
di Enrico Galavotti
Quei due periodi di storia che Costanzo Preve, nella sua Storia critica del marxismo (ed. La Città del Sole, Napoli 2007), chiama "medio-marxismo" (1914-56) e "tardo-marxismo" (1956-91), per lui non hanno "alcun rapporto con la teoria originale di Marx", per cui il discorso, col marxismo classico, è praticamente già chiuso. Preve rifiuta persino la rivoluzione d'Ottobre, e pensa di poterlo fare a buon diritto, visto ch'essa è fallita.
In sostanza l'ultimo Preve riteneva d'essere l'unico interprete adeguato di Marx, l'unico a non averlo né frainteso né censurato né strumentalizzato. D'altra parte lui stesso se ne vantava: "la mia riesposizione critica è talmente diversa e talmente 'dirompente' in rapporto a tutte le principali correnti del marxismo... da apparire non tanto 'folle' quanto strana ed eccentrica" (pp. 166-7).
Tuttavia, a fronte dei 150 anni di storia del marxismo, un minimo di umiltà o di circospezione sarebbe quanto meno desiderabile. Il fatto che il cosiddetto "socialismo scientifico" sia andato incontro a cocenti sconfitte storiche, non ci autorizza a sottovalutare le capacità intellettuali di chi ci ha preceduto o a valorizzare soltanto le idee che più somigliano alle nostre. Se uno volesse davvero fare, oggi, una storia del marxismo, di un testo così "folle" come questo di Preve, non saprebbe davvero che farsene. È difficile immaginare che il compito di prospettare il socialismo futuro dovrà tener conto soltanto dei testi scritti da Carlo Marx e... da Costanzo Preve. Non foss'altro che per una ragione: il Marx di Preve è del tutto fantasioso.
Marx non fu solo uno "scienziato sociale", ma anche un giornalista e un politico, la cui attività uscì sconfitta dalla storia; in tal senso non si sarebbe mai accontentato d'essere un "filosofo idealista-prassista", neppure se "di tipo nuovo", proprio perché aveva capito tutta l'impotenza della filosofia; per cui è profondamente sbagliato ritenerlo più interessato alla "libertà" che non all'"uguaglianza" (semmai è l'inverso). E tanto meno ha senso etichettarlo come "hegeliano di sinistra": non avrebbe mai accettato di limitarsi a fare il discepolo di Hegel, neppure coi connotati del "ribelle", proprio perché, per lui, il senso della vita non si sarebbe mai potuto racchiudere in una questione di tipo filosofico; e se è vero che quando criticava l'utilitarismo non usava "argomenti morali e antropologici", è anche vero che, all'infuori degli aspetti tecnico-scientifici, egli non salvava nulla del capitalismo, e anche quando si trovava a esaminare delle questioni etiche, non era mai così sprovveduto da tenerle separate dalle sottese questioni economiche. Marx non è mai stato un moralista: semplicemente perché sapeva che, sotto il capitalismo, è molto facile che i valori teorici siano strettamente collegati a degli interessi materiali.
***
Purtroppo è proprio sul versante pratico che il volume di Preve è maggiormente deficitario. Di fatto non si riesce mai a capire che tipo di socialismo egli voglia realizzare. Dentro il pentolone della sua iper-critica Preve infatti mette non solo lo Stato (che ovviamente ci può stare), ma anche il partito, cioè non solo il "socialismo burocratico" (quello amministrato dall'alto), ma anche il socialismo rivoluzionario.
Con questo non è ch'egli voglia negare la necessità della rivoluzione bolscevica: semplicemente nega ch'essa sia stata davvero "socialista". Cioè egli è disposto ad ammettere che "per la prima volta leclassi dominate sono veramente andate al potere", ma per lui non l'hanno potuto fare che "per più di qualche settimana" (p. 178), dopodiché hanno lasciato che il partito e lo Stato si sostituissero alla loro volontà.
Secondo Preve ciò è avvenuto perché la Russia, non avendo vissuto una vera transizione dal feudalesimo al capitalismo, non poteva averne una dal capitalismo al socialismo. Lenin fece bene a fare la rivoluzione per abbattere l'autocrazia zarista e porre fine alla guerra imperialistica che la Russia stava conducendo nell'ambito del primo conflitto mondiale. Ma a partire dal momento in cui pensò di poter "costruire" il socialismo con un partito unico, monolitico, privo di correnti interne, Lenin s'era già posto fuori del socialismo.
E con Lenin - secondo Preve - si pose fuori dal socialismo anche un altro grande intellettuale che lo volle imitare, Gramsci, che, coi suoi Quaderni del carcere, ipotizzò la realizzazione di un partito che diventasse culturalmente egemone nella società, prima di poter compiere la rivoluzione politica. Preve lo critica dicendo che Gramsci prese a modello di tale partito il Principe del Machiavelli, che di umano non aveva nulla. E aggiunge che Gramsci non si rendeva conto di ciò che stava dicendo.
D'altra parte per Preve anche Stalin è una conseguenza della "rivoluzione totalitaria" di Lenin (p. 193). Quindi, come non c'è "tradimento" in Gramsci, così non c'è in Stalin. Entrambi vogliono "costruire" il socialismo. Singolare però è il fatto che Preve escluda, nello stesso tempo, che il proletariato, così "profondamente subalterno e non-intermodale" (p. 194), possa governare senza burocrazia. Le sue conclusioni quindi non lasciano molte vie d'uscita: o si elimina il concetto di proletariato e quindi si giustifica il capitalismo, seppur riservandosi di criticarlo, oppure è inevitabile una qualunque involuzione verso lo stalinismo. Se si accetta lo stalinismo (che per lui in sostanza coincide con leninismo, gramscismo, trotzkismo ecc.), alla fine è comunque inevitabile che il proletariato venga sostituito dalla burocrazia dello Stato centralizzato, il che comporta la realizzazione non del socialismo, ma di una nuova forma di capitalismo.
Si può essere più superficiali di così? Nella Russia di quel periodo l'unico partito a non essere violento fu proprio quello bolscevico, tant'è che la rivoluzione del '17 fu la più indolore della storia: non ci fu alcun massacro. La violenza vera e propria iniziò solo con la controrivoluzione, spalleggiata dall'interventismo straniero. Gli anni terribili del comunismo di guerra furono certamente un salasso per il mondo rurale, ma se la reazione avesse vinto, il destino dei contadini poveri - che con Lenin avevano ottenuto la terra gratuitamente - sarebbe stato sicuramente peggiore. Durante quegli anni i partiti si misero fuori gioco da soli, comportandosi come criminali di guerra.
Tutto ciò forse impedì il dibattito dentro il partito bolscevico? Preve avrebbe dovuto rileggersi le ultime opere di Lenin, quelle in cui si delineano gli ampi dibattiti sulla prosecuzione della guerra contro la Germania, sulla necessità di adottare una nuova politica economica a favore dell'iniziativa privata, sulla necessità di non burocratizzare le funzioni dello Stato e di non esasperare le tensioni interne al gruppo dirigente del partito, sulla necessità di non fare dell'elemento "russo" qualcosa di mortificante per tutte le altre nazionalità dello Stato, sulla necessità di non essere ideologicamente estremisti, facendo dell'ateismo scientifico un'arma per discriminare i credenti, sull'urgenza di sviluppare la cultura e l'elettrificazione del paese, ecc. Si può praticamente sostenere che all'interno del partito bolscevico non si è mai smesso di discutere, almeno sino a quando, sotto Stalin, non si cominciarono a espellere dal partito i militanti che avevano contribuito a crearlo, cioè sino a quando non si pensò di far pagare interamente ai contadini lo sviluppo industriale della nazione.
Dunque da che parte stava Preve? Qual era la sua idea di socialismo? Con quali mezzi e strumenti pensava di edificarlo, visto che il verbo "costruire" non lo sopportava? Nel testo in oggetto l'unica idea che esprime, oltre al brevissimo riferimento all'esperienza anarchica, paragonata, ecletticamente, a quella essenica di duemila anni fa, è relativa al cosiddetto "comunismo dei consigli", quello di A. Pannekoek, K. Korsch e P. Mattick, anch'essi ritenuti idealmente discepoli di quella comunità essenica irriducibile allo strapotere delle legioni romane.
Qui non è possibile prendere in esame questi tre intellettuali, che sicuramente hanno dato - soprattutto i primi due - un contributo molto importante alla storia del marxismo. Si può soltanto dire che se anche avessero avuto ragione nell'attribuire ad organi più democratici, rispetto allo Stato o al partito, come i consigli di fabbrica o i soviet, la gestione della transizione al socialismo, il fatto che Preve si rifaccia a loro, sic et simpliciter, senza aggiungere altro, è indicativo dei limiti delle sue concezioni sedicenti marxiste. Quanto meno avrebbe dovuto chiedersi il motivo per cui, sulla base di quelle posizioni, ritenute più democratiche, non si sia mai compiuta in Europa occidentale (che certamente, quanto a forze e rapporti produttivi, era molto più avanzata della Russia) alcuna rivoluzione socialista.
Preve inoltre avrebbe dovuto precisare che, alla luce del fallimento del cosiddetto "socialismo reale", è oggi impensabile una semplice democratizzazione della vita operaia di fabbrica, senza fare alcun riferimento alle esigenze del mondo rurale, che non possono non essere considerate come prioritarie. Anzi, oggi ci si dovrebbe addirittura chiedere che senso abbia continuare con l'industrializzazione della società, quando possiamo da tempo constatare gli effetti particolarmente nocivi del macchinismo sulla natura.
Infine, se si nega un qualunque valore al "socialismo statale" - come è giusto che sia -, bisogna poi delineare un'ipotesi alternativa, la cui fattibilità non faccia uscire dai limiti del socialismo; altrimenti si rischia - com'è successo in Russia - di ripiombare negli antagonismi del capitalismo, oppure di creare - come in Cina - delle forme di capitalismo di stato, gestite paradossalmente dallo stesso partito comunista.
Quindi non si può che essere d'accordo sull'idea che il "consiglio di fabbrica" vada considerato come "l'espressione di una democrazia diretta che possa essere congiuntamente autogoverno politico e autogestione economica", e che quindi "ogni altra struttura (sindacato, partito, stato, ecc.) non è adatta allo scopo dell'emancipazione dei lavoratori" (p. 186). Ma poi bisogna aggiungere - se si vuole uscire dall'astrazione delle belle frasi - che l'unica vera alternativa possibile al mercato è l'autoconsumo, ovvero il primato del valore d'uso, con possibilità di scambio delle eccedenze sulla base del baratto. Se davvero vogliamo parlare di "autogoverno politico" e di "autogestione economica", dobbiamo per forza prospettare l'edificazione di autonome, autosufficienti, autosussistenti comunità di villaggio, la cui collocazione è in ambito rurale. Il socialismo o è una forma di libera autogestione di risorse agrarie, o non è. In tal senso ci è più utile la "preistoria" della "storia", l'uomo primitivo piuttosto che quello civilizzato. Se questo è vero, saremmo andati oltre Marx Engels Lenin Stalin Mao..., senza uscire dai limiti del socialismo democratico.
Fonte: Uomo laico
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.