La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 23 agosto 2015

La libertà di un passaggio

di Valentina Greco
Lo dicono esplicitamente: vogliono andare in Francia per cercare lavoro o per transitare verso la Gran Bretagna. Non sono alla ricerca di assistenzialismo ma hanno un rapporto paritario e di condivisione della gestione del Presidio – dalla politica alla cucina – con gli italiani ed i francesi accorsi lì in loro supporto: sono i migranti che si trovano al “Presidio Permanente No Borders” a Ventimiglia. “Non si tratta di richiesta pietistica di aiuto, una concessione dell’Europa buona a coloro che transitano o che scelgono di muoversi nel suo spazio. Si tratta di una dichiarazione politica. La migrazione, parafrasando Foucault, è pratica di liberazione, che punta a realizzare reali pratiche di libertà. “We want to pass” è il simbolo della nuova protesta, che dall’Eritrea, dalla Somalia, dalla Siria, arriva fino alle grotte del neozoico.”
Altrettanto dicasi dei migranti e delle migranti per lo più di nazionalità eritrea che si trovano tra Piazza Matteotti a Cagliari, la piazza attigua al porto della città, il porto e i portici di via Roma: chiedono a gran voce di non essere identificati e fotosegnalati e di essere lasciati liberi di raggiungere i loro parenti in altri Paesi europei o semplicemente andare altrove alla ricerca di un lavoro.
Si sentono prigionieri in Sardegna e da essa gli spostamenti sono pressoché impossibili se non si ha un valido documento di riconoscimento per prendere la nave o l’aereo. L’esasperazione in loro è talmente forte che lo scorso 13 Agosto un migrante si è buttato in mare, nel porto di Cagliari: “per lui nessuna ferita, ma negli occhi la disperazione di chi non ha più voglia di combattere e chiede solo di poter iniziare a vivere, ma in un’altra Nazione.”
Che cosa unisce Cagliari e Ventimiglia? Che cosa unisce le diverse città d’Italia, porta dell’Europa, per quanto concerne quei flussi migratori che sopravvivono alla traversata del Mediterraneo e che decidono di mettere seriamente a rischio la propria vita pur di avere la possibilità di un futuro migliore all’insegna della dignità e della libertà?
È pacifico che non tutti i migranti che approdano nelle nostre coste siano richiedenti asilo ma possano anche esservi i cosiddetti migranti economici che non rientrano nelle fattispecie di protezione della Convenzione di Ginevra. Occorre poi porre in luce il calvario che i migranti vivono sulla propria pelle una volta giunti in Italia e che talvolta – non sempre e non per forza, è bene precisarlo – portano all’emarginazione e a percorsi di fragilità laddove si continui a dividere i migranti che hanno diritto a migrare, i richiedenti asilo e rifugiati, e quelli che non hanno questo diritto, i cosiddetti economici: i primi accedono ai percorsi di accoglienza e hanno, nella maggior parte dei casi, diritto ad accedere ad un centro che li ospiterà e li assisterà nella regolarizzazione; i secondi niente di tutto questo. A ciò, come se non bastasse, si aggiungono il Regolamento di Dublino III, secondo il quale il primo Paese in cui si viene identificati è il Paese dove il richiedente accede alla protezione e a cui è “vincolato”, e una difformità di accoglienza nei differenti Paesi europei benché la Direttiva Ue sull’accoglienza imponga agli Stati uno standard di base che dovrebbe portare ad una accoglienza pressoché equivalente in termini di qualità e non solo.
È bene ricordare che quelli che vengono definiti dagli addetti ai lavori migranti economici spesso fuggono da condizioni di povertà sovente generate da noi per mezzo dei nostri Paesi: noi che deprediamo i loro territori di importanti risorse producendo arricchimento economico per i nostri territori; noi che abbiamo la fortuna di essere nati dalla parte del mondo giusta e di avere – di conseguenza – il passaporto giusto. O perché no? Possiamo dirlo? Le persone possono anche essere libere di muoversi da un continente all’altro semplicemente per migliorare il proprio destino e alla ricerca della vita che desiderano. D’altronde, che differenza c’è tra un qualsiasi precario o disoccupato italiano che decide di emigrare in cerca di migliori opportunità lavorative, tutele e salari o alla ricerca di una vita migliore nel Paese che ha sempre sognato essere il suo ed un migrante cosiddetto economico? Sembra che l’opinione pubblica giustifichi le partenze dei precari italiani come le “fughe dei cervelli” mentre l’arrivo dei migranti economici assuma una diversa valenza, basata sulla non conoscenza dell’altro. Quando non si ha più niente da perdere, quando il proprio Paese non è più in grado di accogliere i propri cittadini e le proprie cittadine, è lecito tentare di costruire il proprio futuro altrove sperando di poter vivere dignitosamente, e non sopravvivere: il diritto alla vita non può essere alienato.
Mediante il nostro imperialismo e la nostra globalizzazione a metà siamo responsabili – insieme all’Unione Africana – di quanto avviene nei Paesi d’origine di molti dei migranti che giungono nelle nostre coste: basterebbe solo questo per dire che politicamente scegliamo di accogliere il disastro che noi abbiamo prodotto. O basterebbe anche solo dire che “tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire in uno spirito di fraternità vicendevole
Eppure la globalizzazione non l’abbiamo voluta noi, noi che eravamo a Genova; eppure quella a cui assistiamo oggi è una globalizzazione a metà sebbene si sia consapevoli che è impossibile fermare i flussi migratori: esisteranno sempre ed è bene farci i conti. Non si può impedire alle persone di circolare benché la fortezza Europa costruisca muri o metta in campo missioni di contrasto all’immigrazione clandestina ed esternalizzi le sue frontiere con campi in alcuni Paesi del Nord Africa deputati alla distinzione tra chi ha diritto di partire e chi no, tra richiedenti asilo e migranti economici. Ma chi decide? E in base a quali parametri?
L’opinione pubblica e la politica tendono a contrapporre queste due categorie di migranti, anche su basi normative internazionali, così come tendono a contrapporre i nativi e i migranti, esattamente come gli occupati e i disoccupati, i giovani e i vecchi, gli occupanti e i senza casa, etc… Mettere in campo una guerra tra poveri piuttosto che valorizzare le differenze come ricchezza è la strada prediletta, forse anche per la consapevolezza che queste “categorie” unite sarebbero in grado di mettere in discussione le politiche di austerity realizzate a vario titolo sulla pelle dei cittadini e delle cittadine.
Il filo conduttore tra migranti economici e rifugiati e richiedenti asilo è il fallimento delle politiche di accoglienza della fortezza Europa, che chiude i suoi confini a difesa del territorio nei confronti di esseri umani che si pensa non abbiano il diritto ad approdarvi benché il luogo dove si nasce sia un mero fatto di fortuna e benché – è bene ricordarlo – in Europa approdi solo una piccola percentuale dei flussi migratori in atto nel mondo. A ciò si aggiungono le politiche italiane basate sull’emergenza, l’assenza di programmazione della regolarizzazione di chi decide di stabilirsi nel nostro Paese per cambiare la propria vita. Dobbiamo avere il coraggio di formalizzare l’uguaglianza tra queste due tipologie di migrazioni come scelta politica: seppure i migranti non siano tutti richiedenti asilo, hanno tutti lo stesso diritto a migrare. La politica deve iniziare a ragionare in merito alla libera circolazione delle persone: tendenzialmente si ha la globalizzazione per merci, servizi e capitali ma non per gli esseri umani. Probabilmente in questo modo si potrebbe mettere la parola fine alle stragi che avvengono nel Mar Mediterraneo e alle aberrazioni a danno dei migranti a cui assistiamo impotenti benché ad ogni strage tutti noi, a partire dalle Istituzioni, mostriamo il nostro cordoglio. Il nostro è un ragionamento di classe, non dobbiamo avere paura di dirlo. Finché ci sarà lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo – sotto differenti forme e sotto differenti aspetti – noi sapremo da che parte stare.
La politica è quindi chiamata ad esprimersi nella sua forma più nobile ed elevata mettendo in campo un Welfare State, una amministrazione della Res Publica nell’interesse dei cittadini e delle cittadine che vivono il territorio a prescindere dalla loro nazionalità così come narra la nostra stessa Carta Costituzionale, legge Suprema del nostro ordinamento Repubblicano. O ci si potrebbe ritrovare, come avvenuto nella storia, davanti alla presa di coscienza che si è portatori di diritti non perché vengono riconosciuti attraverso la norma giuridica ma perché sono insiti nella natura dell’uomo e della donna e quindi nell’andare a prendere questi diritti negati: qualcuno diceva “quando l’ingiustizia si fa legge, ribellarsi è un dovere” perché “quando il diritto alla vita ti viene sottratto, devi andare a strapparlo ovunque si trovi”. Perché a Cagliari come a Ventimiglia si attende una soluzione, non un pasto caldo: si attendono i diritti di cui ogni uomo è portatore per il solo fatto di esistere. Si attende la libera circolazione delle persone.

Fonte: Esseblog

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