La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 25 ottobre 2015

L’Arabia Saudita, l’impunità reale, e le sabbie mobili delle relazioni speciali

di Richard Falk
L’Arabia Saudita gode di un livello impressionante di impunità rispetto alla responsabilità internazionale. Questo accade non soltanto perché è una monarchia potente o perché ha la famiglia reale più grande e più ricca del mondo con un’influenza che si estende in lungo e in largo. E non si tratta soltanto del petrolio, anche se avere un quarto delle riserve di energia precedenti alla fratturazione idraulica, genera la massima deferenza da parte di molte di quelle moderne economie che dipenderanno dal petrolio e dal gas del Golfo per tutto il tempo che durerà questa preziosa roba nera. L’ambiente sicuro saudita è anche sostenuto dal rapporto speciale che ha con gli Stati Uniti che forniscono un contesto geopolitico di grande vantaggio.
Questo rifiuto di ritenere responsabile l’Arabia Saudita, per difendere la legge e la moralità, ha suscitato lo stupore dell’opinione corrente che di solito ha guardato dall’altra parte quando si tratta del curriculum saudita per diritti umani.
Avere di recente eletto l’Arabia Saudita al Consiglio del ONU per i diritti umani (HRC), decisione in parte dovuta a uno scambio segreto di voti con il Regno Unito, è sembrato superare una linea invisibile riguardo a questo. E se questo non è stato un affronto sufficiente per la moralità superficiale nella sfera dei diritti umani, l’ambasciatore dell’Arabia Saudita all’ONU è stato di recente scelto per dirigere l’influente comitato consultivo dell’HRC che consiglia al presidente del Consiglio dell’ONU una rosa di candidati di coloro che saranno nominati come Relatori Speciali, anche riguardo a problemi come diritti alle donne, libertà di espressione, e libertà religiosa.
Questa notizia è abbinata alla conferma che l’Arabia Saudita ha inflitto più decapitazioni dell’ISIS, quest’anno, più di due al giorno, e che ha ordinato che Ali Mohammed al-Nimr venisse giustiziato tramite crocifissione per aver preso parte in una dimostrazione anti-monarchia quando aveva 17 anni. In un secondo caso indicativo, il popolare blogger Raif Badawi è stato condannato a un periodo di carcerazione e a 1000 frustate in pubblico, per aver criticato la democrazia. Questo comportamento somiglia alla barbarie dell’ISIS più che mostrare qualifiche per ricoprire importanti cariche all’ONU che hanno a che si occupano di diritti umani.
Inoltre, Riyadh come Damasco, sembra colpevole di gravi crimini di guerra dovuti al suo ripetuto e indiscriminato prendere di mira i civili durante il suo sospetto intervento in Yemen. Il peggior incidente avvenuto recentemente è stato un attacco aereo che aveva come obiettivo una festa di matrimonio, il 29 settembre che ha ucciso 121 civili, tra i quali molte donne e bambini, ma il quadro complessivo del massacro militare saudita è stato ignaro dei vincoli della legge umanitaria internazionale inclusa nelle Convenzioni di Ginevra del 1949.
L’impari scontro saudita tra la sua statura e il comportamento non può essere considerato, come sembra essere, una grottesca anomalia nell’ordine globale normativo. Si adatta, invece bene a un modello geopolitico coerente. Fin dalla II Guerra Mondiale, l’Arabia Saudita è stata una risorsa strategica indispensabile per l’Occidente. Il petrolio è la spiegazione fondamentale di questa affinità, ma è lungi dallo spiegare tutta la storia. Il primo anticomunismo saudita era importante, una specie di politica di assicurazione sanitaria per l’Occidente che il governo non si sarebbe nell’orbita sovietica o che non avrebbe adottato una posizione di non-allineamento alla maniera dell’Egitto di Nasser, cosa che avrebbe indebolito pericolosamente la sicurezza dell’energia per l’Europa occidentale.
In anni recenti, modelli convergenti di estrema ostilità verso l’Iran che l’Arabia Saudita condivide con Israele, ha rallegrato i pianificatori di Washington che per lungo tempo sono stati handicappati dalla difficoltà di conciliare l’appoggio incondizionato a Israele con una dipendenza quasi assoluta dell’Occidente di continuare a far fluire il petrolio del Golfo a prezzi abbordabili. Questa potenziale vulnerabilità è stata vivacemente rivelata subito dopo la guerra del 1973 in Medio Oriente quando l’Arabia saudita aveva espresso l’insoddisfazione del mondo arabo per la posizione pro-Israele assunta dall’Occidente, persuadendo l’OPEC (Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) a imporre un embargo sul petrolio che causò un attacco di panico globale. Questa crisi si svolse su due livelli – una strada maestra che rivela la vulnerabilità occidentale per il petrolio medio-orientale, e una strada secondaria di grave scontento del consumatore in reazione a sistemi di lunghi gasdotti e ai prezzi più alti alle pompe di benzina, attribuibili all’embargo.
E’ stato allora che i falchi belligeranti in occidente hanno mormorato con veemenza riguardo a porre fine all’embargo in maniera coercitiva, facendo atterrare dei paracadutisti sui giacimenti petroliferi sauditi. Henry Kissinger, mai turbato dagli scenari di guerra, ha ipotizzato che un intervento del genere potesse essere ‘necessario’ per la sicurezza economica dell’Occidente. I governanti arabi hanno udito questa promessa di ‘mai più’ da parte dei custodi dell’ordine mondiale, e da allora sono stati attenti a non calpestare i piedi agli occidentali.
Su questa base, non sorprende certo che le preoccupazioni delle ONG circa l’orribile panorama dei diritti umani in Arabia Saudita arrivi a orecchie che non ascoltano. Il presidente Obama che non si stanca mai di dire al mondo che il carattere nazionale dell’America richiede che viva in accordo con i suoi valori, incentrati sui diritti umani e la democrazia, si morde la sua lingua altrimenti attiva quando si tratta dell’Arabia Saudita. E’ impegnato a rassicurare il nuovo re saudita che gli Stati Uniti rimangono impegnati come sempre a questa seconda ‘relazione speciale’ in Medio Oriente; la prima è, naturalmente, con Israele.
Se osserviamo sotto la parola ‘speciale’, che trasmette un’importanza aggiuntiva collegata alla relazione, essa sembra implicare un appoggio incondizionato, compreso il rifiuto di esprimere critiche in pubblico. L’appoggio geopolitico degli Stati Uniti conferisce impunità, proteggendo un beneficiario da qualsiasi opposizione da parte della comunità internazionale all’ONU o altrove. Ci sono altri benefici che arrivano con questa status, oltre all’impunità. Forse nessuno è più rilevante dell’imbarazzo legato al fatto di aver fatto uscire in fretta dagli Stati Uniti i sauditi importanti, il giorno dopo gli attacchi dell’11 settembre. Ricordate che 15 dei 19 dirottatori degli aerei erano cittadini sauditi e che gli Stati Uniti si rifiutano ancora di rilasciare le 28 pagine di prove dettagliate su presumibili connessioni saudite con Al Qaida raccolte dalla commissione investigativa riguardo all’11 settembre.
Sicuramente, se l’Iran avesse collegamenti remotamente paragonabili a quegli eventi tristemente noti probabilmente avrebbe prodotto un casus belli; ricordate che la giustificazione per attaccare l’Iraq nel 2003 era parzialmente basata su deboli accuse immaginarie della complicità di Baghdad nell’11 settembre.
La speciale relazione saudita (al contrario di quella con Israele), è più vantaggiosa reciprocamente. A causa delle enormi entrate ottenute vendendo 10 barili di petrolio al giorno per decenni, l’appoggio incrollabile al dollaro come valuta di conto è stato di aiuto fondamentale all’ambizione americana di dominare l’economia globale. Oltre a questo, i sauditi, dopo aver fatto aumentare il prezzo del petrolio fino al 400% negli anni ’70, ha rapidamente sanato le ferite con un massiccio riciclaggio dei cosiddetti petrodollari tramite investimenti in Europa e in Nord America, e particolarmente apprezzato è stato l’acquisto da parte saudita di molti miliardi di dollari di armi nel corso degli anni. Gli Stati Uniti hanno fatto la loro parte nel sostenere la relazione, specialmente reagendo all’attacco iracheno del 1990 contro il Kuwait che minacciava, anch’esso l’Arabia Saudita. Schierando 400.000 soldati in Arabia Saudita e guidando il tentativo riuscito di costringere l’Iraq di Saddam Hussein a ritirarsi dal Kuwait, l’affidabilità americana come grande fratello protettore dei Sauditi è stata confermata in modo convincente. Naturalmente in questo interesse c’era una genuina convergenza di interessi. La politica occidentale modellata dalla politica estera americana, concedeva una priorità assoluta a far restare il petrolio del Golfo in mani amiche.
Malgrado gli importanti vantaggi strategici per entrambe le parti, l’aspetto più notevole di questa relazione speciale è il fatto che sopravviva nonostante il ruolo saudita di massiccio finanziamento in tutto il mondo della militanza o jihadismo islamico anti-occidentale. La promozione saudita dell’istruzione religiosa che ha una inclinazione verso il Wahhabismo, si crede ampiamente che sia in gran parte responsabile dell’ascesa e diffusione del jihadismo e del conseguente subbuglio.
Avrei pensato che l’Occidente, specialmente dopo l’11 settembre, avrebbe insistito affinché l’Arabia Saudita smettesse di appoggiare l’estremismo di stile wahhabita all’estero, anche se non notava la negazione dei diritti umani in patria a causa dell’imposizione di rigidi controlli sulla libertà di espressione, di associazione, dei diritti delle donne, di punizioni crudeli e insolite. Più dannosa per le sue conseguenze politiche rispetto ad essere lo scudo dell’impunità saudita, è la volontà degli Stati Uniti di proseguire nella linea settaria anti-iraniana sulla quale fa affidamento la dirigenza saudita per giustificare mosse controverse come gli interventi in Bahrain e in Yemen, come anche la fornitura di armi e denaro alle forze contrarie ad Assad in Siria.
L’opportunismo saudita divenne evidente quando il regno fornì il suo appoggio diplomatico e un grosso pacco di denaro contante per un colpo di stato anti-sunnita in Egitto contro il governo eletto della Fratellanza Musulmana. I veri nemici dell’Arabia Saudita sono determinati dalla minaccia posta alla stabilità della monarchia, e non dalla loro identità di setta. In questo senso l’Iran è un nemico perché è un rivale nella regione che minaccia di incidere sul ruolo e l’influenza dell’Arabia Saudita, e non perché aderisce alla varietà sciita dell’Islam. Analogamente, la Fratellanza Musulmana, malgrado sia di fede sunnita, è stata percepita come una minaccia all’assolutismo monarchico per la sua sfida democratizzante diretta all’autocrazia di Mubarak. L’identità settaria è nettamente secondaria, specialmente per la monarchia saudita che è responsabile del modo di condurre la politica estera. In patria, la stabilità del governo monarchico è sostenuta dando carta bianca alla leadership religiosa wahhabita che assoggetta i sauditi alla severa disciplina della setta.
L’impunità saudita ci fa apprezzare il valore delle relazioni normali tra stati sovrani.
Queste non comportano esenzioni dalla responsabilità in rapporto a crimini internazionali e a violazioni dei diritti umani. Queste relazioni speciali sono diventate politicamente gravose in questo secolo, specialmente se usate per proteggere gli stati canaglia dall’esame minuzioso internazionale. La responsabilità basata sullo norma giuridica è di gran lunga migliore in quanto a stabilità, sicurezza, e pace sostenibile, rispetto all’impunità. E’ diventato sempre più complicato per il governo degli Stati Uniti giustificare, in parte, il suo ruolo globale di difesa dei diritti umani rifiutando allo stesso tempo di reagire quando si tratta delle minime aspettative di responsabilità per l’Arabia Saudita o per Israele.
Vorrei andare oltre e sostenere che queste relazioni speciali, sebbene siano espressione della supremazia della geopolitica (come anche contro l’attuazione dello stato di diritto globale), non servono, a conti fatti, a sostenere gli interessi nazionali mentre man mano si abbandonano i valori nazionali. Al contrario dei precetti del realismo politico, in Medio Oriente queste due relazioni speciali legano gli Stati Uniti e i loro alleati europei a una politica estera fallimentare che ha provocato grandi sofferenza a molti popoli della regione. La crisi dell’ emigrazione che è un effetto diretto di queste politiche sfortunate, specialmente dell’intervento militare, sta finalmente portando gli osservatori a collegare alcuni punti e a riconoscere che quello che si è fatto in Medio Oriente ha risonanze minacciose per l’Europa. Inoltre, danneggia ulteriormente la reputazione degli Stati Uniti come leader principale in uno sfondo globale che è di aiuto al bene pubblico mondiale oltre a promuovere le priorità della linea politica nazionale. Forse a questo questa reputazione è macchiata senza rimedio in ogni caso, rendendo quasi irrilevanti considerazioni già ripetute.

Questo articolo è una versione sostanzialmente riveduta di un editoriale pubblicato on line dal sito Middle East Eye il 6 ottobre 2015; contesta la geopolitica dell’impunità sia dalla prospettiva di principio che da quella pragmatica, e getta anche dubbi sulle ‘relazioni speciali’ che gli Stati Uniti hanno instaurato in Medio Oriente con Israele e con l’Arabia Saudita. Infine, si fa un tentativo di suggerire che c’è un’alternativa basata essenzialmente sulla saggezza pratica nel 21° secolo di sostenere e rafforzare lo stato di diritto globale.

Pubblicato su www.znetitaly.org
Originale: Richardfalk.com
Traduzione di Maria Chiara Starace
Traduzione © 2015 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY NC-SA 3.0

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