La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 2 ottobre 2015

La Siria libanizzata

di Lorenzo Trombetta
La fine del conflitto in Siria è ancora molto lontana. I recenti eventi che da più parti vengono giudicati decisivi rappresentano solo l’inizio di una nuova fase nella dinamica bellica. L’apparente disgelo tra Stati Uniti e Iran e l’avvio della campagna militare saudita contro i miliziani ḥūṯī in Yemen possono aver avuto un impatto diretto e indiretto negli sviluppi siriani nelle regioni di Idlib e Dar‘ā e lungo la zona frontaliera siro-libanese del Qalamūn. Viceversa, le reciproche aperture tra Turchia e Iran e il riavvicinamento tattico tra Ḥamās e il regime di Damasco possono esser lette come parziali esiti del braccio di ferro in corso in Siria. I successi riportati e le sconfitte subite dagli attori impegnati nel conflitto siriano non sono però determinanti per assicurare a uno di loro la vittoria finale.
Nessuno può oggi vincere la guerra. Nessuno, dunque, è intenzionato a fare concessioni politiche ai suoi rivali. L’iniziativa russa di fine gennaio ha dimostrato tutta la sua inconsistenza, rivelandosi un mero tentativo di Mosca di rilanciare il suo ruolo di potenza regionale. L’unica alternativa diplomatica rimasta sul tavolo è quella offerta dall’inviato speciale dell’Onu, Staffan de Mistura. Le parti hanno di fatto respinto la sua proposta di congelare il conflitto, partendo da una tregua in un quartiere di Aleppo dove gli scontri sono congelati già da tempo. Il mediatore italo-svedese sente il dovere di onorare al meglio il suo limitato mandato e ha per questo convocato le parti, compreso l’Iran, per colloqui indiretti. Questi dovranno durare fino a luglio. E hanno un obiettivo non certo modesto: fare il punto della situazione.
La guerra siriana assomiglia sempre più al conflitto libanese (1975-90), dove per quindici anni fattori locali e internazionali interagirono fra loro, intessendo un intricato tappeto di guerre le une dentro le altre, combattute dalle superpotenze, dai loro alleati regionali e dai clienti interni in un caleidoscopio di alleanzee rivalità sempre in movimento.
Sul terreno si consolidano intanto aree di influenza militare, geopolitica, economica e culturale. Ciascuna è legata a una potenza, o a un consorzio di forze più o meno potenti, tradizionali ed emergenti, protette dal sostegno diretto o indiretto di attori regionali e internazionali.
Al Nord la Turchia considera un proprio cortile la cintura che da Idlib e Aleppo arriva alle zone a maggioranza curda confinanti con il Kurdistan iracheno. Ankara è appoggiata dal Qatar, dall’Arabia Saudita, dagli Stati Uniti e, politicamente, da Francia e Gran Bretagna. Al Sud, la Giordania riesce a mantenere le regioni di Dar‘ā e Qunayṭra sotto il proprio indiretto controllo, salvaguardando gli interessi sauditi, americani e israeliani. A Damasco, nella Siria centrale e nella regione costiera l’Iran e il suo alleato Ḥizbullāh, grazie anche al sostegno russo, mantengono il loro fortino lontano da concrete minacce. Al Nord e all’Est, lo Stato Islamico si serve anch’esso di clientele locali ma appare come la potenza in gioco con il maggior numero di propri uomini direttamente dispiegati sul terreno in modo unito e coordinato.
I fattori della spartizione territoriale
La spartizione in aree di influenza è determinata dalla contiguità geografica tra la potenza straniera e il territorio siriano: la Turchia si affaccia sul Settentrione siriano e la Giordania sul Meridione; da ovest Ḥizbullāh usa il trampolino libanese per proteggere Damasco, l’asse Ḥimṣ-Ḥamāh e i porti di Ṭarṭūs, Bāniyās e Latakia; lo Stato Islamico (Is) è penetrato nell’Oriente siriano dalla sua roccaforte irachena dell’Anbār. L’analisi delle cartine fisiche e geopolitiche non è però sufficiente a comprendere la spartizione in corso in Siria. Il fattore comunitario – confessionale ma anche etnico nel caso della contrapposizione tra curdi e arabi – ha assunto una valenza di primo piano nel determinare i passaggi delle linee del fronte.
Se la contiguità geografica consente agli attori esterni di penetrare con facilità nei quattro fianchi della Siria, per mantenere queste posizioni è necessario instaurare rapporti di fiducia e di mutuo interesse economico e di protezione con gli attori interni, assicurandosi una base di consenso da parte delle comunità locali. In questo senso, la comune appartenenza a un gruppo confessionale o etnico costituisce un elemento cruciale per rimanere in un’area appena conquistata.
Molti dei gruppi armati delle opposizioni nella regione di Idlib, tradizionalmente dominata da un sunnismo rurale conservatore, sono di stampo jihadista, alleati con i qaidisti della Ğabhat al-Nuṣra. L’ostilità agli alauiti e, in generale, allo sciismo, è un elemento fondamentale dei loro discorsi. In un contesto di crescente polarizzazione politica e confessionale, il sostegno diretto e indiretto della Turchia, di ambienti sauditi e del Qatar non è certo in contrasto con la visione culturale dei miliziani anti-regime di Idlib, di Aleppo e della regione nord-orientale di Latakia. L’offensiva di fine aprile di questi gruppi contro postazioni lealiste a Idlib città e a Ğisr al-Šuġūr è stata resa possibile da un piùconcreto supporto esterno. Ma anche dalla presenza di comunità locali sunnite che condividono, in maniera sempre più esplicita, il progetto politico estremista in funzione anti-regime e in ostilità alle comunità alauite e sciite. Tra i miliziani e le comunità c’è un legame organico e una condivisione di necessità e di interessi socio-economici. Questi sono la forza e, al tempo stesso, il limite dell’offensiva di aprile. Nonostante l’allarmismo registratosi nelle montagne alauite nella zona di Ğisr al-Šuġūr, e nonostante le analisi apocalittiche di alcuni «esperti» che hanno preannunciato un’invasione jihadista verso il porto di Latakia, i gruppi armati di Idlib non andranno oltre i confini dell’area di influenza turca. Non è saggio per nessuno avventurarsi in territori ostili con l’intenzione di stabilirvi avamposti duraturi.
Analogamente, lo Stato Islamico si mantiene forte nelle zone siriane e irachene, in larga parte rurali e sunnite, ma non è in grado di spingersi in territori estranei al suo progetto geopolitico e culturale. L’Is è stato sconfitto, o è stato respinto, in aree dove non avrebbe potuto imporre il proprio dominio: le forze curde hanno avuto la meglio sui jihadisti sia nell’assedio di ‘Ayn al-‘Arab-Kobani nel Nord della Siria, al confine con la Turchia, sia attorno al monte Sinğār nel Nord-Est iracheno. Tra la piana di Ninive e le campagne a est di Aleppo l’Is si è mostrato brutale, ma ha anche erogato servizi essenziali e assicurato un certo grado di stabilità. Si è così proposto come elemento di rottura rispetto alle autorità del passato, sempre più identificate come ingiuste e repressive, viste come estensioni locali dei poteri filo-iraniani di Damasco e Baghdad. In alcuni ambienti lo Stato Islamico è riuscito a costruire un discreto consenso basato su una retorica politica pan-sunnita e anti-sciita.
In questo contesto, i recenti e sanguinosi attacchi dei jihadisti nelle zone a est di Ḥamāh, Ḥimṣ e Suwaydā’ vanno letti come chiari messaggi politici diretti agli avversari piuttosto che come concreti tentativi di allargare il proprio raggio di influenza. Quando ai primi di agosto del 2013 un gruppo di estremisti armati, tra cui jihadisti dell’allora nascente Is, provenienti dalle aree vicine al confine turco, fece razzie in località alauite sulle montagne a est di Latakia, l’obiettivo non era la conquista territoriale bensì il compimento di un atto geopolitico. Gli attori stranieri che sostennero quegli attacchi si rivolsero ai loro rivali regionali, affermando con le armi che potevano minacciare la roccaforte popolare dei clan al potere in Siria da mezzo secolo.
La risposta non si fece attendere. Dopo appena due settimane, le forze governative siriane colpirono con gas tossici le comunità delle regioni suburbane orientali e meridionali di Damasco. In nessuno dei due casi i gruppi armati impegnati in queste azioni sfruttarono la confusione generata tra le linee nemiche: né gli estremisti di Idlib e Latakia proseguirono la loro cavalcata verso altri villaggi alauiti lasciati sguarniti dalle forze lealiste; né i militari di Damasco si riversarono nella Ġūṭa devastata dai bombardamenti chimici. Così è avvenuto tra marzo e i primi di maggio scorsi, quando l’Is ha attaccato alcune località nella regione di Salāmiyya, a est di Ḥamāh, considerata la «capitale» siriana degli ismailiti, brancadello sciismo. Tra le decine di civili uccisi non c’erano solo ismailiti ma anche sunniti. Dopo quei raid, resi possibili grazie alla scarsa presenza di forze lealiste nell’area, i miliziani jihadisti si sono ritirati dai villaggi razziati e sono tornati dietro le linee della loro area di influenza.
Sebbene il messaggio rivolto alle comunità di Salāmiyya sia stato fin troppo chiaro («possiamo entrare nelle vostre case quando e come vogliamo!»), l’Is non ha mostrato interesse a impegnarsi in un conflitto aperto a pochi chilometri dall’autostrada Ḥimṣ- Aleppo, considerata vitale per il regime siriano, Ḥizbullāh, l’Iran e la Russia. Anche perché nell’area di Salāmiyya avrebbe difficoltà a raccogliere consenso da parte della popolazione locale. Così come non potrebbe stringere nessun patto sociale con le comunità druse della regione meridionale di Suwaydā’. Da settimane, i fianchi orientali di questo territorio sono obiettivo di attacchi mordi-e-fuggi di miliziani dell’Is e loro alleati locali, per lo più beduini sunniti delle vicine regioni desertiche. Lo Stato Islamico sa bene di non potere stabilire nessun controllo sull’altopiano basaltico abitato dai drusi. In quel territorio mancano i presupposti per costruire un legame il più possibile organico tra dominante e dominato. La recente offensiva jihadista su Tadmor (Palmira) può invece essere la premessa per un’estensione dell’area sotto il controllo dell’Is, proprio grazie alla presenza di un contesto socio-politico-confessionale non necessariamente in contrasto con il progetto dello Stato Islamico.
Città vs campagna e altre rivalità
L’utilizzo da parte dello Stato Islamico di clan beduini della Siria centrale e meridionale contro comunità non sunnite è esemplare di come gli aspetti confessionale e socio-economico siano entrambi determinanti nell’individuare convergenze di interessi e rivalità. Sono decennali e profonde le frizioni tra le comunità dei centri urbani siriani, anche minori, e quelle delle zone rurali circostanti. In molti casi, le tensioni sono accentuate dalla diversa appartenenza religiosa. Ma l’ostilità è data per lo più dagli effetti della secolare politica, adottata sin dall’epoca ottomana e in seguito riproposta dalle autorità mandatarie francesi e dai governi centrali di Damasco, di ripartire in modo non equilibrato le quote di potere locale e di distribuire in maniera iniqua le risorse del territorio. Sebbene non esista – come nel caso di Idlib – una comune appartenenza geografica e di sangue tra miliziani e abitanti, l’Is in Siria è riuscito a sopperire a questo parziale deficit cooptando clienti locali. I beduini a est e a nord di Salāmiyya e a est di Suwaydā’ sono usati dall’Is come avanguardia locale per inviare messaggi politici su scala più ampia. A loro volta i beduini – allevatori e un tempo nomadi – pensano di usare l’Is per rivalersi contro i loro eterni rivali, coltivatori e sedentari È una lotta per il potere, ma l’ideologia pan-sunnita e jihadista, con tutto l’apparato di proclami anti-sciiti, serve a entrambi per legittimare le loro azioni. Nel contesto urbano di Damasco, l’Is ha confermato questo atteggiamento durante l’offensiva nel campo palestinese di Yarmūk. Lo slogan dei jihadisti è stato «ora siamo a Damasco!». In effetti Yarmūk è un quartiere della capitale siriana e si trova a pochi chilometri dal palazzo presidenziale. La famiglia Asad al potere da oltre quarant’anni è alauita. E nella retorica semplicistica dello Stato Islamico, favorita da un’acuta polarizzazione «sunniti contro sciiti», l’assalto al cuore dell’alauismo politico incarnato nel Palazzo del Popolo degli Asad sarebbe stato perfettamente in linea con l’immaginario jihadista. I miliziani dell’Is sono entrati a Yarmūk dopo un accordo sottobanco con i loro cugini qaidisti della Nuṣra che dominavano parte del martoriato quartiere. Ma dopo alcuni giorni di combattimento e di consolidamento della loro avanzata, fermata solo in parte da una coalizione di milizie lealiste e palestinesi e da raid aerei governativi, l’Is si è ritirato e ha riconsegnato alla Nuṣra le chiavi di quella ormai ampia porzione di campo.
Anche se avessero sfondato le ultime linee di difesa a Yarmūk, i jihadisti non si sarebbero avventurati per le vie di Damasco. Perché, anche in quel caso, verrebbe a mancare il legame organico col contesto. Con l’esclusione di Mosul nel Nord dell’Iraq, nei grandi contesti urbani lo Stato Islamico non è finora mai riuscito a imporre il proprio controllo. Anche perché, a differenza della seconda città irachena, nei centri siriani già esistevano forze militari indigene più o meno strutturate e che in maniera esplicita incarnavano da più di un anno la causa della rivolta contro il potere costituito. Non è dunque un caso che da Aleppo orientale l’Is sia stato mandato via da gruppi di insorti.
In questi schemi di analisi rientrano a pieno titolo anche le zone a maggioranza curda. La comune appartenenza etnica è il principale fattore che distingue «chi è con noi e chi è contro di noi». A parte qualche eccezionale alleanza tra insorti arabi siriani e miliziani curdi, i due schieramenti non hanno dimostrato di voler combattere nella stessa trincea. Non soltanto perché il fronte curdo è dominato dall’ala siriana del Pkk, per anni usata da Damasco in funzione anti-turca, ma anche perché decenni di ostilità, esplicita e implicita, tra le comunità araba e curda non si cancellano in poco tempo. A livello regionale e al di là del fattore etnico, l’influenza turca sul Nord della Siria di fatto si estende anche alle aree a maggioranza curda. Dall’altro lato del confine, in Iraq, il governo curdoiracheno di Arbīl, che tenta di esercitare una tutela sui «fratelli» siriani, è legato a doppio filo ad Ankara. E questo gioco di alleanze e di pressioni è stato determinante nell’assicurare la vittoria curda a ‘Ayn al-‘Arab-Kobani e continua a essere cruciale nel sostenere le milizie curde opposte all’Is a sud di Ḥasaka e a ovest di Qāmišlī.
Come ogni potenza regionale che si rispetti e che intenda mantenere la propria influenza su un territorio contiguo ma straniero, la Turchia ha un atteggiamento estremamente pragmatico nel gestire i suoi sodalizi nel Settentrione siriano. Così come Damasco esercitò un ruolo egemone in Libano sin dal 1976 cambiando più volte i beneficiari della sua protezione, coalizzandosi o cooperando spesso con chi aveva combattuto fino al giorno prima, anche Ankara cerca dimantenersi in equilibrio tra il sostegno ai curdi contro l’Is e un appoggio indiretto all’Is, avendo a lungo facilitato, attraverso i suoi confini, il passaggio di uomini e armi diretti al gruppo jihadista. A febbraio scorso i militari turchi sono penetrati per diversi chilometri in territorio siriano, in un’area molto vicina a postazioni dell’Is, per evacuare soldati di Ankara a guardia della tomba di Süleyman Paşa, indicato come il nonno del fondatore dell’impero ottomano. L’operazione, ampiamente pubblicizzata dai media, si è svolta senza particolari incidenti in una delle zone più turbolente della Siria del Nord.
Dall’altra parte della Siria, al confine con la Giordania e con il Golan occupato, si ritrovano le stesse dinamiche di definizione della zona di influenza, questa volta da parte del regno hascemita e dei suoi alleati sauditi, americani e israeliani. La parola d’ordine per Giordania e Israele, che hanno tratti di frontiera in comune con le zone di guerra, è quella di assicurare che il conflitto non crei insta-bilità all’interno dei rispettivi territori nazionali. Amman ha da tempo aperto canali con tutte le parti in guerra, sia per avere in tempo reale un quadro completo degli eventi sul terreno sia per poter influenzare per quanto possibile le sorti del conflitto nel quadrante meridionale. L’Arabia Saudita considera storicamente il regno hascemita come una zona cuscinetto a protezione dei suoi confini settentrionali: un corridoio geopolitico, ma anche militare, per estendere il suo dominio oltre la Penisola Arabica. Gli Stati Uniti, sollecitati anche dagli alleati israeliani, hanno acconsentito ad avere un ruolo di primo piano nell’addestramento in Giordania di insorti della regione di Dar‘ā.
L’obiettivo non è quello di sfondare le linee nemiche, ben protette dall’esercito governativo, dai pasdaran e da Ḥizbullāh, e di puntare su Damasco, bensì di assicurare che in quella regione non abbiano la meglio formazioni estremiste come la Ğabhat al-Nuṣra. L’ala qaidista siriana è sì presente tra Dar‘ā e Qunayṭra ma, a differenza di Idlib, non rappresenta la forza capace di cambiare gli equilibri sul terreno. A causa del diverso contesto sociale, la Nuṣra a Idlib gode di un ampio consenso popolare mentre nel Sud non è mai riuscita a imporsi sugli altri gruppi armati. Questa formazione trova la sua forza nel tribalismo locale, che sin dalle prime manifestazioni pacifiche del marzo 2011 ha costituito il motore della mobilitazione popolare a Dar‘ā e dintorni. In tale ambito si inserisce l’azione degli attori esterni: i ribelli «moderati» addestrati dagli Stati Uniti in Giordania hanno un determinato ruolo, seppur marginale, nel contesto militare anti-regime del Sud e non sono stati ostacolati dalla Nuṣra; mentre a Idlib, come nel caso della milizia Ḥazm filo-Usa, sono stati spazzati via proprio dai qaidisti.
Per ciò che concerne l’influenza giordano-saudita nel Sud della Siria, gli insorti di Dar‘ā hanno conquistato il valico commerciale e frontaliero di Naṣīb negli stessi giorni in cui Idlib cadeva in mano ai miliziani anti-regime. In entrambi i casi, le forze governative avevano lasciato quasi sguarnite le posizioni a difesa del capoluogo nord-occidentale e del passaggio di confine con la Giordania. Più a ovest invece, verso le alture del Golan, il fronte lealista ha ben rafforzato nei mesi scorsi le sue linee: ma non per «aprire il fronte contro il nemico sionista», come ha più volte annunciato il governo di Damasco, bensì a protezione della fascia a sud della capitale. Dopo che i gruppi armati anti-regime avevano conquistato porzioni di territorio confinante con la zona controllata da Israele, in primavera la coalizione di truppe governative, pasdaran e Ḥizbullāh ha avviato una campagna militare presentata come offensiva, ma in realtà difensiva: all’avanzata iniziale contro postazioni di insorti, è seguito il repentino consolidamento della linea del fronte e la drastica riduzione dell’attività militare. Di fatto, a est e a nord di Qunayṭra è in corso una guerra di trincea che nessuno dei due belligeranti sembra aver l’intenzione di vincere.
Israele mantiene intanto la sua priorità strategica mirata a limitare ogni allargamento dell’influenza iraniana a est del Golan: così vanno letti i recenti raid aerei contro convogli militari di Ḥizbullāh epasdaran nell’area di Qunayṭra. I miliziani anti-regime siriano che da tempo operano a pochi metri dalla linea del ces-sate-il-fuoco del 1974 non costituiscono per Israele alcuna minaccia. E tra i due sembra esserci un tacito accordo di non belligeranza. In quest’area è attestata la presenza di qaidisti e jihadisti locali, spesso in lotta tra loro. Ma il loro ruolo finora è apparso secondario. Nessun legame organico tra Israele e questi gruppi è stato finora dimostrato.
Nella Siria fedele al regime
La Siria costiera e l’asse Damasco- Ḥimṣ-Ḥamāh è saldamente in mano all’alleanza decennale tra Asad, Ḥizbullāh, Iran e Russia. Ciascuno di questi attori esercita il proprio ruolo a seconda degli strumenti che ha a disposizione nei diversi contesti. L’elemento clanico-alauita è determinante, ma non è l’unico a definire lo stretto rapporto di dipendenza tra forze governative e milizie lealiste in parte della regione di Latakia, in quella di Ṭarṭūs, nella piana dell’Oronte che attraversa le campagne di Ḥimṣ e la città di Ḥamāh, e in alcune zone di Damasco. Nelle località dove i militari dell’esercito regolare siriano non sono presenti, sono stati creati da tempo gruppi di miliziani locali. L’esercito governativo è però presente anche in contesti, come Aleppo, dove l’elemento alauita non è preponderante. Qui il legame tra le parti è dato dal fatto che la forza militare si presenta come un contingente di protezione dalla minaccia esterna, rappresentata da insorti o jihadisti dell’Is, ma comunque descritti indistintamente come «terroristi». Ampi settori della popolazione di Aleppo sotto il controllo dei governativi manifestano una spiccata ostilità nei confronti dei miliziani presenti dall’altra parte della città, per lo più originari delle zone rurali. A quel che rimane dell’élite aleppina la protezione offerta dall’esercito di Damasco e dalle milizie lealiste appare assai più vantaggiosa e rassicurante rispetto all’idea di dover cedere quel poco di privilegi rimasti a «un branco di contadini arretrati e bigotti».
Anche gli ḥizbullāh libanesi riescono a giustificare la loro presenza in Siria facendo leva su un doppio registro. Da una parte, nelle zone a maggioranza sciita, non esitano a presentarsi come protettori dei luoghi santi e delle comunità locali. Altrove, come nel Qalamūn al confine tra Libano e Siria, nelle regioni di Ḥamāh, Aleppo, Damasco, Dar‘ā, Qunayṭra e Suwaydā’, sono riusciti a emanciparsi dalla dimensione esclusivamente confessionale e sono descritti come un contingente transnazionale contro l’estremismo sunnita. L’avvento dell’Is ha facilitato enormemente il compito dei teorici della propaganda di Ḥizbullāh nel mostrare la milizia libanese come baluardo difensivo di fronte alla barbarie jihadista. In Libano, i combattenti sciiti si fanno ritrarre con la doppia bandiera, quella nazionale e quella del partito. I loro «martiri» in Siria cadono in nome della difesa dell’interesse nazionale libanese, della comunità sciita, e della stabilità dell’intera regione. La disciplina e l’efficacia che i loro miliziani dimostrano in battaglia ha inoltre fatto guadagnare credito a Ḥizbullāh presso comunità non sciite: gli ismailiti di Salāmiyya, i drusi di Suwaydā’, i cristiani della regione di Ḥimṣ e persino alcuni sunniti del Qalamūn esaltano «l’eroismo» dei miliziani sciiti libanesi nelproteggere le loro comunità dal pericolo jihadista e qaidista. Un elemento che costituisce oggi una delle principali garanzie per la tenuta dell’influenza russoiraniana sulla Siria degli Asad.
Mosca e Teheran continuano a considerare prioritaria la tenuta del potere a Damasco per la salvaguardia dei loro interessi in Medio Oriente e sul Mediterraneo. Il loro sforzo è particolarmente evidente sul piano diplomatico e politico, nei consessi internazionali e nei tavoli di mediazione regionali. Ma anche sul piano del sostegno logistico e della presenza di consiglieri russi e iraniani in tutti i vertici dell’apparato militare e di controllo di Damasco. Il fatto inoltre che alcuni generali e numerosi ufficiali iraniani siano morti in battaglia in Siria dimostra la rilevanza dell’impegno militare della Repubblica Islamica nella guerra siriana. Per questi attori la priorità è proteggere la retroguardia orientale della regione di Latakia, e assicurare l’apertura dei corridoi Damasco- Ḥimṣ, Ḥimṣ- regione costiera, Ḥimṣ- Dayr al-Zawr, Ḥimṣ- Aleppo. Lungo queste direttrici si articola l’area di influenza russo-iraniana. La situazione militare ad Aleppo – come quella attorno all’aeroporto di Dayr al-Zawr nell’Est – è in stallo. E si ha l’impressione che, come in altri scenari, le parti in conflitto e i loro alleati esterni non abbiano interesse a modificare lo status quo. L’assedio portato dai lealisti contro i quartieri orientali e meridionali rimane parziale e non si esclude che l’intera questione di Aleppo sia considerata dai belligeranti come una delle carte geopolitiche di maggior valore da usare in eventuali futuri negoziati.

Fonte: Limes online 

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