La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 29 agosto 2015

Prodi attacca Twitter, il circolo vizioso dei limiti della sinistra

di Marta Fana
Dice su Huffington Post Prodi: "Oggi se c'è una cosa che ti impedisce l'analisi è Twitter". Il punto è interessante e chiama in causa la cultura politica su cui si fonda oggi il Partito Democratico. Una volta a fare le analisi c'erano i militanti che aspiravano a diventare dirigenti e quadri di partito o semplicemente quelli che credevano che la politica fosse una cosa seria, che dalle sue scelte derivassero conseguenze per la vita delle persone. La politica come strumento per il progresso, inteso come il miglioramento della vita individuale ma soprattutto collettiva - nostalgia canaglia portami via -. Allora c’erano le Frattocchie ed erano un passaggio obbligatorio prima ancora che obbligato. Oggi, dentro il PD, pare che a fare le analisi ci siano quelli che non fanno comunicazione politica (vedi pseudo Pravda) perché quei posti sono già tutti occupati (semicit.).
E allora non stupisce leggere che il Premier ha bisogno di chiamare a Palazzo Chigi un'altra serie di superconsulenti, la task force sulla ripresa e il lavoro, come l'ha definita ieri il Corriere della Sera. Come se l’analisi e la visione politica possano essere fatte da tecnici alla mercé dei governi, quasi creando un nuovo mercato, quello appunto dei tecnici.
Ma qui sta il nodo: è possibile mai che a sinistra siano scomparsi i centri studi, quelli in cui si è chiamati a studiare, fare analisi per capire la realtà e poi elaborare le proposte? Certo ce ne sono, anche all’interno del PD, ma rimane un affare di pochi, nominati dall’interno, senza dialettica.
In questo preciso nodo risiede una tra le debolezze che caratterizzano oggi la sinistra e i suoi limiti. Si va avanti inseguendo quel modello di proclami, di semplificazioni, di mediocrità.
Manca innanzitutto una visione chiara e concreta dell’alternativa che andrebbe creata: il tempo per gli slogan si è rarefatto così come il radicamento sociale, mentre vengono considerate sempre più accessorie quelle capacità e risorse necessarie per analizzare il presente e formulare un’idea di futuro, che vada oltre un certo tipo di intellettualismo sempre meno organico e per questo sempre più spesso inutile. Per decenni, si è rimasti seduti invocando la superiorità intellettuale della sinistra rispetto alla destra, tacciando di tecnicismo l’accademia, soprattutto quella economica. Risultato abbastanza banale di questo atteggiamento è oggi la totale assenza di interlocuzione tra la ricerca e la politica, se non sporadicamente. Mentre la destra utilizzava e traduceva modelli a tradizione marginalista in azione di governo, nonostante fossero fallaci- ignorandone volutamente gli effetti collaterali- la sinistra scompariva dai luoghi di creazione di conoscenza e diffusione del sapere. Inevitabilmente, il pensiero unico ha fatto breccia anche lì, dove la storia e una certa cultura, se preservati, avrebbero dovuto garantire quantomeno degli anticorpi.
Il rifiuto nei confronti del rigore scientifico e di una visione ampia e profonda della storia da parte della politica ha aperto la strada all’affermarsi di una visione astratta, che piuttosto che muovere dalla realtà dei fatti, dalle evidenze per sostanziarsi, ha preferito costruire i propri slogan, che mai avrebbero potuto reggere di fronte all’elogio della tecnica portata avanti dagli ordoliberisti e protagonisti del pensiero unico. Lo scontro è allora fermo tra due visioni in cui la teoria è assente, ma in cui i rapporti di forza rimangono sbilanciati a favore di chi dei propri strumenti, seppur fallaci, ha saputo fare virtù.
La sinistra italiana si trova allora prigioniera dei propri limiti e dell’incapacità di ristabilire una connessione organica tra analisi e azione politica, generando una vera e propria frammentazione delle resistenze e del pensiero stesso. Così gli intellettuali, quelli veri, sono utilizzati come strumento di legittimazione di una classe politica, a tratti con cariche dirigenziali, che però non era e non è tutt’ora in grado di fare tesoro del pensiero, né tanto meno di recepirne umilmente i messaggi. La frammentazione così creata ha danneggiato, e in molti casi quasi eliminato, la possibilità di ricreare e diffondere una visione all’interno della società. Ma colpa più grave è l’aver abbandonato l’idea di farsi nesso - e non fine - per ristabilire una mediazione attraverso corpi intermedi che sapesse realmente rappresentare istanze e rivendicare un’alternativa in grado di dare voce agli interessi di quei molti lontani dal dibattito politico. Uscire dalla propria autoreferenzialità e operare al servizio di chi maggiormente subisce il peso del ricatto e delle politiche di austerità che vanno avanti da troppo tempo, ben prima che l’Europa ce lo chiedesse.
Lo stesso vale se si rivolge lo sguardo alla capacità per un corpo militante di disporre di tutte le risorse non solo intellettuali e tecniche, ma anche amministrative per gestire il presente costruendo il futuro. Il governo di un Paese, seppure fondato su una precisa visione dei rapporti di forza, dell’indirizzo politico-economico da attuare, non può fare a meno di presidiare dall’interno l’intero corpo amministrativo e istituzionale. Mettere le mani sull’amministrazione significa principalmente disporre di tutte le informazioni necessarie alla definizione delle politiche stesse e alla gestione dei suoi effetti e delle ricadute sulla società. I limiti vivono quindi in un circolo vizioso: oggi si evoca l’esigenza di governare, in una visione verticistica, senza preoccuparsi del governo di tutti gli strati istituzionali, usati nel tempo come mera occupazione di spazi, volta, nel migliore dei casi, alla conservazione di uno status dirigenziale, se non manifestamente di un potere di controllo di stampo clientelare.

Fonte: MicroMega online - blog dell'autrice

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