La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 28 agosto 2015

Siamo tutti ipocriti?

di Alessandro Del Ponte
Siamo tutti ipocriti? Secondo Robert Kurzban, astro nascente della psicologia evoluzionistica e professore associato alla University of Pennsylvania, ognuno di noi è una sorta di Giano bifronte. Gli esseri umani, per natura, sarebbero portati a razzolare bene e predicare male, perché questa è la strategia vincente nelgioco per la sopravvivenza e il trionfo della specie. Secondo Kurzban, gli organismi che sono sopravvissuti a miliardi di anni di affinamenti evoluzionistici devono essere esperti di teoria dei giochi per necessità. L'obiettivo, per qualsiasi specie, è eccellere nelle quattro effe: "feeding, fleeing, fighting" e "having sex", ossia sfamarsi, fuggire, combattere e riprodursi. E' per far fronte a tali quattro bisogni fondamentali che il nostro cervello, come quello degli altri mammiferi, è dotato di una molteplicità di moduli, tutti interconnessi e deputati ad una funzione evoluzionistica ben precisa.
Il titolo scanzonato, Why Everyone (Else) Is A Hypocrite: Evolution and the Modular Mind (Princeton University Press, 2010, in corso di traduzione in numerose lingue), cui si accompagna uno stile fluido e ricco di humouranglosassone, non deve trarre in inganno il lettore: si tratta di un saggio impegnativo, che scuote le fondamenta del mainstream di tradizioni accademiche consolidate come economia, filosofia e psicologia. Leggendo tra le righe, si potrebbe pensare, malignamente, che molti degli ipocriti cui Kurzban fa riferimento siano proprio molti accademici di spicco, autori di teorie tanto affascinanti quanto prive di fondamento scientifico. La lista di proscrizione è lunga e ricca di vittime illustri.
L'utopia di uno o più Self
Daniel Kahneman, autore del best-seller Thinking: Fast and Slow, è famoso per aver costruito la sua teoria su due self: quello "impulsivo", retaggio di un antico passato evoluzionistico e dotato di caratteristiche molto simili a quelle di altri animali, e quello "riflessivo", frutto di affinamenti più recenti e sviluppato al massimo grado nell'uomo. Il primo sarebbe capace di decisioni fulminee, come schivare un ostacolo o fuggire da un pericolo imminente; il secondo sarebbe deputato al calcolo e alle decisioni raziocinanti. Macchine perfette se considerate separatamente, i due self non sempre raggiungerebbero soluzioni corrette quando impegnati a interagire. Ciò accadrebbe per via dell'attivazione più intensa di alcune aree cerebrali rispetto ad altre e per l'interruzione di alcuni corridoi neurali per mezzo di scariche ormonali.
Un'intensa produzione di ossitocina, ad esempio, acuisce lo spirito di coppia e l'attaccamento reciproco dei partner. Il corpo umano produce livelli di ossitocina elevati in numerose situazioni, tra le quali spiccano l'atto riproduttivo e, più in generale, i gesti amorosi. Tali livelli più alti del normale favoriscono l'attivazione delle proiezioni dopaminergiche nel nucleus accumbens, a scapito di altre aree cerebrali prefrontali, e ostacolano la comunicazione tra le due. Ecco che l'istinto ha la meglio sul freddo calcolo razionale, ed ecco aumentare la probabilità che il partner acquisti costoso champagne per far colpo al primo appuntamento, dimenticando che il conto in banca langue, o, di converso, si sobbarchi noiosi pomeriggi di shopping sfrenato per le vie del centro in compagnia del coniuge, rinunciando a golose opportunità di più immediata soddisfazione sessuale pur di continuare a ingraziarsene la benevolenza.
Kurzban derubrica l'idea di uno o più self come troppo semplicistica e ben lontana dalla realtà. Non esiste alcun "Io", alcun "Buzzy", come lo definisce ironicamente il professore di Philadelphia. L'Adam Smith della Teoria dei Sentimenti Morali, così affascinante e apparentemente così moderno, aveva torto: non esiste nessun moral hector a ricondurci sulla retta via. "Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me", scriveva Immanuel Kant nella Critica della Ragion Pratica. Platone, nel Fedro, con il mito dell'auriga e del carro alato alludeva al dualismo tra thymeidès e epithymetikòn, tra mondo dell'iperuranio e sfera dei sensi, che solo il sapiente auriga, il logistikòn, sarebbe in grado di conciliare. Sempre Platone ricorda come Socrate si riferisse a un daimon, una sorta di coscienza morale che governava le sue azioni nella lotta quotidiana tra desideri celesti e terreni. Nell’Apologia di Socrate, il filosofo ne parla come segue: “C'è dentro di me non so che spirito divino e demoniaco; quello appunto di cui anche Meleto, scherzandoci sopra, scrisse nell'atto di accusa. Ed è come una voce che io ho dentro sin da fanciullo; la quale, ogni volta che mi si fa sentire, sempre mi dissuade da qualcosa che sto per compiere, e non mi fa mai proposte.”[2] L’elenco potrebbe diventare enciclopedico.
Ma, per Kurzban, avevano tutti torto. L'auriga altri non sarebbe che Buzzy, un personaggio attraente quanto irreale. La realtà è meno sexy e più complessa: il cervello andrebbe letto in chiave funzionale (le quattro effe come paradigma comprensivo delle funzioni principali da soddisfare in chiave evoluzionistica) e sarebbe composto da moduli che lavorano ognuno per raggiungere l'obiettivo che Madre Natura ha dato loro. Pertanto, le nostre decisioni e i nostri comportamenti sarebbero il prodotto delle interazioni tra tali moduli (ben più di due o tre in numero e, potenzialmente, infiniti). Non esiste una cabina di regia: di volta in volta, uno o più moduli salgono sul ponte di comando.
Non c’è posto né per l’anima né per la coscienza
A leggere le sue tesi, suffragate da almeno tre lustri di ricerca, può sorgere legittimamente il dubbio che Kurzban abbia tralasciato di considerare l’anima e la coscienza. Come è possibile ignorare l’ovvio? I vari daimon, moral hector e selfaltro non sono che razionalizzazioni della vocina che fanno parte dell’esperienza quotidiana di ciascuno di noi: spesso parla al presente (l’experiencing self di Kahneman), ma a volte si esprime anche al passato o pondera sul futuro (sempre con Kahneman, il remembering self). Per Kurzban, si tratta di razionalizzazioni sbagliate.
La coscienza e l’anima, o quale che sia il nome con cui ci si riferisce ad esse, sarebbero semplicemente l’estrinsecazione di moduli con le funzioni più disparate. Prendiamo il senso dell’autostima, ad esempio: secondo Kurzban, la stima di “se stessi” altro non sarebbe che la manifestazione del modulo deputato a curare le nostre relazioni pubbliche. La coscienza come PR professionista. Che delusione, verrebbe da esclamare! Tuttavia, Kurzban propone un modo di produrre scienza che aderisca a parametri rigorosi e non si conformi ai nostri desideri o a ciò che può far gola alle prime pagine dei giornali, anche se patentemente implausibile. Come suggeriscono Mark Leary e Deborah Downs, psicologi della Duke University, il sistema dell’autostima sarebbe un sociometroche misura il nostro grado di popolarità, permettendo così di dirigere al meglio la navigazione nell’universo delle relazioni sociali. Kurzban esemplifica bene il concetto: quanti amici su Facebook abbiamo? Quanti “Mi piace” ricevono i nostripost? Il nostro cervello conosce bene la realtà: o siamo i più in della città o siamo degli outsider. Ma il nostro modulo PR fa in modo di confezionarla nel modo migliore per sostenerci nella competizione evoluzionistica. Se siamo dei reietti con pochi like, ci frulleranno nella testa frasi come “Per fortuna ho pochi amici: almeno ho poche notifiche da controllare e non perdo tempo”. In questo modo, invece che buttarci giù dal Golden Gate, continuiamo tranquilli la nostra esistenza. Se invece siamo dei socialites, il nostro modulo magari suggerirà che c’è pur sempre quel tale amico che ha il doppio dei nostri contatti e il triplo dei nostri “Mi piace” o dei nostri followers. E allora ecco che non ci culliamo sugli allori e andiamo alla ricerca di nuove relazioni da intessere.
In psicologia si parla di hedonic treadmill, ossia di quel fenomeno per cui da un lato non ci accontentiamo mai di ciò che abbiamo, ma dall’altro sappiamo adattarci alle situazioni difficili. Ad esempio, già nel 1978 gli psicologi Brickman, Coates e Janoff-Bulman hanno mostrato come i vincitori della lotteria e le vittime di incidenti mostrino gli stessi livelli di felicità dopo che sono passate poche settimane dal lieto o triste evento.
Pertanto, la nostra percezione della realtà, i nostri ragionamenti, i sentimenti, le aspirazioni, i calcoli, le paure, altro non sarebbero che manifestazioni dei diversi moduli. Kurzban oppone ai modelli centrati su uno o più Io, uno nuovo, fondato su un Noi. Ogni frase coniugata al singolare (“Io sono…, io faccio” eccetera), benché correttissima sul piano esperienziale, sarebbe priva di fondamento scientifico.
Il mito delle preferenze rivelate e della Rational Choice Theory
Una conseguenza della coabitazione di innumerevoli self corrispondenti ad altrettanti moduli è l’impossibilità di tracciare un quadro coerente e cristallizzato delle preferenze di un individuo. Già, perché’ l’individuo, per Kurzban, è una somma di forze e non un’unità. Di volta in volta, prevale un iodiverso, con gusti e preferenze proprie e spesso distinte da quelle degli altri. Un esempio: preferite una tazzina di caffè o un calice di vino? Probabilmente la risposta dipenderà da vari fattori, come l’orario della giornata, la compagnia, o il cibo che vi sta di fronte. Tali fattori sono espressione dei moduli che hanno il sopravvento o sono sopraffatti da altri. Le preferenze, al contrario di quanto postula la teoria delle scelte razionali (rational choice theory, RCT), possono benissimo essere circolari –A è preferito a B, B a C e C ad A-, dipendono dal contesto, dallo stato della persona dalla storia del soggetto in questione. Le preferenze rivelate di volta in volta possono differire in modo così sostanziale e indipendente dalla nostra consapevolezza che elaborare una risposta esaustiva alla semplice domanda sulle preferenze tra caffè e vino diventa un’impresa titanica. La RCT rappresenta un’utile semplificazione e un potente strumento di ragionamento astratto, ma il salto tra teoria e comportamento empirico è notevole.
L’inganno della forza di volontà e della tempra morale
Se non esiste alcun Io, vacilla anche il concetto di briglie morali tenute saldamente in pugno dall’auriga di Platone. In tempi moderni, l’economista comportamentale della Duke University, Dan Ariely, ha parlato, con una metafora, dell’esistenza di un “muscolo morale”, che sarebbe allenabile e potrebbe essere soggetto a sfilacciamento se sottoposto a sforzi eccessivi. In termini tecnici, si parla di ego depletion, esaurimento dell’Io, come se l’Io fosse una risorsa equiparabile agli elementi nutritivi contenuti in un terreno agricolo e, pertanto, andasse sottoposto a rotazione delle colture. Pensiamo a una dieta ferrea della durata di mesi e mesi: secondo Ariely, perché possa funzionare, occorre lasciare ogni tanto dei piccoli spazi per indulgere e permettere al “muscolo morale” di rilassarsi un attimo, per poi ripartire ristorato e aiutarci a tenere sotto controllo la linea. Semel in anno licet insanire, dicevano i Romani.Benché possa essere interessante come rimedio della nonna, il concetto di ego depletion risulterebbe scientificamente infondato.
Secondo Kurzban, non esiste alcun muscolo morale che si affatica; al suo posto esistono meccanismi computazionali continui e istantanei che i moduli del cervello compiono di momento in momento per valutare quale sia il corso d’azione migliore da prendere. Meglio un Espresso al bar dietro l’angolo o uno Châteuneuf du Pape? Dipende se siete soli o con la vostra metà, ad esempio. Meglio una mela o una torta al cioccolato? Se siete appena passati davanti a un negozio salutista magari la prima; se la bottega in questione era una famosa pasticceria del centro, chissà che non indulgiate. Le risposte a queste domande potrebbero variare infinite volte al mutare delle condizioni, e dietro le quinte, al riparo della vostra coscienza, stanno complicati calcoli di rapporti tra scelte differenti, in un impressionante data crunching di input microeconomici. Le prime evidenze dell’esistenza di questi calcoli è già emersa in diversi studi empirici che sottolinea il ruolo delle emozioni nel modificare tali rapporti di convenienza. Andrew Delton, Tess Robertson (Stony Brook University) e Aaron Sell (UC Santa Barbara) hanno avanzato già molti studi sul welfare trade-off ratio (WTR), il rapporto tra il benessere altrui e il proprio. A quanto siamo disposti a rinunciare pur di garantire un beneficio ad un partner, un amico, un genitore, una squadra di calcio, un partito politico? Il rapporto può essere positivo, nullo o negativo. “Dovete pagarmi per andare a vedere [la odiata squadra X]” è un tipico esempio di rapporto negativo, ad esempio. Alcuni progetti di ricerca hanno mostrato che le emozioni registrate dai soggetti testati sono in grado di modificare i WTRs in modo da ribaltare le loro preferenze, che si possono prevedere in base agli stati ormonali che tali emozioni generano.
Tornando all’esempio di Dan Ariely: la scelta di rinunciare ad una fetta di torta per compiacere il partner non richiede alcuno sforzo per il muscolo morale, ma corrisponde al trionfo del modulo predisposto per soddisfare una delle quattro effe (indovinate quale). In altri termini, mangiare quella fetta di torta dall’aspetto così goloso diventa improvvisamente molto costoso quando il partner ricorda quel filo di pancetta che vi contraddistingue. Probabilmente, i calcoli costi-benefici compiuti dal cervello ogni giorno superano di gran lunga quelli dei computer più sofisticati.
Ipocrisia e felicità
A questo punto appare evidente come la coerenza sia virtù impossibile da conseguire per definizione, a causa della perenne competizione tra moduli funzionali nel nostro cervello. L’importante è che il modulo PR svolga bene il suo compito e ci faccia apparire coerenti e lineari, in modo da ben figurare con gli altri. Come sottolinea Kurzban, l’ipocrisia non è necessariamente un male, e gli inganni del nostro cervello non devono essere considerati alla stregua di biase fallacie, come si suole fare spesso al giorno d’oggi tra gli economisti comportamentali (Dan Ariely in primis). Siamo ipocriti non per perseguire la nostra felicità, perché per la Natura, come sentenzia Kurzban, essere felici non esiste e non conta nulla. Risuonano nella mente le parole di Joshua Greene, psicologo morale di Harvard, secondo cui la felicità rappresenta la valuta morale che salverà il mondo dalle guerre e dalle divisioni, unico elemento in grado di unire tutti gli uomini in una filosofia profondamente pragmatica. Kurzban, e con lui il suo allievo Peter De Scioli, oggi Assistant Professor alla Stony Brook University, ci ricordano che la felicità è solo un meccanismo escogitato in milioni di anni di evoluzione per farci sopravvivere e proliferare come specie.
Restano parecchie perplessità riguardo alle innumerevoli azioni dettate da puro altruismo che costellano la Storia dell’Uomo. Da Socrate, che accetta di bere il veleno pur potendosi salvare violando le leggi; passando per casi più noti come quello di Gesù Cristo nel suo percorso dal Monte degli Ulivi alla Croce; gli infiniti martiri per motivi religiosi; fino agli odierni kamikaze, dal Giappone all’ISIS. Jonathan Haidt, psicologo morale della New York University, attribuisce tali azioni straordinarie alla “hivishness”, lo spirito di gruppo, che l’evoluzione avrebbe reso importante talvolta quanto la vita dell’individuo, come in una falange oplitica.
Tuttavia, non è chiaro come possa il WTR di tali individui rendere il mantenersi in vita un’opzione più costosa che morire –per le leggi, per l’umanità, per Dio, per la patria, per un ideale. Il suicidio di un kamikaze è difficilmente giustificabile in chiave evoluzionistica, se si prende le mosse dal presupposto che i moduli del nostro cervello mirano alla conservazione e riproduzione dell’essere che li ospita. Altrimenti, se si assume che tali moduli si siano perfezionati per far replicare non il codice genetico di un individuo, ma quello di una comunità, dobbiamo avanzare l’ipotesi che la selezione naturale si effettui a livello di gruppo –come sostiene Haidt- e affermare che, in prospettiva evoluzionistica, le azioni dei fanatici dell’ISIS, ad esempio, siano motivate dall’obiettivo di generare la selezione della specie umana sulla base del credo religioso. Ipotesi, questa, che appare piuttosto fantasiosa, a voler seguire il canovaccio offerto dagli stessi psicologi evoluzionisti, in quanto la religione sarebbe mero strumento evoluzionistico per il controllo del gruppo e ben poco avrebbe a che fare con il bagaglio genetico dell’individuo, così importante, invece, per i nostri “geni egoisti”, come direbbe Dawkins.
Qualunque sia la risposta a queste e infinite altre domande che il dibattito scatenato dal libro di Kurzban solleva, l’opera dello psicologo della University of Pennsylvania è graffiante e provocatoria in modo costruttivo. Pertanto, non può mancare sullo scaffale della libreria di ogni curioso di scienza e moralità, e obbliga economisti, filosofi e psicologi a una seria riflessione sui fondamenti delle loro discipline.

NOTE

[1]Alessandro Del Ponte è PhD student presso il Center for Behavioral Political Economy della Stony Brook University (SUNY, New York, USA).

[2]Platone, Apologia di Socrate, 31d

Fonte: MicroMega online - Il Rasoio di Occam

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