La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 3 ottobre 2015

La strage che l’Europa non vuole vedere

di Annamaria Rivera
Sono pas­sati due anni dalla strage di Lam­pe­dusa, una delle più gravi cata­strofi nel Medi­ter­ra­neo, quella che indusse a pro­nun­ciare il fati­dico «mai più», poi siste­ma­ti­ca­mente tradito.
Nel corso di que­sto bien­nio gli eccidi di migranti e pro­fu­ghi si sono mol­ti­pli­cati con ritmo incal­zante: sono almeno 2.900 le vit­time della «For­tezza Europa» nel breve periodo che va dallo scorso gen­naio a oggi.
Non­di­meno, rispetto a due anni fa, è suben­trata non solo «una certa assue­fa­zione», come si dice.
A ren­dere ancor più cupo uno sce­na­rio in cui si mol­ti­pli­cano con­fini coraz­zati, vagoni blin­dati, campi d’internamento, depor­ta­zioni, vio­lenze poli­zie­sche con­tro inermi, rista­gna in Europa una certa aria di negazionismo.
All’ampio movi­mento che soli­da­rizza atti­va­mente con i rifu­giati fa da con­tral­tare un’opinione pub­blica che nega o mini­mizza lo ster­mi­nio dei nuovi reietti oppure allon­tana la sua stessa idea come fosse una zan­zara molesta.
A sol­le­ci­tare la pie­tas ormai non bastano più le imma­gini atroci di cada­veri d’infanti uccisi dal proibizionismo.
Non c’è solo il nega­zio­ni­smo a com­porre quella che in un arti­colo pre­ce­dente ho defi­nito semio­tica del geno­ci­dio. Per coglierne un altro segno, basta sof­fer­marsi sull’istantanea, divul­gata dai media una decina di giorni or sono, che fissa una folla di donne e bam­bini assie­pata die­tro il reti­co­lato del «muro della ver­go­gna», al con­fine tra l’Ungheria e la Ser­bia. A ren­dere l’immagine ancor più inso­ste­ni­bile, in prima fila ci sono alcuni bam­bini che, stretti con­tro la bar­riera, le volute di filo spi­nato incom­benti sulle loro teste, strin­gono tra le mani dei giocattoli.
Altret­tanto intol­le­ra­bile è l’idea che più tardi almeno quat­tro bam­bini, per­duti dai geni­tori il 16 set­tem­bre a Hor­gos durante le cari­che bru­tali della poli­zia unghe­rese, sareb­bero stati trat­te­nuti per essere affi­dati a «strut­ture spe­cia­liz­zate». Ricordo che in quella occa­sione la poli­zia aveva fatto uso di can­noni ad acqua, lacri­mo­geni, pro­iet­tili al sale, anche con­tro donne e minori, e poi arre­stato un buon numero di profughi.
La cru­deltà per­fino verso i fan­ciulli non è la sola trac­cia a indi­care l’allarmante mimèsi di un pas­sato abietto che, come ha scritto recen­te­mente Bar­bara Spi­nelli, «si bana­lizza e rivive» gra­zie al «patto dell’oblio» che vige, di fatto, nell’Unione Euro­pea.
Il 23 set­tem­bre alcuni atti­vi­sti unghe­resi denun­ciano che a Zakany, vicino al con­fine tra Unghe­ria e Croa­zia, cen­ti­naia di migranti sono stati cari­cati su carri-merci chiusi, senz’acqua né cibo, per essere tra­sfe­riti verso il con­fine austriaco. Non è la prima volta che le auto­rità magiare com­piono, senza alcun pudore, atti che ricor­dano la depor­ta­zione degli stessi ebrei unghe­resi nel 1944.
Infatti, lo scorso luglio, a un treno che par­tiva da Pecs diretto a Buda­pest era stato aggiunto un vagone-merci chiuso, sti­pato di pro­fu­ghi, per­lo­più siriani e afghani, donne e bam­bini com­presi. «Que­sto vagone viag­gia con le porte chiuse», avver­tiva un car­tello appeso a un fine­strino. Per para­fra­sare Han­nah Arendt, ogni infa­mia è con­sen­tita pur di ridurre il far­dello degli indesiderabili.
Scene di tal genere e stragi di reietti sono desti­nate a mol­ti­pli­carsi dopo che il più recente ver­tice dei lea­der dell’Unione Euro­pea ha appro­vato un pac­chetto che ripro­pone «una stra­te­gia fal­li­men­tare», per dirla con Amne­sty Inter­na­tio­nal: nes­suna misura a garan­tire per­corsi sicuri e legali per i rifu­giati, nes­suna per rifor­mare il sistema di asilo.
Tutto quel che si è deciso va nella dire­zione oppo­sta: con­trolli più fer­rei delle fron­tiere; stra­te­gie di ester­na­liz­za­zione per tenere migranti e pro­fu­ghi fuori dal ter­ri­to­rio euro­peo; rigida distin­zione tra migranti «eco­no­mici» e pro­fu­ghi, a loro volta discri­mi­nati secondo la nazionalità.
E ciò in barba al prin­ci­pio, san­cito dalla Con­ven­zione di Gine­vra, per il quale il diritto alla pro­te­zione inter­na­zio­nale riguarda chiun­que abbia fon­dato motivo per temere d’essere per­se­gui­tato nel Paese d’origine.
Si aggiunga il lan­cio della seconda fase della mis­sione navale Euna­v­For­Med con­tro gli «sca­fi­sti», che pre­vede l’abbordaggio e l’affondamento in mare aperto dei «bar­coni», in realtà sem­pre più spesso null’altro che gom­moni auto-governati: in assenza di cor­ri­doi uma­ni­tari, una tal mis­sione si con­fi­gura come atto di guerra con­tro la mol­ti­tu­dine in fuga.
Altret­tanto per­versa è l’istituzione degli hotspot fina­liz­zati a iden­ti­fi­care, regi­strare e foto-segnalare i migranti, con lo scopo, in defi­ni­tiva, d’incrementare i rim­pa­tri. Chi si rifiu­terà di farsi iden­ti­fi­care finirà in cen­tri d’internamento e, in Ita­lia, in quelle strut­ture sini­stre, peg­giori del car­cere, che sono i Cie.
Come negli anni di cui parla Arendt, il campo d’internamento, qua­lun­que sia la sigla con cui oggi è nomi­nato, torna a essere «la solu­zione cor­rente del pro­blema della resi­denza delle displa­ced per­sons». Fra le quali, attual­mente, nume­rose sono le per­sone con bam­bini: dun­que, anche loro fini­ranno nei Cie se i geni­tori rifiu­tas­sero d’essere iden­ti­fi­cati? O saranno affi­dati a «strut­ture specializzate»?
Para­dos­sal­mente, «gli espulsi dalla vec­chia tri­nità Stato-popolo-territorio» (ancora Arendt) appro­dano, quando ci rie­scono, in un mondo dis­se­mi­nato di muri e bar­riere di filo spi­nato, ove risor­gono nazio­na­li­smi aggres­sivi, ove a difesa del pro­prio ter­ri­to­rio si arriva a schie­rare gli eser­citi, ove si com­pete fero­ce­mente per respin­gere il mas­simo pos­si­bile di migranti verso il ter­ri­to­rio del con­fe­de­rato più vicino.
I nazio­na­li­smi, a loro volta, sono pro­dotto secon­da­rio del sovra-nazionalismo armato a difesa delle fron­tiere pra­ti­cato per­vi­ca­ce­mente dall’Unione Europea.
È dun­que sul ver­sante delle migra­zioni e degli esodi che oggi si decide del destino dell’Europa unita, pro­get­tata nel dopo­guerra giu­sto per scon­fig­gere i nazio­na­li­smi, oltre che il colo­nia­li­smo e la crisi eco­no­mica: ovvero i tre grandi mali che ave­vano pro­dotto il fasci­smo, per citare ancora Spinelli.
È un destino dall’esito incerto, data la fra­gi­lità delle isti­tu­zioni comu­ni­ta­rie e la medio­crità delle élite dirigenti.

Fonte: il manifesto

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