La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 28 agosto 2015

Quella penisola nelle brame degli imperi al tramonto

di Angelo d'Orsi
La Cri­mea è tor­nata d’attualità a seguito del colpo di Stato di «Euro­mai­dan» del novem­bre 2013. Dopo una «guer­ric­ciola» con il suo cor­redo di morti e distru­zioni, la Peni­sola («donata» all’Ucraina, nel 1954, da un Kru­scev in preda all’alcol) è ritor­nata, nel marzo 2014, alla «Grande Madre Rus­sia», con un refe­ren­dum, valido a dispetto delle con­te­sta­zioni dell’Occidente.
Non è stata la prima guerra in una Peni­sola di poco più di 26 mila km qua­drati e circa due milioni di abi­tanti. La sua posi­zione stra­te­gica, al con­fine tra imperi in eterna lotta per la supre­ma­zia, l’ha espo­sta a occu­pa­zioni, incur­sioni, deva­sta­zioni. Per Orlando Figes, autore di Cri­mea. L’ultima cro­ciata (Einaudi, pp. XX-531, euro 35), la com­po­nente base della sua sto­ria è lo scon­tro fra reli­gioni: una tesi forte, che forse non trova ade­guato riscon­tro, ma l’autore con­ferma la pro­pria capa­cità affa­bu­la­to­ria in que­sto tomo, stra­ri­pante di dati, nomi, cifre, ipo­tesi: il let­tore rischia di smar­rirsi, come del resto sem­bra capi­tare allo stesso Figes, il quale ci for­ni­sce però un qua­dro utile a com­pren­dere le com­po­nenti varie­gate di una vicenda intri­ca­tis­sima. Lo scrit­tore, già noto per discusse incur­sioni nella sto­ria russa, si rivolge a un fatto pre­ciso, che con­tiene in sé la trama di un paio di mil­lenni, tra le steppe sibe­riane, le mon­ta­gne cau­ca­si­che, le sponde medi­ter­ra­nee e l’Europa delle Grandi Potenze.
La dub­bia fron­tiera religiosa
Il con­flitto del 1853–55, la «guerra di Cri­mea», segnò la fine delle ambi­zioni dell’impero russo, come con­fermò mezzo secolo dopo la scon­fitta col Giap­pone. Ana­lo­ga­mente, l’Impero Otto­mano, teo­ri­ca­mente tra le potenze vit­to­riose, diede con­ferma della pro­pria fra­gi­lità, di cui qual­che decen­nio più tardi l’Italia di Gio­litti appro­fittò per la «con­qui­sta» della Tri­po­li­ta­nia e Cire­naica. Seb­bene Figes distri­bui­sca le respon­sa­bi­lità, è non­di­meno la Rus­sia che mette sul banco degli impu­tati, usando una chiave inter­pre­ta­tiva sug­ge­stiva, e, ripeto, discu­ti­bile: la reli­gione; tanto più che sem­bra asse­con­dare un senso comune che sta facendo per­dere di vista le com­po­nenti eco­no­mi­che e geo­po­li­ti­che dei con­flitti del nostro tempo, quasi che la reli­gione possa essere asso­lu­tiz­zata come «la causa» delle guerre. Sarà poi così vero che, come scrive Figes, in Rus­sia la «fron­tiera reli­giosa era da sem­pre più impor­tante di qual­siasi fron­tiera etnica?».
Che le respon­sa­bi­lità pri­ma­rie nello scop­pio della guerra siano di Nicola I, che invase Mol­da­via e Valac­chia, sotto la sovra­nità otto­mana, non v’è dub­bio; ma la causa sca­te­nante non è auto­ma­ti­ca­mente la causa poli­tica: il ruolo delle potenze impe­ria­li­ste, Fran­cia e Gran Bre­ta­gna, rimane essen­ziale; e la Tur­chia non era da meno, pur nella sua decli­nante forza: per fer­mare lo zar, si schierò con esse: il con­flitto ebbe ini­zio con l’assedio della for­tezza di Seba­sto­poli (que­sta è la ragione per cui molte città la ricor­dano nella topo­no­ma­stica), prin­ci­pale porto russo sul Mar Nero. Lon­dra e Parigi non otten­nero la col­la­bo­ra­zione dell’Austria (che nel 1914 tro­ve­remo alleata della Tur­chia e della Ger­ma­nia, con­tro la Tri­plice Intesa), men­tre volle farsi coin­vol­gere il Pie­monte sabaudo che mandò 15 mila uomini, il che sarebbe poi ser­vito a Cavour a porre la que­stione dell’Unità ita­liana al suc­ces­sivo Con­gresso di pace di Parigi. Fu la caduta di Seba­sto­poli, a indurre il nuovo zar Ales­san­dro II all’armistizio.
Emerge dalla rico­stru­zione di Figes la vastità del sen­ti­mento anti­russo in Europa, il che rende dif­fi­cile spie­gare la suc­ces­siva alleanza pro­prio con il temuto-odiato «Orso russo» con­tro l’Austria e la Ger­ma­nia: nel con­ti­nuo val­zer delle alleanze, domi­nano l’arroganza e la stu­pi­dità dei gruppi diri­genti nazio­nali, non importa se sotto le inse­gne della demo­cra­zia o dell’autocrazia, e soprat­tutto il disprezzo per le popo­la­zioni che rap­pre­sen­ta­vano. Come sarebbe acca­duto nel 1914, anche allora la guerra nac­que da un gioco di risiko, in cui cia­scun attore tirava la corda con­tando sulla sua resi­stenza, lan­ciando mes­saggi roboanti, da una parte, ras­si­cu­ranti dall’altra. La guerra è frutto anche della insi­pienza e della irre­spon­sa­bi­lità delle classi diri­genti. Nes­suno voleva la guerra, ma tutti erano pronti a usare la minac­cia delle armi, fino a che il pre­ca­ris­simo equi­li­brio saltò. A farne le spese furono, natu­ral­mente, le masse ano­nime, spe­cial­mente con­ta­dine, il nerbo degli eser­citi: quello russo era di gran lunga il più grande del mondo, con oltre un milione di fanti, 250 mila irre­go­lari, 750 mila riser­vi­sti. Ma era un eser­cito di scarsa potenza, e gli stessi suoi uomini erano in con­di­zioni pes­sime, per la denu­tri­zione cro­nica dei mugiki, ancora legati alla gleba da un ser­vag­gio che sarebbe stato poi abo­lito da Ales­san­dro II dieci anni dopo. I loro «padroni» per evi­tare di impo­ve­rire le lavo­ra­zioni invia­vano al reclu­ta­mento i sog­getti con minori capa­cità, tanto che ne veniva respinto un terzo. Inol­tre, come avrebbe notato Karl Marx, con osser­va­zione esten­si­bile ben al di là dello spe­ci­fico, i prin­ci­pali meriti erano la «sto­lida obbe­dienza» e la «pronta ser­vi­lità», con­giunta «all’accuratezza nello sco­prire una pecca nei bot­toni o nell’asola dell’uniforme».
Pen­nac­chi e galloni
Non era poi tanto meglio l’esercito di Sua Mae­stà Bri­tan­nica, mal equi­pag­giato, mal nutrito e mal orga­niz­zato: la famosa carica di Bala­klava immor­ta­lata nella pit­tura, nella let­te­ra­tura e nel cinema, rap­pre­sentò un inu­tile gesto di eroi­smo dispe­rato. Eppure fu pro­prio la Cri­mea a cam­biare il rap­porto degli inglesi con l’esercito, sot­traen­dolo all’egemonia dell’aristocrazia, scre­di­tata dalla pes­sima prova data in guerra: in luogo del gen­ti­luomo «tutto pen­nac­chi e gal­loni», l’eroe divenne il sol­dato di truppa, un ano­nimo figlio del popolo. Il che con­tri­buì a far uscire di scena i ceti ari­sto­cra­tici favo­rendo l’ascesa delle classi medie, anche gra­zie all’informazione for­nita dalla stampa. Nel tea­tro di quella, lungi dall’essere un con­flitto minore, fu la prima guerra moderna della sto­ria, nac­que la figura del cor­ri­spon­dente, che, armato di tac­cuino e penna, si reca sul luogo e rac­conta ciò che vede. Fu il bri­tan­nico Wil­liam Rus­sell il primo, docu­men­tando il con­flitto, con­tro la cen­sura degli Alti Comandi: cor­ri­spon­dente del Times, egli rac­contò la realtà di quel macello all’ingrosso, non lesi­nando cri­ti­che alle gerar­chie mili­tari. E in tal modo si pose anche il dua­li­smo tra la verità atroce e spesso oscena del mas­sa­cro, e la rap­pre­sen­ta­zione edul­co­rata ed eroi­ci­stica dif­fusa sul piano politico.
Anche da tale punto di vista, che sia stata o no il tea­tro di una «cro­ciata», la Cri­mea fu senza dub­bio una prova gene­rale del grande mas­sa­cro che sarebbe comin­ciato sessant’anni dopo.

Fonte: il manifesto

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