande passo in avanti rispetto a tutte le precedenti concezioni che non riuscivano a fornire una ‘formalizzazione’ a tali pratiche di condivisione e coproduzione, mentre ella è stata la prima a portare alla luce il carattere COSTRUTTO dei commons. Qui non si fa appello a nessuna presunta proprietà naturale intrinseca dei beni, nè a intuizioni etiche o morali, qui si afferma invece il loro carattere politico e istituzionale.
Grazie poi alla riflessione di Negri e Hardt si è passati dal termine plurale dei commons al sostantivo singolare di Comune, intendendo con esso quel principio filosofico «che consente di concepire un futuro possibile al di là del neoliberismo, è la dimensione nascosta e ignorata del capitalismo nella sua fase più recente». Dardot e Laval affermano però che la teoria di Negri e Hardt pecca di un eccessivo grado di spontaneismo nella produzione del comune, derivato «da una tesi troppo semplicistica e di fatto errata secondo la quale vi è un’autonomia intrinseca e irreversibile nel lavoro intellettuale», il che li ha portati ad evitare la questione fondamentale riguardo a quali siano le forme concrete attraverso le quali oggi si produce il comune.
Questa critica ci da il gancio per passare alla seconda risposta riguardante il significato del termine “istituzione”, poichè proprio l’elemento istituzionale è quello che permette di evitare la deriva spontaneistica, senza però cadere in un eccessivo formalismo e normativismo. Ancora una volta si deve riprendere la Ostrom la quale definisce l’istituzione, in linea con il resto della sua teoria, come «l’insieme di regole effettivamente messe in pratica da un insieme di individui al fine di organizzare delle attività ripetitive, con effetti che ricadono su questi individui, e potenzialmente anche su altri». A ciò si lega inoltre l’importante osservazione di Olivier Weistein in base alla quale «il sistema gerarchizzato di regole che disciplina una risorsa comune e la sua governance, appare sotto questa luce come un vero e proprio sistema politico». Qui sorge un punto fondamentale, emerge cioè in modo esplicito il nesso tra pratica dei commons, la sua istituzionalizzazione e la politica. Proprio questo punto sarà il perno attorno a cui verrà definendosi la prospettiva originale di Dardot e Laval. A partire dalla critica a Negri e Hardt i nostri autori affermano l’intento di tentare un ripensamento sistematico proprio del tema dell’istituzione del comune. Per farlo vanno a riprendere l’etimologia della parola istituzione, mostrando come essa derivi dal verbo latino istituire che può significare «l’atto di stabilire o determinare uno stato di cose, l’atto di agire o di intraprendere un’azione». Ad interessare è infatti il concetto di istituzione intesa come ATTO dell’istituire, l’accento è cioè messo sul carattere dell’azione, sull’agire che sta alla base di ciò che successivamente viene definito nei termini di istituzione. Qui gli autori attaccano la riduzione compiuta dalla sociologia dell’istituzione all’istituito, che fa perdere il carattere originario derivato dalla dimensione della pratica. In risposta a questo, i nostri autori evocano un pensatore alquanto sconosciuto in Italia ma molto studiato e stimato in Francia: Cornelius Castoriadis. Dardot e Laval intendono infatti spostare l’accento dall’aspetto normativo a quello pratico, affermando che «sono le pratiche rinnovate dell’uso del comune che ne realizzano l’istituzione continua», il diritto d’uso va insomma rivolto contro la proprietà, secondo l’idea che sia questo l’unico modo attraverso cui una pratica può creare regole di diritto capaci di diventare con il tempo consuetudini. «Contro la riduzione sociologica dell’istituzione all’istituito, occorre dunque far valere la proprietà dell’istituente sull’istituito: il secondo non è che un risultato dell’esercizio del potere istituente visto come potere di creazione». Qua vi è un chiaro riferimento all’idea di Castoriadis secondo cui uno dei grandi problemi di oggi è quello di aver dimenticato l’origine delle istituzioni, di aver dimenticato che esse nascono per il volere degli uomini e non scendono già fatte dall’alto; quello che oggi si è perso è la capacità di vedere lo stretto legame che intercorre tra immaginazione e politica, la capacità cioè di immaginarsi scenari alternativi a quello presente, avendo la consapevolezza che l’istituito può essere deposto e rimpiazzato con una nuova istituzione, vista come diretta espressione della propria forza istituente. Dimenticare il ruolo originario dell’agire, il potere di affermare senza ricorrere a mezzi violenti ma utilizzando soltanto un principio democratico di decisione che si trasforma in consuetudine, rischia di aggravare ulteriormente lo stato di paralisi in cui versano già gran parte delle forze sociali. Come scrive Castoriadis «il sociale istituito deve sempre presupporre il sociale istituente».
Venendo alla terza risposta concernente il significato dell’espressione di “prassi istituente”, si può affermare che l’obiettivo degli autori è quello di trovare una dinamica sostenibile, e in grado di riscontrare legittimazione. La discussione qui non riguarda le semplici pratiche operate in modo goffo e a volte persino bizzarro da collettivi o gruppi di cittadini organizzati, qui ci si interroga invece su dinamiche e forme di agire più articolate quali per esempio le proposte di una politica sperimentale avanzate da molte delle realtà che oggi si occupano in modo avanguardistico di welfare soprattutto nel nord Europa e in Inghilterra. In seguito, come esempio di questa concezione alternativa di intendere le politiche sociali rivolgendole al comune, verrà brevemente presentata la teoria di Charles Sabel, il quale propone un modello di governance definibile nei termini di una poliarchia direttamente deliberativa capace di superare il modello societario novecentesco basato sul compromesso lib\lab. Lo sforzo di Dardot e Laval è quello di convincere le persone che esista la possibilità di cambiamento, ma per realizzarla si deve riscoprire la forza creatrice dell’agire umano (la stessa di cui parlava già Hannah Arendt), nonché la potenza dell’immaginazione, la capacità di creare, anche se in modo immateriale, uno stato di cose alternativo e di associare a tutto questo una tipologia di prassi in grado di ottenere riconoscimento, in grado cioè di istituzionalizzarsi.
Bella è la definizione di rivoluzione data da Castoriadis il quale scrive: «Rivoluzione non significa né guerra civile, né bagno di sangue. La rivoluzione è il cambiamento di determinate istituzioni centrali della società mediante l’attività della società stessa: l’auto-trasformazione della società in un tempo ridotto». Detta invece con le parole dei nostri autori: «la rivoluzione è il momento in cui la prassi istituente diventa istituzione della società per se stessa o auto-istituzione».
Il comune non sarà altro che il cuore di questo principio rivoluzionario così inteso, che mira a istituire l’inappropriabile, ovverosia ciò che precedentemente abbiamo definito come commons: al dispiegamento della razionalità neoliberale viene opposto un potere istituente in grado di coinvolgere l’intera collettività nel processo di istituzionalizzazione delle regole che ne definiranno la legislazione.
Si può dunque affermare che «la praxis istituente non è altro che attività autotrasformatrice, co-istituzione di regole», concetto questo ben sintetizzato da Rodotà nell’introduzione al volume quando scrive come essa mostri «l’identificazione di una nuova relazione tra istituzioni, diritti, persone, che si traduce nella ridefinizione complessiva del rapporto tra mondo delle persone e mondo dei beni, non più necessariamente mediato dall’intervento pubblico o da quello del mercato». L’insieme di tali pratiche ha inoltre come conseguenza la nascita di un soggetto collettivo che si riconosce all’interno di una continua produzione condivisa di regole di diritto, perchè è proprio quest’ultimo la chiave di tutto il discorso. Il punto è che gli autori propongono una concezione di istituzione molto più articolata di quella che si è soliti considerare, essi vanno a scavare alla radice del processo istituente e per questo motivo più che chiedersi «che cos’è un’istituzione», cercano di rispondere all’interrogativo «cosa rende l’istituzione un atto istituente, cioè un atto che stabilisce regole e fissa un preciso stato di cose?». Ancora una volta l’interesse è rivolto verso il senso attivo del termine istituire, e non a quello passivo dell’istituito rappresentato dall’istituzione in senso classico. L’attenzione va quindi posta sul carattere processuale della pratica collettiva, che si concretizza in un potere istituente capace di coinvolgere l’intera collettività nel processo di istituzionalizzazione delle regole che ne definiranno la legislazione. Sul versante opposto si trova invece il neoliberismo, che attraverso il dispiegamento della sua razionalità tenta di mantenere le società in una posizione di eteronomia, facendole dimenticare il proprio carattere originario di autonomia, cioè di auto-istituzione. A tale oblio si oppone così il principio del Comune, che afferma come esito finale l’autoproduzione di un soggetto collettivo in grado di generare in modo condiviso le proprie regole e diritti: «rompere con il neoliberismo significa decostruire il quadro istituzionale da lui stesso creato […] affermando al suo posto quel momento dove la praxis istituente diventa istituzione della società ad opera di sé medesima». La rivoluzione, insomma, non è altro che re-istituzione della società grazie all’attività collettiva e autonoma della società stessa.
Prima di concludere però, vorrei dare un esempio di come la riflessione sul Comune può legarsi ad altre questioni di stretta attualità, che possiedono contatti molto più stretti con le problematiche sociali oggi dominanti. Per esempio, è molto interessante affiancare a quanto detto fino ad ora alcune idee di Charles Sabel riguardanti gli “esperimenti di nuova democrazia”, che tra l’altro è anche il titolo di un suo libro dove parla, non per niente, del concetto di ‘poliarchia direttamente deliberativa’ e che ora andremo a presentare. Il punto di partenza di Sabel è la crisi del cosiddetto ‘modello del principale-agente’: «il sistema politico-amministrativo si organizza distinguendo un principale (il popolo che elegge democraticamente il Parlamento e che, mediante esso, definisce legislativamente i suoi obiettivi politici) da degli agenti (la Pubblica Amministrazione il cui operato è a sua volta controllato in termini giuridici dalle Corti) a cui delega l’implementazione degli scopi collettivi». Questa crisi è poi l’origine della disaffezione dei cittadini verso la politica, in quanto vedono i propri bisogni rimanere tali senza la prospettiva di alcuna vera soluzione politica, e questo emerge soprattutto nel settore attinente ai servizi o più in generale al sociale. La proposta di Sabel è allora quella di passare dal vecchio concetto di assistenza sociale, alla nuova prospettiva della ‘capacitazione delle persone’: «Il nuovo orizzonte [scrive Sabel] è quello dei beni comuni, beni che necessitano di relazioni sociali coesive per essere prodotti e goduti. Il bene comune necessita di cittadini impegnati per la coesione sociale, ma per trasformare gli individui in cittadini impegnati servono servizi personalizzati che vadano a stimolare la crescita del capitale umano e sociale di ciascuno». In questo modello pensato da Sabel, le istituzioni centrali attribuiscono autonomia a quelle locali per perseguire scopi condivisi ed espliciti. Detto in altre parole, l’idea è quello che sia lo stesso Stato a concedere spazio per quelle pratiche costituenti e auto-istituenti di cui parlano Dardot e Laval, attivandosi con un ruolo sussidiario e non di semplice monitoraggio. Sabel a questo proposito parla di poliarchia direttamente deliberativa: «diretta perchè i cittadini partecipano in prima persona alla soluzione di problemi che li toccano, deliberativa perchè le decisioni che riguardano il pubblico devono essere giustificate ‘dandone ragione’, poliarchica perchè il potere circola nella società e non viene centralizzato in nessun organo politico specifico». (a questo proposito si legga la tabella p. 24) Concludendo questa breve parentesi si può insomma dire che tanto la riflessione di Dardot e Laval, quanto quella di Sabel, vanno nella direzione di un modello di politica e democrazia sperimentale: «sperimentale perchè mette in discussione le vecchie teorie e pratiche di democrazia rappresentativa, sperimentandone sul campo delle nuove; ogni sua applicazione pratica riveste la funzione di esperimento e test per valutare e corroborare il modello generale che così si arricchisce di nuovi exempla; rappresenta una continua ricerca di nuove soluzioni ai problemi sociali; implica l’ex-perire, il fare esperienza, di un modo sempre diverso di condividere con altri il governo di se stessi e della società». Volendo infine trovare una ragione comune, così da restare in tema, per entrambi i discorsi qui presentati ci si può rifare alla questione riguardante le radicali trasformazioni che stanno attraversando lo stato sociale sorto a partire dal secondo dopoguerra, e in particolare il problema legato alle strategie di governo di una società ‘destandardizzata’. Come rispondere, per esempio, alla domanda di personalizzazione del welfare, dei servizi, delle opportunità ? Ebbene il principio politico del Comune insieme a un modello poliarchico direttamente deliberativo, cercano di fornire risposte nuove che sappiano andare oltre le logiche classiche di semplice accentramento o decentramento del potere.
Per riallacciarsi ai nostri autori francesi basti ricordare le parole, sempre più vive, con le quali terminavano il loro penultimo lavoro dedicato non a caso alla critica della razionalità neoliberista: «Il governo degli uomini può fondarsi su un governo di sé che si apra a rapporti con gli altri che non siano quelli della concorrenza tra ‘attori imprenditori di se stessi’. Le pratiche di ‘comunizzazione’ del sapere, di mutua assistenza, di lavoro cooperativo possono disegnare le linee di un’altra ragione del mondo. Non la si potrebbe designare meglio: la ragione del comune»
Quello che va riscoperto e rigenerato è lo spazio societario, quello spazio pubblico autoistituito di cui Arendt in Vita Activa scrisse : «la sfera pubblica è il mondo comune che contemporaneamente ci riunisce e tuttavia ci impedisce di caderci addosso l’uno con l’altro».
Questo libro sul Comune va dunque letto anche come un lavoro sul significato dell’azione politica in termini non più ideologici. L’istituzione e il diritto diventano i due cardini attorno ai quali va costruita la prassi. In tal senso la rivoluzione diventa re-istituzione, prassi istituente, l’azione viene insomma sempre concepita come azione costruttiva. Inoltre una riflessione sulle forme dell’agire va a colmare una gravissima lacuna all’interno del dibattito contemporaneo così preso dalla dimensione dell’analisi che ha dimenticato tutto il resto. Se da un lato è vero che ogni azione va preceduta dalla comprensione, dall’altro però bisogna sostenere la comprensione attraverso forme di agire sperimentale, mantenendo la consapevolezza che il processo di trasformazione non può avvenire dall’oggi al domani, richiede tempo, ma a sua volta questo non deve trasformarsi in una scusa che giustifichi l’inazione. Quello che suggeriscono gli autori è un continuo gioco di aggiustamenti, di coproduzione di pratiche, mantenendo fermo il chi e il cosa si combatte.
É tempo di immaginare una nuova stagione della filosofia politica che non sia più forzatamente legata agli ambienti istituzionali classici come il partito o l’università, essa deve ripartire dalle radici dell’azione che non può essere ridotta alla semplice militanza o lotta. Ripartire dalle radici significa porre la questione in modo radicale, ricchi della consapevolezza ci come un’istituzione nasce, ovverosia del fatto che alla base dell’istituito vive sempre una prassi istitutente.
Da questo punto di vista dunque, il comune rappresenta una prima nuova categoria di analisi che sufficientemente articolata da non fermarsi al momento della teoria ma capace di ricordare la necessità del momento della prassi.
Volendo così concludere con un’ultimissima frase di Dardot e Laval: «Sta a noi consentire che un nuovo senso del possibile si faccia strada».
Fonte: Pandora Rivista di teoria e politica
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