La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

lunedì 22 maggio 2017

La Grande Miniera di Serbarìu: gerarchia e lavoro al tempo del fascismo

di Sergio Farris 
Nel periodo fra il 1937 e il 1939 ebbe luogo nel Sulcis (Sardegna sud-occidentale), il più importante sito minerario del Paese, un'intensificazione dell'attività estrattiva. In particolare, l'incremento della domanda nazionale di combustibile fossile sfociò nell'allestimento e nell'inaugurazione della Miniera carbonifera di Serbarìu, che divenne, per estensione e profondità, la maggiore della zona ed anche, per un lungo periodo, una delle principali risorse energetiche nazionali.
Le sanzioni comminate dalle Nazioni Unite all'Italia (11 Ottobre 1935) a cagione dell'avvenuta invasione dell'Etiopia voluta dal regime fascista, avevano contribuito all'orientamento di quest'ultimo verso la politica autarchica. All'insorgere della crisi economica del 1929 l'Italia aveva un apparato produttivo gracile e piuttosto dipendente dall'importazione delle materie prime. La deflazione, particolarmente sentita nel comparto agricolo, provocò un'impennata della disoccupazione. Si verificò un notevole decremento del commercio con l'estero. Buona parte delle produzioni industriali venne nazionalizzata e le relative gestioni passarono ad aziende controllate dallo stato. Si registrò la necessità, tenuto conto del regime di restrizione dei flussi commerciali da e verso importanti paesi, come la Gran Bretagna, della necessità di far ricorso a un maggiore approvvigionamento “dall'interno” delle materie prime destinate alla produzione energetica ed alla movimentazione ferroviaria. L'impellenza di incrementare l'attività estrattiva dal giacimento carbonifero di Serbarìu fece sì che, al fine di attrarre manodopera, l'azienda concessionaria della relativa coltivazione, la Società Mineraria Carbonifera Sarda (branca della Azienda Carboni Italiani, direttamente controllata dallo stato), oltre a offrire salari mediamente più elevati rispetto a quelli vigenti in altri settori, dotò il territorio adiacente il sedime di Serbarìu di nuovi alloggi destinati all'ospitalità del personale da essa impiegato. Sorse così la città di Carbonia, inaugurata ufficialmente il 9 giugno 1937 alla presenza delle autorità civili, religiose e militari.
Le nuove costruzioni, di “comfort” superiore se raffrontate allo stato in cui mediamente si trovavano le abitazioni delle masse popolari, soprattutto contadine, dell'epoca, facevano parte del patrimonio aziendale ed erano dall'azienda direttamente gestite. Il contratto di affitto veniva stipulato fra il lavoratore e l'azienda stessa, ed il prezzo della pigione era direttamente detratto dalla busta paga. Migliaia di persone affluirono a Carbonia dal resto della Sardegna e da tutto il territorio nazionale (1). Si trattava spesso di soggetti provenienti dal mondo rurale (tale era, come noto, il paesaggio prevalente del Paese, non ancora classificabile come “industriale”) allettati dalla prospettiva di un miglioramento reddituale (se non di fuoriuscita da una situazione di miseria) e, magari, dalla prospettiva dell'accumulazione di un “capitale” da investire dopo un periodo di sacrifici. Nella fase di punta dell'attività estrattiva, l'azienda giunse a contare, fra le sue fila, 16.000 dipendenti, di cui 12.000 addetti alle operazioni nel sottosuolo.

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Se il livello salariale era, come detto, considerevolmente allettante, la contropartita era costituita, come è agevole immaginare, da condizioni di lavoro proibitive.
Il livello della tecnologia applicabile allora alle lavorazioni e la neghittosità della dirigenza aziendale, unitamente alla mancanza di qualsiasi legislazione protettiva delle condizioni di lavoro, di sicurezza e di salute dei minatori (tale lacuna perdurerà fino al 1957), si tramutarono nella “pretesa” di un mesto tributo in termini di vite sacrificate (2). E ciò vale sia con riferimento alle vittime cadute all'interno dei cantieri, sia con riferimento allo stillicidio di lavoratori portati via da patologie contratte durante la permanenza nell'ambiente operativo.
Se si considerano l'oscurità, l'inalazione di polveri micidiali (riducibile con opportuni accorgimenti tecnici, non implementati in un'ottica di “ottimizzazione” dei costi), il defatigante sforzo fisico, il rischio di crolli, la rumorosità che minacciava l'apparato uditivo e le temperature elevate, non ci si discosta dal vero nel dire che il lavoro nei cunicoli si svolgeva in condizioni particolarmente critiche e disumane. Le dotazioni strumentali erano ridotte al minimo indispensabile affinchè dalle gallerie sotterranee avesse compimento il prelievo del carbone grezzo. Ad inizio del turno, al lavoratore venivano consegnati la lampada e gli attrezzi occorrenti. Erano completamente mancanti dispositivi quali guanti, protezioni acustiche, maschere. In difetto di raggiungimento del prefissato quantitativo minimo del materiale estratto consegnato, si era passibili di licenzimento. Ogni aspetto del rapporto di lavoro era, in sintesi, subordinato al fattore “produzione”, che risultava di livello elevatissimo (3).

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L'organizzazione aziendale era improntata a rigidi criteri gerarchici. La medesima caratteristica era rinvenibile nella struttura urbanistica della città di Carbonia, dove vigeva una netta separazione fra i quartieri, i quali erano abitati da distinte categorie di dipendenti secondo il rango e la funzione espletata nell'organico aziendale. Il centro, comprendente ville e villette, era riservato ai dirigenti e agli impiegati, collocati accanto ai “luoghi del potere”, civile e religioso (palazzo del podestà e chiesa). Ai minatori, in aree via via più lontane, erano destinati complessi plurifamiliari e cameroni di alberghi (dove trovavano ricovero gli operai senza famiglia).
Al fine di marcare la differenziazione sociale e prevenire qualunque lassismo nella disciplina sul lavoro, erano scoraggiate anche le più informali frequentazioni fra minatori e quadri aziendali. Accanto agli appartamenti, si trovavano di solito modesti appezzamenti di terreno coltivabile, messi a disposizione dell'occupante l'alloggio e della famiglia.
Il legame con la campagna è sempre stato presente nella cultura fascista. Non è sorprendente che, per molti degli immigrati a Carbonia, un richiamo anche fisico all'ambiente di origine potesse rendere meno traumatico il trasferimento a un luogo e a uno stile di vita diversi. Il regime aveva inoltre, fin dal suo avvento, investito non poco capitale politico nell'obiettivo di inserire contadini e abitanti delle campagne nello stato, eliminando la cronica distanza fra mondo rurale e città. Il che rientrava nel disegno fascista di unificazione nazionale e morale del Paese sotto la totalizzante ipoteca dell'autorità.

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Fin dal 1927 il Fascismo aveva perseguito una deflazionista politica di austerità, che cercò di associare alla ricerca del prestigio nazionale. Una politica nazionalistica che non toccò, fino alle statalizzazioni degli anni '30, il modello economico del paese, e che fu particolarmente iniqua perchè gravante sui salari. Un divario fra Fascismo e lavoratori che il regime non riuscì mai a sanare del tutto, nonostante l'istituzione del sistema corporativo e il consenso in chiave nazionalistica sul quale esso potè, per un certo periodo, contare. La compressione dei salari operai e contadini fu una costante delle varie fasi del ventennio fascista. Vi era, sullo sfondo, una sorta di dedizione al sacrificio insita nell'eterogeneo bagaglio propagandistico della cultura di regime, in cambio della promessa rappresentata dall'ingresso della patria nei grandiosi destini della storia. Tale promessa parve trovare compimento nella proclamazione dell'Impero, avvenuta con la consueta teatralità stentorea del Duce, a conclusione della guerra in Africa orientale (9 Maggio 1936). Fu l'apice del consenso ottenuto da Mussolini. L'avvicinamento diplomatico e ideale alla Germania insieme al susseguente patto con Hitler, fecero da piano inclinato verso la guerra mondiale, in cui il 10 giugno 1940 (“l'ora delle decisioni irrevocabili”) l'Italia fece il suo ingresso. L'impegno bellico portò all'estremo il sacrificio ricadente sui lavoratori della Miniera di Serbarìu, con imposizione coattiva della moltiplicazione dello sforzo produttivo e, quindi, lavorativo. L'azienda decretò il raddoppio della durata giornaliera della prestazione lavorativa (da 8 a 16 ore, due turni consecutivi) e, come se ciò non fosse sufficiente, l'aumento arbitrario degli affitti per le abitazioni dei minatori, del costo dell'energia e del costo dei viveri di prima necessità reperibili negli spacci aziendali. Tutto ciò, sommato al correlato innalzamento del numero di infortuni, anche mortali, suscitò il 2 maggio 1942 uno sciopero, il primo in Sardegna e tra i rarissimi scioperi in Italia durante il regime mussoliniano (il diritto di sciopero era stato abolito e i sindacati non fascisti erano stati “neutralizzati” all'epoca delle “leggi fascistissime”). Organizzato da elementi dell'allora clandestino Partito Comunista e diretto da Tito Morosini, delegato confederale del sindacato dei lavoratori, lo sciopero comportò l'astensione totale dal lavoro nei pozzi carboniferi. L'azienda di regime, dopo una prima reazione che trovò esplicazione in minacce di condanne a morte, fu costretta a scendere a patti e rassegnarsi alla mitigazione delle risoluzioni precedentemente adottate. Impossibile sostituire in breve lasso di tempo maestranze addestrate e permettersi, in piena guerra, un blocco dell'attività estrattiva.
A dispetto dell'intento fascista di irregimentare e uniformare il microcosmo azienda-città, questi eventi contribuirono alla nascita di una solidarietà capace di tramutarsi in una soggettività di classe, dotata di coscienza politica. Nel 1944 si costituirono le prime commissioni interne all'azienda, e il 30 aprile 1945, cinque giorni dopo la Liberazione dal Fascismo, si insediò la Camera del Lavoro di Carbonia.
In occasione del referendum istituzionale del 2 giugno 1946, a Carbonia, la scelta per la forma di stato repubblicana risultò ampiamente prevalente, un esito in controtendenza rispetto all'orientamento generalmente monarchico delle regioni del Meridione. Anche in seguito, il voto di sinistra caratterizzerà le consultazioni elettorali locali.
A testimonianza della suddetta solidarietà, la comunità cittadina rispose compatta a nuove rigide misure assunte dall'azienda nel 1948. Dal 7 ottobre al 17 dicembre di quell'anno vi fu uno sciopero “bianco” di 72 giorni per contrastare il licenziamento di migliaia di minatori e la messa in pratica di riduzioni arbitarie dei salari. La produzione si ridusse della metà. L'intera popolazione cittadina difese la vertenza sindacale legata al lavoro nella miniera di Carbonia, con un sostegno anche economico e materiale. L'eco dello sciopero si riverberò a livello nazionale, con l'indizione di un partecipato sciopero di solidarietà, il quale interessò l'intero settore estrattivo. Con la mediazione del presidente dell'A.Ca.I., l'Ing. Mario Giacomo Levi, si pervenne a un accordo con le rappresentanze sindacali, grazie al quale vennero ritirati i provvedimenti precedentemente presi. Pochi anni dopo, la caratteristica monoeconomia della zona venne a intersecarsi con il mutato contesto internazionale, in particolare con l'adesione dell'Italia nel 1953 alla Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio. Ciò comportò importanti conseguenze economiche e sociali per il bacino carbonifero del Sulcis e per le miniere a Carbonia. Questo e altri fattori contribuirono alla crisi del settore negli anni successivi.
Ma il punto fermo rimase l'aspetto della consapevolezza progettuale, capace anche di coinvolgere le istituzioni, mostrata dai minatori di Carbonia nel loro ruolo di soggetto attivo votato alla rinascita e allo sviluppo di un intero territorio. In breve: attuare la democrazia.
Le vicende degli anni seguenti furono alterne, fra piani di rilancio dell'industria carbonifera legati al riutilizzo del carbone per la vicina centrale dell'Enel a Portovesme e per il polo dell'alluminio (poi privatizzato e lasciato alle scelte delle multinazionali Alcoa e Glencore negli anni '90) e dismissioni di miniere.
La Grande Miniera chiuse definitivamente nel 1971.
Nell'area di Serbarìu, dopo l'acquisizione al patrimonio comunale di Carbonia e il recupero degli edifici della vecchia miniera, si trova oggi il Museo del Carbone (Centro Italiano della Cultura del Carbone).
Visitarlo e pensare alla fondazione della Grande Miniera significa anche puntare lo sguardo su un periodo storico nel quale, a dispetto di certa retorica tipica del paternalismo fascista, coloro costretti a lavorare per vivere o aggrappati alla speranza di una vita migliore, nulla si vedevano concedere che non fosse strettamente funzionale all'idea di grandezza della patria. Gli stessi che poi, dalle macerie del fascismo, seppero edificare una società civile caratterizzata da una soggettività autonoma e democratica.

Note:

(1) è stato valutato che circa il 25% del primo afflusso di 12.000 abitanti provenisse da altre regioni italiane in particolare da Veneto, Marche, Abruzzo Basilicata e Sicilia

(2) fra il 1939 e il 1941 vi furono quasi 40 morti all’anno

(3) basti considerare che, in tempi “normali”, le coppie di addetti al trasporto del minerale grezzo sui carrelli lungo le rotaie entro le gallerie compivano venti viaggi con un carico di 2000 kg per turno

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