La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 28 agosto 2015

La “Battaglia di Stalingrado” madre della rinascita dell’Europa

di Claudio Vercelli
Le date precise sono, in questo caso, a volte incerte ma la sostanza è sempre la medesima. Nella seconda grande offensiva tedesca in terra russa, l’azione in profondità per conquistare la città di Stalingrado, situata in un’ansa meridionale del fiume Volga, avviatasi nell’estate del 1942, aveva assunto da subito un valore strategico.
La piccola metropoli costituiva uno snodo di fondamentale importanza economica per l’Unione Sovietica. La sua perdita avrebbe indebolito in modo rilevante le risorse industriali e, inoltre, poteva compromettere i collegamenti con il Caucaso e i suoi indispensabili bacini petroliferi.
Per Stalin costituiva un motivo di propaganda bellica e di prestigio personale poiché era intitolata a lui. Il dittatore era anche consapevole del potenziale rischio di un crollo morale dell’esercito sovietico e, nel qual caso, dell’intero Paese dinanzi ad ulteriori ripiegamenti e all’ulteriore abbandono di terre della Russia “profonda”. È non meno vero che i tedeschi e i loro alleati italiani, rumeni ed ungheresi si trovavano in una situazione critica, dal punto di vista logistico come in ragione del profondo logoramento causato dalla lunga durata di una guerra.
La quale, invece, nelle intenzioni di Hitler avrebbe dovuto già essere stata vinta alla fine dell’anno precedente. In buona sostanza, i due antagonisti si stavano giocando il tutto per tutto. Chi si fosse aggiudicata la “mano” di Stalingrado avrebbe guadagnato un rilevante credito per il prosieguo del confronto. In una guerra che, dal punto di vista nazista, era di annientamento totale dei nemici, soldati ma anche civili che fossero.
Tra il luglio del 1942 e i primi giorni di febbraio del 1943 si giocarono quindi buona parte delle sorti del conflitto nel teatro di scontro dell’Est europeo. Gli alleati angloamericani erano ancora lontani dal Continente, essendo impegnati a contrastare nel Mediterraneo ciò che restava del dispositivo bellico nazifascista. Non era estranea a tale configurazione di cose la scelta politica di indebolire l’Unione Sovietica, prefigurando, una volta sconfitte le forze dell’Asse, una sorta di vantaggio competitivo da spendere al tavolo delle trattative con Mosca.
Sta di fatto che nell’agosto del 1942, quando la Wehrmacht, l’allora esercito tedesco, conquistò e consolidò alcune teste di ponte ad est del Volga, in campo russo molto sembrò ad un passo dal collassamento.
Il Cremlino, effettivamente, avrebbe potuto subire una gravissima crisi politica e con esso la residua capacità di resistenza russa. Intorno a Stalingrado, nel mentre Mosca e Leningrado avevano resistito, o ancora resistevano, ai rispettivi assedi, le aspettative e la posta in gioco era quindi altissima. I combattimenti, che impegnarono complessivamente più di tre milioni di soldati tra l’una e l’altra parte, oltre ad una quantità innumerevole di civili, furono da subito furiosi, feroci e senza tregua.
La sesta Armata germanica, comandata dal generale Friedrich Paulus (tardivamente promosso poi da Hitler, negli ultimi giorni dell’esistenza dell’unità combattente, al grado di feldmaresciallo), era appoggiata da robustissimi reparti mobili alle dipendenze di generali tedeschi di grande preparazione, come Erich von Manstein, Hermann Hoth e Maximilian von Weichs. A loro si contrapponevano le truppe (e i civili) comandati da Georgij Zukov, Kostantin Rokossovskij, Vasilij Čujkov, Andrei Erëmenko.
Fu un cozzo micidiale, contrappuntato dal susseguirsi ossessivo, pressoché quotidiano, di scontri, scaramucce, come anche di battaglie campali e violenze di ogni genere, molto spesso destinate a risolversi con dei corpo a corpo, all’arma bianca. Ad ottobre i tedeschi sembravano orami prossimi alla vittoria. La città, passo dopo passo, si era ridotta ad un cumulo di macerie.
Nell’area occidentale circostante alla zona metropolitana, il dispositivo delle truppe dell’Asse aveva costituito un presidio amplissimo, articolato in almeno un centinaio di chilometri di profondità. I sovietici mantenevano alcuni capisaldi nell’area urbana, inviando contingenti di truppe, contrastati dai continui bombardamenti nemici, attraverso il Volga. Ma la questione del controllo (o della perdita) della città aveva oramai assunto una valenza politica che superava gli stessi clamorosi fatti d’arme. Di fatto la mobilitazione dei civili russi nella regione meridionale del fiume rivestiva i caratteri di una lotta per la sopravvivenza.
Poiché se i tedeschi avessero definitivamente sfondato le linee difensive, in sé fragili, avrebbero potuto dilagare verso Est e Sud. L’attenzione nei confronti delle sorti della città sopravanzava gli esiti stessi della lotta in corso,divenendo il simbolo di un più generale confronto tra due concezioni contrapposte del mondo: quella nazifascista e quella dei popoli che non volevano esserne schiacciati.
Non era la guerra dei “rossi” contro i “neri”, come poi la propaganda di regime avrebbe rivestito l’intera vicenda. Non era neanche la guerra di Stalin contro Hitler. Era qualcosa di molto più elementare, che evocava il principio della speranza contro l’impero dell’annientamento.
I russi non morivano per il comunismo; semmai morivano per se stessi e per i propri congiunti. Non si gettavano nella mischia perché un totalitarismo, ora nemico dell’altro, glielo ordinava, ma per un senso di dignità universale che si contrapponeva al ritorno della schiavitù, quella razziale, professata dagli invasori. Erano donne e uomini che identificavano la loro libertà in ciò che gli era rimasto, la possibilità di reagire con il colpo in canna, avendo come prospettiva, il più delle volte certa, la morte. Che non cercavano, semmai rifuggendola ma, al medesimo tempo, volendola risparmiare ai loro cari, ai loro figli. Anche da quel luogo, ora una sorta di toponimo antonomastico, rinasceva l’Europa.
Non quella della futura cortina di ferro bensì di coloro che, senza cercare troppe risposte, avevano una sola domanda: “se non ora, quando, e se non per me, per chi?”. I risultati successivi si sarebbero incaricati di raccontarci non solo di chi vinse quella partita e poi, in successione, la guerra e di cosa da ciò ne sarebbe derivato, nel bene come nel male, ma anche qual era la linfa della Resistenza come fenomeno continentale, al di là degli incapsulamenti ideologici che sarebbero intervenuti, quasi a volere mettere del piombo nelle ali di chi seppe trasformare, in quel terribile tempo, la necessità di sopravvivenza nella virtù della libertà. Che non si declama a parole ma vive con i fatti.

Fonte: Caratteri liberi

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