La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 26 agosto 2015

Palmira ferita non a caso

di Valentina Porcheddu
A qual­che giorno dalla tra­gica ese­cu­zione pub­blica di Kha­led As’ad, l’ex diret­tore del sito e del museo di Pal­mira, una nuova esplo­sione emo­tiva scuote gli animi degli stu­diosi di anti­chità e di quanti guar­dano al patri­mo­nio archeo­lo­gico come oriz­zonte cul­tu­rale. Il 23 ago­sto, l’Osservatorio Nazio­nale per i Diritti Umani in Siria ha annun­ciato che i mili­ziani di Daesh hanno fatto sal­tare in aria il Tem­pio di Baal­sha­min a Pal­mira, dan­neg­giando gra­ve­mente anche il vicino colonnato.
A scon­giu­rare l’evento non è bastato l’appello di Irina Bokova, Diret­trice Gene­rale Une­sco, che tre mesi fa invi­tava al «ces­sate il fuoco» per pro­teg­gere uno fra i siti più sor­pren­denti del Medi­ter­ra­neo. In seguito all’imperdonabile distru­zione del monu­mento dedi­cato al dio del ful­mine e della fer­ti­lità, la Bokova ha dichia­rato che gli uomini del Califfo stanno com­piendo, in Iraq e Siria, le più bru­tali e siste­ma­ti­che deva­sta­zioni del patri­mo­nio sto­rico mai regi­strate dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Eppure, tra i due comu­ni­cati – quello di fine mag­gio e quest’ultimo – niente è stato fatto dall’agenzia Onu affin­ché la cele­bre città caro­va­niera, nella lista del World Heri­tage fin dal 1980 e dal 2013 fra i siti in peri­colo, fosse sal­va­guar­data. Nes­suna voce «uffi­ciale» del mondo della cul­tura si è levata – agli inizi di luglio – quando l’Isis ha giu­sti­ziato ven­ti­cin­que sol­dati dell’esercito rego­lare nel tea­tro romano di Pal­mira, ser­ven­dosi per­sino di ado­le­scenti come boia e com­piendo – secon­da­ria­mente – un atto di vili­pen­dio all’edificio che ha ospi­tato in pas­sato nobili forme d’arte.
Il 27 giu­gno scorso era pas­sata in sor­dina anche la demo­li­zione del Leone di Allat, la colos­sale sta­tua risa­lente al I secolo d.C. posta dalla fine degli anni ’70 a guar­dia del Museo di Pal­mira. «La “sen­ti­nella” dell’ingresso a Pal­mira – ci dice Pascal Arnaud, docente di Sto­ria Romana all’Università Lumière-Lyon2 e già con­su­lente Une­sco per gli scavi di Bei­rut – non può con­si­de­rarsi un obiet­tivo secon­da­rio per l’Isis. “Leone”, in arabo, si dice El-Assad e all’epoca di Hafez al-Assad quella scul­tura era emblema dell’universalismo del par­tito Baath».
«Il sito archeo­lo­gico di Pal­mira – con­ti­nua Arnaud – rap­pre­sen­tava il domi­nio, da parte del regime, della cul­tura dei colo­niz­za­tori, i quali ave­vano annien­tato una città araba medie­vale per far emer­gere un patri­mo­nio più antico, spet­ta­co­lare e mag­gior­mente degno di atten­zione». La «scon­fitta» di tale cul­tura colo­niale, garan­zia di moder­nità e inte­gra­zione al mondo ormai nelle mani della nazione siriana, inne­scò quel pro­cesso ideo­lo­gico che fece della regina Zeno­bia la lea­der di un Fronte di Libe­ra­zione Nazionale.
In realtà, come sap­piamo ora da un recente libro di Annie e Mau­rice Sar­tre (Zéno­bie, de Pal­myre à Rome, ed. Per­rin 2014), Zeno­bia – che era la con­sorte di Set­ti­mio Ode­nato e a lui suc­ce­dette quale impe­ra­trice romana d’Oriente -, non fomentò le lotte con­tro i «colo­niz­za­tori» ma si oppose a un altro impe­ra­tore, Aure­liano, con l’ambizione di con­qui­stare il potere asso­luto assieme al figlio Val­la­bato. L’importanza accor­data da Hafez al-Assad all’archeologia come stru­mento di pro­pa­ganda nazio­na­li­sta si riflette nella scelta d’installare nel mae­stoso tem­pio di Bêl una resi­denza per il mini­stro della Cul­tura, dalla quale mostrare agli ospiti del regime i fasti della nuova Siria.
Ma se in giu­gno i mili­ziani hanno com­piuto la loro ven­detta archeo­lo­gica e poli­tica sul Leone di Pal­mira, fa riflet­tere la scelta di pre­ser­vare pro­prio quel tem­pio e sca­gliarsi invece sul san­tua­rio dedi­cato a Baal­sha­min, datato al II secolo d.C., un gio­iello archi­tet­to­nico ma cer­ta­mente meno impo­nente e «caro» al turi­smo di massa. Le ragioni vanno pro­ba­bil­mente ricer­cate nella stra­te­gia eco­no­mica dell’Isis, che da una parte distrugge manu­fatti con vere e pro­prie messe in scena, dall’altra rispar­mia tutto ciò che può esser fonte di guadagno.
La scelta di far sal­tare in aria il tem­pio di Baal­sha­min risiede forse nelle sue mode­ste dimen­sioni e nella sua posi­zione peri­fe­rica. Coloro che con­ti­nuano a cre­dere che l’unico scopo dell’Isis sia can­cel­lare il pas­sato pre-islamico ed eser­ci­tare la furia ico­no­cla­sta con­tro gli idoli, dovranno sfor­zarsi di guar­dare oltre quest’uso stru­men­tale e – a tratti abba­gliante – dell’archeologia. Se finora non ci sono prove che l’ottantaduenne As’ad sarebbe stato tor­tu­rato e poi bar­ba­ra­mente ucciso per­ché rifiu­ta­tosi di rive­lare il nascon­di­glio di pre­ziosi reperti, appare chiaro che per lo Stato Isla­mico – come d’altra parte ampia­mente docu­men­tato da inda­gini della poli­zia inter­na­zio­nale – il traf­fico ille­gale di reperti sia una delle prin­ci­pali fonti di finanziamento.
È anche noto che Daesh venda a caro prezzo licenze per scavi clan­de­stini, com­pro­met­tendo – come già suc­cesso a Dura Euro­pos e Mari – le stra­ti­gra­fie dei siti ma favo­rendo la sco­perta di manu­fatti da riac­qui­stare e immet­tere sul mer­cato. Men­tre fac­ciamo il lutto al tem­pio di Baal­sha­min, dob­biamo aspet­tarci in futuro, altre dimo­stra­zioni di vio­lenza da parte dell’Isis, mirate tut­ta­via non alla distru­zione glo­bale di un patri­mo­nio siriano già for­te­mente com­pro­messo dalla guerra civile, ma a una desta­bi­liz­za­zione emo­tiva della comu­nità inter­na­zio­nale. Per que­sto, ban­diere a mezz’asta e ini­zia­tive di com­me­mo­ra­zione non ci aiu­te­ranno a ono­rare uomini e a pro­teg­gere monu­menti ma con­ti­nue­ranno, in man­canza di azioni con­crete, ad allon­ta­narli per sem­pre dal nostro sguardo.

Fonte: il manifesto

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