La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 2 ottobre 2015

L'invasione che non c'è

di Marco Impagliazzo
C'è un paese un posto quasi all'incrocio fra tre continenti: Europa, Asia, Africa. È l’Italia. Un paese con una silhouette singolare, che si proietta in un mare da millenni luogo di scambi, di contaminazioni, di osmosi. Un paese con una storia ricca, complessa, talvolta agitata, i cui più grandi riferimenti letterario (Dante) e storico (Garibaldi) sono stati entrambi esuli, rifugiati, emigrati, gente che ha imparato a proprie spese «come sa di sale/ lo pane altrui, e come è duro calle/ lo scendere e ’l salir per l’altrui scale» 1.
Da un paese come il nostro, dalla storia grande e plurale, dalla cultura vivace e vitale, dalla secolare consuetudine all’incontro e al confronto con l’Altro, ci si sarebbe forse potuti aspettare un approccio diverso al fenomeno immigrazione. Uno sguardo più aperto e meno impaurito, un porsi intelligente e pragmatico, che quel fenomeno sapesse accompagnare e gestire.
Così non è stato, è doveroso ammetterlo.
In un rapporto complesso e condizionato da veti reciproci, l’opinione pubblica, i media, la politica si sono fatti cogliere impreparati di fronte a dinamiche che avrebbero potuto essere, se non previste, almeno affrontate via via, sul modello di quanto accadeva in altri paesi del nostro continente.
Gli italiani si sono anzi trovati a disagio con un tema che reclamava l’allargamento degli orizzonti tradizionali, il superamento di modi d’essere autoreferenziali e talvolta vittimistici. Tanto che, tra la fine del Novecento e questo scorcio di inizio millennio, si è spesso scelto di agitare lo spauracchio dell’immigrazione, vuoi per pigrizia mentale, vuoi per subdolo calcolo elettorale, dipingendo l’arrivo di chi era nato sotto un altro sole come una minaccia all’identità nazionale, come un processo da fermare prima che fosse troppo tardi. Ovvero si è preferito rimuovere il tema, spe-rando che le cose si sistemassero da sole, come tante volte nel nostro millenario itinerario storico. E magari immaginando che mettersi a sollevare questioni, a cercare soluzioni, a indicare percorsi, avrebbe significato perdere consenso tra la gente e contatto con gli umori del tempo. È stato proprio così, però, che si è abdicato alla comprensione dei propri giorni e al legame col presente e col futuro.
Nel cortocircuito delle idee, tra silenzio e allarmismo, si è persa infatti la possibilità di un discorso serio, razionale, fattivo su un evento di portata mondiale, su una sfida che sta segnando l’inizio di questo millennio. Lorenzo Bini Smaghi ha notato che i paesi che vivono meglio la globalizzazione sono proprio quelli che non nascondono la testa sotto la sabbia e trasformano in atout ciò che è un portato della globalizzazione, come l’immigrazione 2. Non mettendo a tema in modo serio e responsabile questa materia, si è mancato di valorizzare quelle piccole e grandi esperienze positive di accoglienza e d’inclusione che punteggiano la penisola e indicano un’integrazione possibile, radicata nella nostra storia e nel vissuto degli italiani.
L’integrazione è possibile. Già ora. Sotto traccia, mentre la rimozione o i toni emergenziali si contendevano gli umori del paese, tanti cittadini italiani e tanti immigrati hanno lavorato seriamente a un incontro, a una sintesi. L’associazionismo, il volontariato, le famiglie, gli enti locali, la scuola, il sindacato, i singoli muovevano verso l’Altro. E l’Altro si faceva sempre meno differente, meno altro, e sempre più simile al Noi – peraltro da sempre plurale – dell’Italia, testimoniato dalla «grande rapidità dell’assimilazione» messa in luce da Giampiero Dalla Zuanna 3.
In questi ultimi anni l’immigrazione ha cambiato volto. Si è aperta la stagione di una presenza più stabile, che vedrà tutti noi confrontarsi non tanto col nuovo arrivato, bensì con un uomo o una donna che avranno già trascorso una non piccola parte della loro vita qui in Italia. Entra in scena una presenza articolata e composita, fatta dei tanti che in tempi diversi hanno inteso scommettere sull’Italia e su un futuro migliore, dei tanti che continuano a farlo, assumendo sempre più i nostri tratti comportamentali, la nostra lingua, i nostri difetti, i nostri pregi.
L’immigrazione è un fenomeno da assumere sempre più come normale, strutturale, costitutivo del nostro profilo di paese. Da un punto di vista demografico. Ma anche economico (la presenza di origine straniera, di regola più giovane, è un asse portante della forza lavoro italiana). E culturale (basta pensare all’apporto positivo alla società che in genere manifestano le seconde generazioni).
Prendiamo la scuola. In un articolo per Avvenire ho scritto che questo snodo preziosissimo e assolutamente unico del nostro corpo sociale trasmette il nostropassato, indaga il nostro presente, ma rivela anche il nostro futuro. Parafrasando Andrea Zanzotto potremmo dire che la scuola – lui diceva «i bambini» – viene «dal futuro». È impressionante vedere come proprio nelle classi scolastiche – e dunque proiettati nel futuro – bambini, ragazzi, adolescenti figli di stranieri vivano già da italiani, parlino già da italiani, sognino già da italiani.
In fondo, lo scenario che tante volte abbiamo davanti è questo: un’integrazione già efficace, non sempre e non del tutto riuscita, ma comunque efficace. Un’applicazione concreta di quella feconda e continua «negoziazione» come base dell’incontro fra le culture di cui ha scritto Umberto Eco 4. La presenza di tanti non italiani che arricchiscono con il loro lavoro e il loro contributo umano e civile il percorso della società italiana ci offre l’immagine di un possibile e proficuo convivere fra diversi, ma uguali. Diversi per storia, uguali nei diritti e nella visione di un futuro comune.
Disperati o coraggiosi?
Nella percezione generale non si tiene conto della realtà anche nuova che è sotto i nostri occhi. Un esempio: molti migranti vengono definiti disperati. È il termine oggi più utilizzato dai media italiani per descrivere coloro che tentano l’attraversamento del Mediterraneo sulle barche gestite dai trafficanti di uomini.
L’anno scorso sono stati oltre 170 mila, in Italia. Non è una definizione corretta, perché chi intraprende il viaggio è spinto da una speranza, proiettato verso un cambiamento, convinto di poter trovare un approdo migliore per la propria esistenza. Soprattutto è una definizione comoda. Evita di porsi domande. Accomuna un insieme variegato e complesso in un’unica categoria tutta uguale. Di fronte alla quale sembra possibile solo dividersi tra quanti gridano all’invasione, e quanti – ingenui o buonisti – invocano la necessità di fornire accoglienza. In realtà ogni sbarco porta con sé una sfida geopolitica diversa, che va analizzata.
Occorre guardare ai paesi di provenienza, uno per uno, e comprendere quali fattori determinano la fuga. Si dovrebbe studiare l’itinerario seguito e chiedersi per quali motivi migliaia di persone sulla carta meritevoli di protezione internazionale siano costrette ad affidarsi alle mafie, spendendo fino a dieci volte il prezzo di un biglietto aereo e sapendo perfettamente di rischiare la vita o di essere ridotti in schiavitù. Come accade ai molti che dopo gli innumerevoli taglieggiamenti esauriscono le risorse per continuare il viaggio e restano bloccati lungo la strada.
Come gli stranded incontrati da Fabrizio Gatti ad Agadez, in Niger, la porta sahariana verso la Libia, e raccontati nel suo illuminante Bilal 5. Certo l’aumento del numero di persone «sbarcate» è forte. Nel 2013 furono 42 mila, provenienti da Siria (11 mila), Eritrea (poco meno di 10 mila), Somalia (3.550), Egitto (2.770). Nel 2014 l’impennata: 170 mila persone. I siriani riman-gono la prima nazionalità 42.323; subito dopo, ancora, gli eritrei (34.329), i 9 mila nigeriani, i quasi 10 mila maliani. All’8 giugno del 2015 le stime ufficiali contano 51.405 persone, con proiezioni che parlano di un nuovo record di circa 180 mila unità 6.
Sono molti? Sono pochi? Si configura un’invasione? Se l’Italia e i governi dell’Unione dovessero lavarsene le mani, e i migranti rimanessero tutti – poniamo – in Sicilia, la regione italiana di gran lunga al primo posto per sforzo di accoglienza, sì, si tratterebbe di un peso ingiusto e insostenibile. Se dovessero essere distribuiti equamente – in rapporto alla popolazione e alle capacità economiche delle varie province – sull’intero territorio nazionale, il peso sarebbe molto più sopportabile. Se fossero poi suddivisi nei 28 paesi dell’Unione Europea, o almeno in una metà di essi, probabilmente il fenomeno perderebbe ogni carattere di emergenzialità per rivelarsi gestibile e controllabile, sparendo dalle prime pagine dei giornali. Ma, attorno a questo tema, la logica, ormai da tempo è stata messa da parte.
Le cifre ingannano, specie quando sono urlate terroristicamente, e assolutizzate. Dei 170 mila sbarcati nel 2014, già più di centomila non sono più in Italia. Avevano altre mete: contatti, obiettivi, ricongiungimenti familiari da realizzare. La presunta invasione si dissolve rapidamente. E se si considera che molti migranti di più antica origine stanno lasciando il nostro suolo a causa della crisi, si scopre che il saldo migratorio è in pareggio o negativo. Il trend dell’immigrazione, per la prima volta dopo anni, è in decrescita, mentre aumenta il numero di giovani italiani che cercano all’estero opportunità professionali e realizzative. Un’ondata di partenze che sta nuovamente rendendo l’Italia un paese di emigranti, con l’impressionante spopolamento di intere zone del Mezzogiorno 7.
A spiccare tra i dati degli sbarchi è poi la provenienza. Il dramma della Siria, il perdurare dell’invivibilità eritrea, sono il nostro problema. Siriani ed eritrei costituiscono insieme più della metà del popolo dei barconi. Se solo una minima parte del fiume di parole e di dibattiti cui assistiamo da mesi si concentrasse sulle possibilità di individuare soluzioni umanitarie e politiche a queste crisi, davvero si compirebbero dei passi importanti verso la soluzione del problema. Il nostro, ma soprattutto il loro. C’è un’urgenza duplice: offrire tavoli di trattativa per la cessazione delle ostilità e individuare corridoi umanitari e luoghi protetti per salvaguardare la vita dei civili, in attesa della pace. Un lavoro difficile e lungo, ma più efficace di quella presunta soluzione che viene dipinta come panacea: affondare i barconi. Pacificazione e intervento umanitario divengano priorità della politica estera e di difesa dell’Unione, dell’Italia, di tutte le organizzazioni di buona volontà. Ci vorrà tempo ma occorre cominciare, perché quando i migranti sono giunti sulle coste libiche è troppo tardi: occorre agire «a monte».
Le migrazioni cambiano
Il mondo del dopo-guerra fredda è composto da persone in movimento. Se le migrazioni sono antiche come l’uomo, oggi hanno assunto proporzioni inedite. Assieme all’invecchiamento 8, rappresenteranno il grande fenomeno globale di questo inizio di terzo millennio. Dal 1990 al 2013 il numero delle persone che hanno lasciato il proprio paese d’origine è aumentato del 50,2%. Secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati e l’Organizzazione internazionale dei migranti, nel 2013 coloro che hanno lasciato il proprio paese per stabilirsi altrove erano 232 milioni di persone, cui occorre aggiungere un 10% di viaggianti non censiti. Si tratta del 3,2% circa dell’intera popolazione mondiale. Una percentuale non stratosferica.
Nella bella mappa pubblicata da Dan Smith nel suo The State of the World 9, il mondo viene colorato in base alla percentuale di migranti presenti nei singoli paesi. Si notano immediatamente i punti in viola, dove gli immigrati sono più del 30%: alcuni paesi del Golfo Persico, la Guyana, il Brunei. Poi gli Stati con oltre il 20%: Usa, Canada, Arabia Saudita, Australia, Libia e alcuni paesi dell’Europa centrosettentrionale. Poco più chiari gli Stati con percentuale tra il 10 e il 20%, e in bianco la maggioranza del globo, con percentuali inferiori al 10%. Lì si colloca l’Italia, con il suo 8,3%, poco più di cinque milioni di stranieri residenti. La vera novità è la caduta di attrattività fatta registrare dall’Europa meridionale e dall’Italia in particolare, che ha visto diminuire in cinque anni i nuovi ingressi per motivi di lavoro. La cosiddetta immigrazione economica, da noi, è scemata fortemente, rimpiazzata da quella di chi cerca protezione e rifugio. Si potrebbe dire che non è piu la ricchezza ad attrarre, ma la democrazia e il rispetto dei diritti umani. L’Italia si trova per la prima volta alle prese con un numero importante di richiedenti asilo. Una parte di quei 550 mila che nel 2014 hanno chiesto asilo in tutta Europa. In ogni caso non c’è un’esplosione, ma un cambiamento di motivazione e di qualità.
Percezioni distorte
C’è dunque un fenomeno da comprendere e da governare, impossibile da arrestare costruendo muri o barriere, ancor più velleitarie per una nazione circondata dal mare. Ma noi italiani lo osserviamo sgomenti. Decenni di uso politico del tema «stranieri» e di disinformazione hanno prodotto il più gigantesco fantasma che si possa trovare in giro per l’Europa. Una recente indagine dell’Ipsos circa la distanza tra le percezioni dell’opinione pubblica e la realtà, effettuata in tutta l’Unione con scopi comparativi, ha fatto emergere come nessun popolo europeo abbia una visione altrettanto distorta dell’immigrazione come noi italiani. In media, si reputa che gli immigrati siano quattro volte più numerosi del vero, in termini assoluti e percentuali. Si crede che i «clandestini» siano almeno quanti i regolari, e che gli ingressi siano in costante aumento, anziché – come accennato – in diminuzione. Si stenta poi a credere che tale diminuzione abbia nuociuto al bilancio Inps, ora che l’Istituto di previdenza ha risanato il suo bilancio, proprio grazie ai contributi a fondo perduto di molti stranieri. Infine, si è convinti che in generale la presenza straniera sia un costo piuttosto che una risorsa. I giudizi cambiano radicalmente quando gli intervistatori chiedono impressioni su stranieri lavoratori conosciuti direttamente: «L’immigrato lavoratore è descritto in termini molto favorevoli: se ne apprezza innanzi tutto la disponibilità a collaborare anche al di fuori delle proprie mansioni; se ne sottolinea la dedizione al lavoro, la serietà e la motivazione, che spesso sarebbero superiori a quelle degli italiani; se ne segnalano l’onestà e la correttezza. Nelle città dove c’è una maggiore familiarità con la fabbrica (Verona, Milano) il rapporto degli immigrati con i colleghi di lavoro italiani è descritto in termini molto positivi» 10.
Se ci affidassimo più all’esperienza diretta che alla propaganda saremmo meno prigionieri della paura e più lucidi nel cogliere l’opportunità anche economica di questo fenomeno. Il buonismo non c’entra davvero nulla. Il contributo economico degli stranieri presenti in Italia – una definizione corretta potrebbe essere quella di «nuovi europei» 11 – è notevole, quanto trascurata. Perché gli aspetti positivi non vengono sottolineati, mentre i fatti di cronaca che li coinvolgono sono sistematicamente amplificati. È come se della Sicilia si parlasse soltanto in relazione ai fenomeni mafiosi o dell’Italia unicamente a proposito della corruzione. Nel 2014 l’8,8% del pil nostrano è stato prodotto dai nuovi europei. Il saldo attivo an-nuale relativo alla loro presenza è per lo Stato italiano di circa 3 miliardi di euro. Lavorano a salari più bassi (993 euro mensili contro i 1.326 della media degli occupati italiani). Sono divenuti imprenditori. In 630 mila hanno aperto imprese con partita Iva, regolarmente registrate, controllate e controllabili, cioè trasparenti ed erogatrici di contributi e tasse, con un aumento, in cinque anni, del 21,3%, mentre il numero delle imprese italiane calava del 6,9%. I ricercatori della Fondazione Leone Moressa definiscono questa realtà «un contributo fondamentale per l’uscita dalla crisi. Le imprese nate da immigrati non rappresentano più una nicchia a bassa produttività ma un veicolo utile a creare sinergie con imprenditori locali e attrarre investimenti esteri» 12.
Dallo sgomento alla proposta. Uffici per richiedenti asilo in Marocco e in Libano
Ritorno a una domanda accennata in apertura. Perché il barcone? La risposta è semplice. Giungere legalmente in Europa ottenendo un visto e imbarcandosi su mezzi di trasporto di linea è sostanzialmente impossibile, anche solo per i ricongiungimenti familiari. Le frontiere sono chiuse. Eppure, sulla carta, i trattati internazionali, la convenzione europea dei diritti dell’uomo, gli ordinamenti nazionali considerano la protezione internazionale di un individuo sottoposto a grave rischio un diritto soggettivo riconosciuto. Crediamo fortemente alla necessità di dare asilo, ma lo concediamo solo a chi riesce a raggiungere il nostro territorio. In che modo non è affar nostro.
È a monte che occorre intervenire. Su tale base si fonda Humanitarian Desk, nome provvisorio di un progetto sperimentale pronto a partire, concepito in partenariato dalla Federazione delle Chiese evangeliche in Italia, dalla Comunità di Sant’Egidio, dalla Tavola valdese e interamente autofinanziato dai promotori.
Non si può infatti attendere inermi che masse di donne, uomini e bambini si riversino sulle coste del Mediterraneo dopo aver attraversato il deserto, in balia di aguzzini di ogni tipo, per attendere il giorno della traversata. Costata la vita, è bene ricordarlo, ad almeno venticinquemila persone fino ad oggi: tante sono state le vittime accertate di naufragi nel Mediterraneo dal 1988 ai giorni nostri 13. Quanti hanno necessità di lasciare il proprio paese perché minacciati da conflitti, violenze, persecuzioni, mancanza delle minimali condizioni di sopravvivenza, devono poter accedere agli strumenti che la comunità internazionale ha concepito da decenni per proteggere i civili dal «flagello» della guerra (secondo la definizione del preambolo della Carta dell’Onu). Hanno diritto a essere informati e a presentare la loro istanza. Questo deve avvenire prima del viaggio. Se non è possibile realizzare questo lavoro nelle zone di guerra o di maggiore pericolo è invece possibile creare sportelli, posizionati nei principali paesi di transito, che aiutino il migrante a conoscere i propri diritti e doveri, e a compilare l’istanza per la richiesta di visto: la chiave per entrare legalmente in un paese.
È infatti prevista dalla normativa europea la facoltà per i paesi dell’Unione di rilasciare visti con validità territoriale limitata, in deroga alle condizioni previste in via ordinaria dal codice frontaliero adottato con gli accordi di Schengen, «per motivi umanitari o di interesse nazionale o in virtù di obblighi internazionali» 14. In caso di accordi bilaterali o più larghi, tale «visto umanitario» può consentire l’accesso negli altri paesi coinvolti. I promotori di canali umanitari non avranno, ovviamente, il potere di rilasciare visti, ma forniranno agli uffici consolari italiani domande complete e selezionate.
Si comincerà con il Marocco, con due sedi operative, nella capitale Rabat, dove hanno sede l’ambasciata italiana, gli uffici di governo e l’Unhcr, e a Tangeri, uno dei grandi luoghi di concentrazione dei migranti provenienti dall’Africa subsahariana. Il contatto con i potenziali richiedenti asilo si realizzerà grazie alla collaborazione con associazioni locali già operative, come la Chiesa evangelica del Marocco, la diocesi cattolica di Tangeri, la Caritas, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). Ottenuto il visto, il soggetto richiedente potrà imbarcarsi su un volo regolare, eventualmente con il sostegno finanziario dei promotori. Una volta in Italia, se sprovvisto di alternative, potrà essere inserito nel sistema di accoglienza nazionale (il cosiddetto Sprar o altro) oppure avvalersi dell’accompagnamento di un apposito ufficio creato dai promotori che lo sosterrà nel prosieguo del suo progetto migratorio.
Il Marocco è stato scelto per la sua collocazione strategica nei flussi migratori, per la stabilità politica e gli ottimi rapporti con l’Italia e con l’Unione Europea. Sono in corso contatti con le autorità libanesi per la creazione di un analogo sistema in questo piccolo e generoso paese di 4 milioni e mezzo di abitanti che già accoglie quasi due milioni di rifugiati siriani. La sperimentazione prevede la concessione di mille visti umanitari in un anno. Si inaugurerebbe così una buona prassi che potrebbe in seguito essere estesa, ad opera di altri soggetti pubblici e non, se otterrà come è probabile i risultati previsti. Vale a dire un radicale miglioramento delle condizioni sia per i richiedenti asilo, che non saranno più soggetti a rischio e sfruttamento, sia per i paesi di destinazione, a partire dall’Italia, che potranno contare su un’identificazione certa, sulla selezione dei casi di maggiore vulnerabilità e fragilità, sulla programmazione degli arrivi.
Tra le prevedibili critiche a questa azione vi saranno senz’altro quelle di chi ipotizzerà l’assalto agli uffici da parte di milioni di «disperati» che vorranno usu-fruire dell’opportunità offerta. C’è tuttavia un difetto prospettico in questa apocalittica predizione, basata sull’assunto che le partenze avvengano ogni qual volta un migrante – magari immaginato seduto in un salotto davanti alla televisione – percepisce segnali di accoglienza da parte degli europei, mentre desisterebbe qualora ascoltasse dichiarazioni di altro segno che lo consigliassero di «rimanere a casa propria». I dati mostrano che i flussi sono totalmente indipendenti dalla maggiore o minore umanità dei programmi di salvataggio, in quanto seguono direttamente l’evoluzione interna dei conflitti e degli eventi persecutori. Del resto il passaggio dal programma Mare Nostrum, che aveva come scopo dichiarato, accanto al controllo delle frontiere, quello di salvare vite umane, a Triton, maggiormente mirato a scoraggiare i viaggi e meno attrezzato per i salvataggi – passaggio che ha determinato una tragica ripresa dei naufragi – non ha scoraggiato le partenze, che al contrario sono aumentate. Ricordiamo poi che il vituperato Mare Nostrum ha conferito all’Italia un riconoscimento di umanità e nobiltà da parte delle opinioni pubbliche dei paesi di partenza, utile a svuotare di senso e pretesti l’odio antioccidentale e il terrorismo.
Altre azioni immediatamente realizzabili
Sempre nell’ottica dell’azione «a monte», estremamente funzionale sarebbe un Ufficio europeo dell’immigrazione, da aprirsi in un paese nordafricano, in grado di compiere missioni conoscitive nelle aree di maggiore afflusso e incaricato di implementare vie di ingresso regolari nei paesi dell’Unione. Inoltre, si possono immaginare le seguenti iniziative: a) avviare un negoziato europeo per la revisione degli accordi di Dublino, specie di quelle norme che consentono di richiedere asilo esclusivamente nel primo paese europeo di arrivo; b) facilitare e allargare le possibilità di ricongiungimento familiare per coloro che sono parenti di rifugiati già presenti nei paesi europei; c) prevedere la possibilità di sponsorship da parte di associazioni, Chiese, privati per richiedenti asilo potenziali o già riconosciuti dall’Onu. Questi potrebbero contattare direttamente lo sponsor dal proprio paese di provenienza o dai paesi di transito (una sperimentazione sarebbe opportuna in Siria e in Iraq, data la tragicità della guerra in corso). Lo sponsor garantirebbe accoglienza e assistenza al rifugiato.
Scopo della mobilitazione è giungere all’eliminazione del fenomeno sbarchi. Tra gli obiettivi di chi scrive e della Comunità di Sant’Egidio non vi è assolutamente la promozione delle migrazioni. È noto il nostro intenso lavoro per convincere i giovani dei paesi del Sud del mondo – Africa, America centrale e meridionale, Asia – a desistere dall’illusoria prospettiva dell’altrove, per impegnarsi in patria a costruire un futuro per sé e per i più poveri 15. È immaginabile un mon-do in cui i cristiani possano recarsi alla funzione domenicale senza timore di essere attaccati e uccisi; dove i giovani non siano obbligati a prestare servizio militare a vita in regioni desertiche, puniti con la morte in caso di diserzione; dove cessino i bombardamenti quotidiani che stringono la popolazione civile, musulmani e cristiani, nella morsa mortale tra truppe del regime e gruppi armati più o meno avvelenati dal neototalitarismo islamico. Crediamo cioè sia possibile edificare una Nigeria della coabitazione interreligiosa, un’Eritrea più democratica, una Siria pacificata. Ma occorre un’azione mirata per ogni situazione. Il nostro impegno, dal Centrafrica al Burundi e al Kivu, va in questa direzione. L’appello Save Aleppo lanciato un anno fa da Andrea Riccardi e raccolto da tante personalità permane una delle rare piste concrete per far uscire un pezzo di Siria dall’incubo di un conflitto lungo ormai quanto la prima guerra mondiale, che ha generato l’incredibile numero di nove milioni di profughi. Non è un’utopia.
C’è oggi un deficit di riflessione politica, di operazioni di pacificazione, di azioni umanitarie per la protezione dei civili. In regioni, peraltro, dove l’Europa abbonda di coinvolgimento e responsabilità storiche risalenti al colonialismo, ai mandati, a frontiere ed equilibri etnici – si pensi a Siria, Iraq, Palestina – pesantemente e superficialmente modificati. Finché questi risultati di pacificazione e messa in sicurezza non saranno raggiunti, si deve offrire asilo a un numero congruo di persone in maniera coordinata e programmata. Per arrivare a zero sbarchi, senza che ciò significhi condanna a morire di guerra o di persecuzione.
Non sono certo i soggetti con sensibilità sociale – quelli spesso tacciati di buonismo – a compiacersi degli sbarchi. La cronaca giudiziaria ha mostrato chi ha interesse a che il popolo dei barconi continui a ingrossarsi: alcune imprese, cooperative e non, abituate a lavorare sull’emergenza, allergiche a regole e bandi; quegli imprenditori che brindano ai terremoti, alle alluvioni, alle catastrofi improvvise. Dimenticando il debito storico di un paese, il nostro, che ha nei cromosomi del suo sviluppo l’esperienza della migrazione.
Un padre del meridionalismo italiano, Giustino Fortunato, scriveva a inizio Novecento dalla sua Basilicata – che oggi accoglie volentieri molti nuovi europei a compensare lo spopolamento dei piccoli centri – a proposito dei suoi concittadini d’Oltreoceano: «Il miracolo nostro, mercé loro fu compiuto! Dal 1894 al 1906, un anno più che l’altro, mossero per il continente americano tre milioni circa di nostri fratelli, i quali annualmente trasmisero in Italia ora più e ora meno da 250 a 300 milioni di lire. Furon dunque tre miliardi e più che ci vennero durante quel tempo. (…) Nel solo mio Comune di Rionero ogni anno si riversa poco meno di mezzo milione da duemila suoi figli, parte residenti nell’Argentina, parte a New York, a’ quali, ora più vivo che mai, io mando, insieme col saluto della riconoscente ammirazione, il palpito del cuore. (…) Il mutamento così rapido delle nostre condizioni economiche e finanziarie sarebbe inesplicabile, se prescindessimo da un fatto veramente grandioso, di cui a ragione va superbo il popolo d’Italia: parlo dell’emigrazione, specialmente di quella per le terre di là dall’Oceano, che io ho sempre creduta, com’è, un elemento incalcolabile di civiltà e di benes-sere per il nostro paese. Essa ha scemato il numero degli omicidi, ha reso meno frequente l’abigeato, ha fatto più rade le sanguinose rivolte dei ceti rurali; ha ridestato nei più bassi strati sociali il desiderio e il bisogno dell’alfabeto. Ha annullato l’usura e ha permesso e permette a un gran numero di povera gente di non crepare di fame, e il pagamento delle imposte è possibile solo per opera degli emigrati. Anziché sognare imperi e colonie in Africa, pensiamo dunque a proteggere, a difendere, sia alla partenza sia nel viaggio e all’arrivo, le migliaia di nostri fratelli, i quali, non più rassegnati alla fame come a proprio retaggio, volontariamente solcano il mare infido, scendono a New York, Rio de Janeiro, Buenos Aires, e mandano in Italia, a furia di fatiche, da 150 a 200 milioni di lire» 16.
Un’ultima proposta
La responsabilità di tutti noi – istituzioni, politica, società, scuola, famiglie, media – è grande. Proprio perché il futuro è comune. Sta a tutti prendere sul serio la domanda di chi si avvia ad essere, in varie forme, e non necessariamente da un punto di vista giuridico, un nuovo italiano, una nuova italiana. Sta a tutti prendere sul serio il futuro. Sta a tutti vivere questo tempo come un tempo in cui fare una battaglia culturale e forzare la resistenza e l’inerzia che tante volte circondano il tema integrazione.
Mi sembra che in quest’ottica e con questo spirito si mosse durante il governo Monti il primo ministro per l’Integrazione della storia repubblicana, Andrea Riccardi, con cui ho avuto l’occasione di lavorare sui temi più specificatamente legati al fenomeno immigrazione, in una prospettiva di maggiore inclusione e di più esplicito riconoscimento del contributo apportato dalle comunità migranti al benessere dell’Italia. La presenza di un ministro per l’Integrazione ha costituito, seppure nel breve spazio del governo Monti, un punto di riferimento importante, in termini di visibilità e di operatività. Ha significato un presidio istituzionale a tutela di un territorio sino ad allora parzialmente sguarnito, ha acceso i riflettori sulla foresta che cresceva anche se essa faceva meno rumore dell’albero che cadeva, ha catalizzato speranze ed energie. La permanenza nell’esecutivo di un dicastero del genere, che magari accentrasse nelle sue mani altre competenze oggi sparse, ma comunque riferibili allamission dell’integrazione, avrebbe potuto far fare un salto di qualità al rapporto tra italiani di origine e non. E avrebbe costituito quella cabina di regia di cui l’Italia ha bisogno per sviluppare pienamente i pregi del modello «latino» di integrazione lanciato da Andrea Riccardi. Ecco l’idea dell’ex ministro: «L’integrazione italiana è, finora, la somma di milioni di adozioni. Pensando all’eccezionalità dell’adozione romana nel quadro della storia antica (per cui si poteva diventare facilmente cittadini dell’impero) vorrei dare al nostro modello integrativo il nome di modello “latino”. In esso tutto si tiene: la storia, ilpresente, il futuro. L’italianità è il rapporto con l’alterità. In esso confluiscono la comunicatività partecipe dei nostri contesti rurali (si veda il ruolo dei paesi in parte spopolati), la forza di una urbanitascolta e curiosa del mondo, una pietas cristiana. Certo, questo modello vuol dire un’integrazione poco istituzionale e molto familiare, con uno Stato poco al passo con i tempi. (…) Resta decisivo il passaggio da una cultura diffusa a una politica di Stato. L’integrazione necessita di una regia pubblica»17.
L’integrazione è, dunque, un itinerario non più eludibile. La sfida di oggi è quella di riflettere su come favorire l’inserimento stabile di uomini e donne che sono qui per rimanere, dimettendo il pensiero che siano di passaggio. I versi di Kavafis sull’eterno migrare degli uomini – «Hai detto: “Per altre terre andrò, per altro mare./ Un’altra città migliore di questa ci sarà”» 18 – si sono inverati qui e oggi, e le città migliori si sono rivelate, per tanti, proprio le nostre. Chissà che tale manifestazione di speranza e di ottimismo non debba spingerci a ripensare in positivo il nostro vivere insieme e consegnare un’Italia migliore alle prossime generazioni. Per far questo c’è urgenza di rivedere la legge sulla cittadinanza, tenendo conto che in parlamento sono già depositate alcune proposte di sua revisione al passo con i tempi. È un passo sempre più urgente e necessario per una seria politica di integrazione.
La nostra può essere una città migliore. Per chi viene da altre storie, per chi viene dalla nostra storia. Per chi costruirà, d’ora in poi, l’unica storia degli italiani di domani. C’è un gap da colmare, c’è una casa comune da edificare 19 . Al di là degli umori, dei luoghi comuni, delle parole gridate o superficiali. Perché la realtà – ed è la realtà che ci viene presentata in questo volume – ci dice che i tempi sono cambiati, sono maturi, che è giunto il momento di passare dall’emergenzialismoe dal silenzio all’integrazione.

Note:
1. Paradiso, XVII.

2. L. BINI SMAGHI, «Immigrati ed Economia: la prospettiva a lungo termine» , in Integrazione. Il modello Italia, a cura di M. I MPAGLIAZZO, Milano 2013, Guerini, pp. 21-34.

3. G. DALLA ZUANNA, «Le possenti immigrazioni dell’ultimo ventennio hanno danneggiato il nostro paese?», ivi, pp. 37-53.

4. U. ECO, «Conflitto o integrazione?», ivi, pp. 57-86 (vedi in particolare pp. 81 ss).

5. F. GATTI, Bilal, Milano 2007, Rizzoli.

6. Tutti i dati provengono da fonti del ministero dell’Interno. Per quanto riguarda il 2015 la Sicilia è la principale regione di sbarco (38.423), seguita da Calabria (6.410) e Puglia (2.772). I barconi partono in prevalenza dalla Libia (47.204), seguita dall’Egitto (2.291). Gli eritrei sono i più numerosi tra gli stranieri arrivati quest’anno in Italia (11.641); seguono somali (5.102) e nigeriani (4.767). Gli immigrati attualmente ospitati nelle strutture italiane sono circa 90 mila, di cui 77 mila adulti e il resto minori. La Sicilia è la regione che ne ospita di più (20%); seguono Lazio (11%), Lombardia (9%), Puglia e Campania (7%), Calabria, Emilia Romagna e Piemonte (6%), Toscana (5%).

7. Non solo giovani, per essere precisi. Sono migliaia gli anziani italiani che hanno scelto di trasferirsi in Marocco, nelle Isole Canarie, o altri luoghi del Sud, per la palese impossibilità di sopravvivere dignitosamente in Italia con pensioni insufficienti. Nella sola Lombardia, negli ultimi cinque anni, i pensionati iscritti nelle liste dei residenti all’estero sono saliti da 24 mila a 29 mila. In generale, nel 2013 si sono registrate 95 mila partenze per l’estero. Regno Unito, Germania e Svizzera le prime tre destinazioni. Cifre vicine agli anni dei grandi esodi, i decenni Cinquanta-Sessanta del Novecento. Allora a partire erano i meno «coltivati», mentre oggi sono coloro che hanno un titolo di studio più elevato. Si tratta ovviamente di migrazioni ben diverse da quelle di chi parte da zone attraversate da conflitti o con livelli di reddito molto bassi.

8. L’aumento del numero degli anziani in assoluto e in percentuale rispetto alla popolazione, evidentissimo in Occidente e in alcuni paesi in particolare, ossia Giappone, Germania e Italia, sta coinvolgendo tutti i continenti, ponendo nuove sfide di organizzazione sociale, economica, urbanistica.

9. D. SMITH, The State of the World, Oxford 2014, New Internationalist, p. 26.

10. La ricerca «L’immigrazione straniera: opportunità, risorse», problemi, realizzata da Ipsos Public Affairs è stata presentata al convegno Il lavoro è cittadinanza, Milano, 12/11/2013, ed è reperibile sul sito ufficiale dell’Istituto. Per i dati relativi a The index of Ignorance, indagine di Ipsos Mori del 2014, si può far riferimento a www.ipsos-mori.com/…/perceptions-are-not-reality.aspx

11. Si tratta di una definizione valida soprattutto per le seconde generazioni, cioè per i figli di non italiani nati in Italia, e per quanti hanno scelto di collocarsi stabilmente in Europa. Essa mette in luce la forte volontà di integrarsi e di contribuire all’avanzamento sociale ed economico delle società europee della gran parte degli stranieri, evidenziata dai principali studi sul tema. Parlare di «nuovi europei» fa superare quell’aura di estraneità che accompagna il termine «stranieri». Risultati meno felici dal punto di vista dell’integrazione si riscontrano non appena i «nuovi europei» sono concentrati in quartieri o zone isolati e lontani, com’è stato il caso delle banlieues parigine.

12. Il rapporto della fondazione Moressa è stato pubblicato nel marzo 2015. Le imprese straniere sono attive nei settori del commercio (34,5%), delle costruzioni (22,2%), dei servizi alle imprese (15,6%). Sono registrate soprattutto in Lombardia, Lazio ed Emilia Romagna, con netta prevalenza delle regioni centrosettentrionali. Gli imprenditori provengono da duecento nazionalità diverse, con in testa Marocco, Cina e Romania, a seguire Albania, Bangladesh, Germania, Francia, Svizzera, Egitto, Senegal. Cfr. il sito Internet della Fondazione e la Repubblica, 12/3/2015.

13. Cfr. su tutti fortresseurope.blogspot.it e G. DEL GRANDE, Il mare di mezzo, Modena 2010, Infinito Edizioni.

14. Regolamento (Ce) 810/2009 del 13/7/2009, art. 24.

15. Cfr. M. CARPIO, Sant’Egidio, Roma e il mondo. L’audacia dell’amore, per Rai storia.

16. G. FORTUNATO, Antologia dai suoi scritti, a cura di M. ROSSI DORIA, Roma-Bari 1948, Laterza, pp. 187-190.

17. A. RICCARDI, «L’Europa dei migranti. Modelli di integrazione» , in Integrazione. Il modello Italia, cit., pp. 89-109 (in particolare pp. 105-109).

18. K. KAVAFIS, La città.

19. Cfr. J. SACKS, The Home We Build Together, London 2007, Continuum.

Fonte: Limes online 

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