La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 3 ottobre 2015

Ttip e commercio internazionale: chi detta le regole del gioco

di Leopoldo Tartaglia
Il tanto atteso voto del Parlamento europeo sulTransatlantic trade and investment parternship, meglio noto con il suo acronimo Ttip – il patto strategico su commercio e investimenti tra Unione Europea e Stati Uniti –, è stato alla fine rinviato(1). Il presidente Schulz si è avvalso di un articolo del regolamento per rispedire alla Commissione Inta la proposta di risoluzione (approvata in commissione con 29 voti contro 13, il 28 maggio, grazie al compromesso tra popolari e socialisti e democratici) e gli oltre duecento emendamenti che erano stati presentati in aula. Il casus belli è stato, in particolare, la questione del meccanismo di risoluzione delle controversie tra investitori e Stati (Investor-State dispute settlement – Isds), sul quale, per la verità, la contraddizione sembra attraversare soprattutto il gruppo socialisti e democratici. Questi ultimi, infatti, avevano votato a maggioranza, al loro interno, una posizione di netta esclusione dell’Isds dal Ttip – anche se lasciavano le porte aperte all’Isds nel già firmato accordo tra Ue e Canada (Ceta) (2).
Ma, grazie anche al ruolo decisivo della delegazione del Partito democratico, nella commissione Inta avevano poi votato un testo di compromesso coi Popolari che accoglieva la «nuova» proposta della commissaria Malmström per una sorta di Corte internazionale di arbitrato sugli investimenti.
Come vedremo, la questione della «protezione degli investitori», in cui si inserisce l’arbitrato Isds, è un tema centrale, ma non è certo l’unica e forse nemmeno la prevalente tra le preoccupazioni che, per stare al nostro campo, la Confederazione europea dei sindacati, il sindacato statunitense Afl-Cio e la Cgil hanno espresso con chiarezza nei loro documenti e nelle iniziative di pressione nei confronti dei governi e dei parlamenti.
Il sindacato Usa, tra l’altro, si è impegnato, finora con successo, nella campagna su un voto del Congresso probabilmente ben più decisivo: quello per autorizzare l’Amministrazione Obama al così detto Fast Track, consegnando al governo Usa il potere di siglare accordi commerciali sui quali il Congresso non ha più diritto di intervento se non per un voto finale, prendere o lasciare, senza alcuna possibile modifica. Obama lo chiede per l’accordo gemello del Ttip, la Trans pacific partnership (Tpp) (3) con altri undici paesi che si affacciano sul Pacifico, primo fra tutti il Giappone. Il negoziato è aperto da più lungo tempo – cinque anni contro soltanto due per il Ttip – ed è il primo in dirittura d’arrivo.
Ma, ovviamente, il Fast Track per il Tpp farebbe da apripista per quello sul Ttip. Del resto, gli accordi sono complementari e per molti versi sovrapponibili. Soprattutto, hanno lo stesso obiettivo – riscrivere le «regole del gioco» a livello globale – e lo stesso convitato di pietra: la Cina. L’amministrazione Obama non è riuscita a convincere la maggioranza dei deputati democratici e il Fast Track è deragliato – come ha efficacemente detto il presidente dell’Afl-Cio, Richard Trumka.
Resta aperto il nuovo tentativo di Obama di appoggiarsi esplicitamente alla maggioranza repubblicana del Congresso per ottenere un nuovo voto entro l’estate, ultima chance per rimettere in carreggiata il Tpp (e, a ruota, il Ttip).
1. Bilateralismo vs multilateralismo
I promotori degli accordi – l’Amministrazione Obama e, al di qua dell’Atlantico, la Commissione europea – non nascondono affatto il salto di qualità che questi «partenariati» si prefiggono rispetto ai già controversi trattati di libero scambio (Fta nell’acronimo inglese): la riscrittura tra paesi «avanzati» e «democratici» delle regole del commercio estero – e non solo del commercio – per poi farle valere sul piano mondiale, o in sede multilaterale – leggi Organizzazione mondiale del commercio (Wto nell’acronimo inglese) –, o con la proliferazione di altri accordi bilaterali – si veda, in questo campo, l’attivismo della Commissione europea (4) – o plurilaterali, tipologia di cui il Trattato sui servizi (Trade in service agreement, Tisa) (5) rappresenta l’esempio più significativo e pericoloso.
Dopo che la mobilitazione sindacale e della società civile e la ferma posizione dei governi dei paesi emergenti ha bloccato il negoziato Wto a Seattle (1999) (6), e dopo che la mobilitazione internazionale e l’opposizione anche di alcuni governi occidentali ha impedito l’approvazione dell’Accordo multilaterale sugli investimenti (Ami) (7), i governi del Wto, a Doha, hanno solennemente dichiarato di voler mettere le politiche commerciali al servizio dello sviluppo dei paesi meno avanzati, attraverso la cosiddetta Agenda per lo sviluppo di Doha (8).
Quel round negoziale ha vissuto un crescente stallo, dovuto soprattutto alla indisponibilità statunitense ed europea a rimuovere gli enormi sussidi ai loro agricoltori, garantendo – se così avessero fatto – la sovranità alimentare dei paesi meno sviluppati, così come un commercio più libero ed equo.
Dall’altra parte, i profondi cambiamenti nell’economia globale e il prepotente emergere delle economie dei cosiddetti Brics (9) e di altri paesi «intermedi» (10) hanno modificato i rapporti di forza intergovernativi all’interno del Wto, rendendo sempre più complicato il raggiungimento di accordi multilaterali di regolazione del commercio internazionale, mentre gli obiettivi di sviluppo rimanevano una sorta di foglia di fico dietro cui nascondere la spinta preponderante alla globalizzazione delle politiche neoliberiste, attraverso il libero commercio.
Il limitato e modesto compromesso raggiunto a Bali sulle facilitazioni commerciali (11), se apparentemente garantisce la sovranità alimentare dei paesi in via di sviluppo, in realtà obbliga i paesi più poveri a investire quote ingenti delle loro scarse risorse nell’ammodernamento dei sistemi doganali e di libera circolazione delle merci importate, senza nessuna contropartita vincolante sugli aiuti – economici, tecnologici, di competenze – necessari a questi adeguamenti e senza reali ricadute sulle loro possibilità e capacità di esportazione verso i paesi più ricchi.
I paesi dominanti la scena globale stavano, intanto, promuovendo un crescente numero di accordi bilaterali e plurilaterali, verso tutte le aree geografiche e in tutti i settori della produzione e dei servizi (si pensi al Nafta nel 1994 (12) e, sul versante Ue, agli Epa con i paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico), con maggiore attenzione – tra i paesi industrializzati – alla completa apertura e liberalizzazione di tutti i servizi privati e pubblici, visti come fonte di nuove possibilità competitive di investimento per il settore privato, esportazione e crescita.
Voluti per indebolire e condizionare i negoziati multilaterali, gli Fta bilaterali e tra regioni hanno contribuito al prolungato stallo del negoziatoWto, traendo poi da questo stallo una «giustificazione» alla ulteriore proliferazione di negoziati e accordi bilaterali.
La crisi economica e finanziaria, esplosa nel 2007-2008 e tuttora acuta in molti paesi avanzati, a partire dalla zona euro, e causa del relativo declino dei tassi di crescita nelle economie emergenti e in via di sviluppo, ha spinto i governi occidentali ad accentuare ulteriormente la propensione agli accordi bilaterali, come ipotetica via per l’aumento delle esportazioni e quindi della crescita, e come strumento per costruire nuove regolazioni (meglio de-regolazioni e liberalizzazioni) da far poi valere sul tavolo multilaterale.
Presentati con la promessa di risultati positivi per tutti i contraenti, nessuno di questi numerosi accordi di libero scambio si basa – come da sempre richiesto dai sindacati – su alcun credibile studio preventivo di impatto occupazionale e sociale. I risultati a posteriori (si veda ancora il Nafta) hanno evidenziato consistenti perdite di posti di lavoro nei settori e nei paesi esposti alla concorrenza, mentre non hanno certificato guadagni occupazionali stabili e di qualità nei paesi «controparte».
La Commissione europea – cui il Trattato di Lisbona conferisce la titolarità esclusiva dei negoziati commerciali e sugli investimenti – si è distinta negli ultimi anni per lo sforzo di allargare negoziati e accordi commerciali bilaterali, sostenendo esplicitamente che la via d’uscita alla recessione e stagnazione dell’Europa, e dell’Eurozona in particolare, risiederebbe nell’aumento delle esportazioni verso le altre aree geografiche (13).
Ma, il commercio internazionale è un gioco a somma zero: se da una parte aumenta l’export, dall’altra deve aumentare l’import. Ovviamente, il quadro è articolato e complesso: lo stesso paese può aumentare l’export in qualche settore e aumentare l’import in altri. La bilancia complessiva, alla fine, non può essere attiva per tutti. Se ci sono paesi in surplus commerciale, ce ne saranno sicuramente altri in deficit nella bilancia degli scambi.
Del resto, tutte le organizzazioni internazionali e lo stesso G20 – seppur con il linguaggio paludato della diplomazia – hanno nell’ultimo decennio spinto perché la Cina riequilibrasse il suo modello di crescita, riducendo l’enorme surplus estero a favore di un maggior peso del mercato interno, capace di assorbire sia capitali e prodotti cinesi, sia di importazione, dando maggior respiro ad altre economie costantemente in deficit nei suoi confronti.
Ma il problema è presente anche in Europa. Una politica economica trainata dalle esportazioni non fa altro che aumentare gli squilibri interni all’Unione tra le economie più forti e a maggiore esportazione, Germania in testa, e quelle più deboli, che semmai subiscono gli effetti negativi di alcune liberalizzazioni commerciali. Così come la progressiva apertura e l’interscambio con altre regioni del pianeta modificano i flussi dell’interscambio del mercato comune, che costituiscono tuttora circa il 65 per cento di import ed export dei 28 paesi europei.
2. Ttip: eliminare le «barriere non tariffarie», cioè leggi e regolamenti ambientali, sociali, del lavoro
È in questo contesto che si colloca il negoziato tra Ue e Usa per il Ttip. La Commissione europea ha presentato alcuni studi preliminari (14)sugli effetti dell’accordo e la prima osservazione è che – nella migliore delle ipotesi avanzata e propagandata dalla Commissione – saremmo comunque di fronte a un impatto macroeconomico modesto, con una ipotizzata crescita del Pil dello 0,5 per cento a regime, cioè non prima del 2027.
Ora se, tanto più di fronte alla crisi, qualunque incremento della crescita va apprezzato positivamente, le modeste previsioni a sostegno della necessità dell’accordo vanno considerate con attenzione, in relazione ai potenziali rischi. Tanto più che lo sbandierato aumento di posti di lavoro che conseguirebbe a questo incremento del Pil non risulta provenire da alcun serio studio preventivo di impatto per settori e paesi.
Agli studi «ottimistici» di fonte europea fa, peraltro, da contraltare uno studio della Tufts University di Boston, basato su un diverso modello econometrico, dal significativo titolo Ttip: disgregazione, disoccupazione e instabilità in Europa (15), secondo il quale il trattato avrebbe conseguenze negative sia per gli Usa che per l’Unione Europea. In Europa, in particolare, si avrebbero una riduzione delle esportazioni e del Pil, la perdita di circa 600.000 posti di lavoro, la riduzione delle entrate fiscali e una maggiore instabilità finanziaria, anche a causa delle distorsioni e delle modifiche del mercato interno europeo, dove una parte dell’attuale interscambio tra i paesi dell’Unione sarebbe rimpiazzata da un maggior import dagli Usa.
Del resto è noto e riconosciuto dai negoziatori che l’interscambio Europa-Usa rappresenta già oggi la quota proporzionalmente più rilevante del commercio globale e che le barriere tariffarie sono già ridotte a livelli significativamente bassi (16).
I vantaggi proclamati dalla Commissione e dalla Amministrazione Usa deriverebbero quasi esclusivamente dal voluto abbattimento delle cosiddette barriere non tariffarie, che altro non sono se non leggi, regolamenti, procedure oggi definite liberamente da ciascun paese, dai parlamenti dei paesi dell’Unione Europea e dal Congresso statunitense. Si tratta di un negoziato in cui è assolutamente preminente la dimensione regolatoria (anzi, de-regolatoria nelle intenzioni delle grandi imprese transazionali e di diversi settori politici delle due parti): facilitare, cioè, gli scambi commerciali intervenendo sulle regole fitosanitarie, sulle norme ambientali e del lavoro, sulle regolazioni poste dalle autorità locali e nazionali, sulle norme che definiscono la sicurezza dei prodotti o la loro efficienza energetica e così via.
3. Ttip e processi democratici
Si pone, in primis, la questione se sia accettabile che due sole amministrazioni – per quanto democratiche e alla guida di paesi o Unioni forti e importanti nello scacchiere globale – possano esplicitamente porsi l’obiettivo di determinare regole che poi andrebbero imposte a tutti nel contesto multilaterale globale.
Ma si pone, immediatamente, anche un problema di democrazia interna. Il negoziato è in corso da due anni in maniera del tutto segreta. Parlamento europeo e parlamenti nazionali – per rimanere da questa parte dell’Atlantico – sono sostanzialmente esclusi da ogni reale conoscenza e possibilità di influenza sull’andamento del negoziato. Il Parlamento europeo e i parlamenti dei 28 paesi membri saranno chiamati a un voto a negoziato concluso, con la formula del «prendere o lasciare», mentre le raccomandazioni che il Parlamento europeo darà con il proprio voto saranno gestite dalla Commissione e dai negoziatori della Dg Trade senza un reale controllo parlamentare.
Sindacati e società civile sono ancor più esclusi dall’informazione e dalla consultazione reale: non si possono definire in questo modo, infatti, gli sporadici incontri che la Commissione organizza con la società civile durante i quali – in poche decine di minuti – vengono date informazioni del tutto generali sui temi del negoziato. Al contrario, le potenti lobby imprenditoriali e di impresa hanno accesso quotidiano ai negoziatori, sono a conoscenza dei particolari del negoziato e influenzano pesantemente il suo andamento.
Come noto, il governo italiano, come presidente di turno dell’Unione, ma anche l’uscente commissario al Commercio De Gutch, si sono intestati il merito di aver fatto pubblicare il testo del mandato negoziale dato alla Commissione. Un testo, per la verità, che era trapelato, fin dalla primavera dello scorso anno, nelle maglie del web, diffuso da una delle tante Ong che fanno «i cani da guardia» al lavoro della Commissione.
La nuova commissaria, Cecilia Malmström, da parte sua, fin dall’audizione preliminare al Parlamento europeo, ha dichiarato di voler fare della trasparenza la sua bandiera. Ma resta il fatto inoppugnabile che la commissione Inta del Parlamento europeo e i componenti del «gruppo consultivo» della società civile, creato ad hoc dalla Commissione, hanno limitato accesso, come ogni parlamentare europeo, alla cosiddetta«reading room» dovo possono, appunto, soltanto scorrere i testi man mano elaborati dai negoziatori.
Ben altro accesso, se non ai testi ufficiali, a un rapporto confidenziale e stretto con la Dg Trade hanno le centinaia di lobbysti delle imprese europee che, come i loro colleghi d’oltre Atlantico, sono tra i principali sponsor del Trattato. Ma i pericoli per la democrazia e lo spazio di decisione politica dei governi, secondo le procedure democratiche di ciascun paese, sono ben più profondi e duraturi almeno per due dei meccanismi che il Ttip intende promuovere: l’istituzione di un Consiglio per la cooperazione regolatoria (Regulatory cooperation council – Rcc) e, come abbiamo visto, il controverso meccanismo di risoluzione delle dispute investitore-Stato (Isds).
Il Consiglio – organismo nominato dalla Commissione europea e dall’amministrazione Usa – dovrebbe sorvegliare sulle misure di «armonizzazione» delle legislazioni e delle regolazioni delle due parti e «prevenire» ogni futura modifica che possa avere conseguenze negative sulle decisioni di liberalizzazione commerciale contenute nel Ttip.
In altre parole, l’attuale corpus legislativo e regolamentare dell’Unione sarà sottoposto alla armonizzazione-convergenza con le leggi e i regolamenti statunitensi. Ogni futura iniziativa legislativa nell’ambito dell’Unione dovrà preventivamente essere vagliata da questo organismo «tecnico» del tutto autoreferenziale e privo di alcun mandato democratico. Alla richiesta della maggior parte dei cittadini per un’Europa più democratica e partecipativa, basata su organismi elettivi che rispondano ai cittadini, emersa con forza nelle elezioni per il Parlamento europeo dello scorso anno, come in tutti gli orientamenti dell’opinione pubblica continentale, si vorrebbe dunque rispondere creando un super organismo «tecnico» intercontinentale che prevarica sulle capacità legislative delle istituzioni democraticamente elette!
4. Se la multinazionale fa causa allo Stato
Il cosiddetto Isds, dal canto suo, è un meccanismo di arbitrato internazionale che sfugge a tutte le norme e i controlli di un ordinario sistema giudiziario. Introdotto fin dagli anni cinquanta in molti Trattati bilaterali sugli investimenti (Bit), partiva dalla necessità di «proteggere» gli investitori occidentali in paesi dove si presumeva il sistema legale fosse non particolarmente equo ed efficace.
Si giustificava con la necessità di dare all’investitore straniero le stesse opportunità dell’investitore locale di fronte allo Stato e alla legge, evitando qualsiasi discriminazione. In realtà, ammesso che le motivazioni fossero valide, l’esplosione nell’ultimo decennio di cause intentate da potenti multinazionali contro diversi Stati – incluse le democrazie avanzate – ha dimostrato che il meccanismo consente alle sole multinazionali (anche per le enormi somme che sulle controversie lucrano quattro o cinque ben avviati studi legali basati a Londra o Washington) di chiamare a giudizio Stati e governi – con risarcimenti di centinaia di miliardi di euro – perché provvedimenti di legge democraticamente definiti nell’interesse dei cittadini danneggerebbero, in maniera diretta o indiretta, i profitti che quelle imprese avevano preventivato all’atto dell’investimento a leggi (allora) vigenti.
Appare francamente patetico il tentativo della Commissione di giustificare un simile strumento come a favore delle piccole e medie imprese, che non hanno certo le risorse umane e finanziarie per accedervi e sarebbero quindi ulteriormente discriminate rispetto alle grandi imprese straniere. Solo per citare recenti esempi, la Germania è stata chiamata in causa dalla svedese Vatterfall per i danni che questa avrebbe subito dalla decisione di avviare la chiusura delle centrali nucleari; l’Australia dovrebbe risarcire Philip Morris per la legge che prescrive di indicare sui pacchetti di sigarette la nocività del fumo; l’Egitto deve rispondere a una richiesta di danni da parte della francese Veolia per aver deciso l’aumento del salario minimo.
Di fronte al rifiuto di alcuni governi (Germania e Francia; il governo italiano, come non manca di ripetere il viceministro Calenda, ha cambiato opinione, passando a una posizione favorevole, dopo l’iniziale rifiuto) la Commissione ha aperto una consultazione pubblica sull’Isds nel Ttip(già incluso, invece, nel Ceta sottoscritto con il Canada).
Probabilmente la Commissione non si aspettava il vero e proprio plebiscito contrario all’istituzione dell’Isds: su 150.000 risposte arrivate, ben il 97 per cento si è espresso contro questo meccanismo, grazie a una ben riuscita campagna da parte di diverse Ong, come la rete europea di Attac, od organizzazioni inglesi e tedesche.
Del resto, la rete europea No Ttip si avvia a raggiungere i due milioni di firme sotto una petizione contraria al trattato. Anche la Cgil ha partecipato alla consultazione sostenendo fortemente la posizione della Ces di netto e totale rifiuto di inserimento di qualsiasi meccanismoIsds nell’eventuale accordo Ttip, chiedendo di respingere con decisione ogni tentativo di inserimento di «nuovi modelli» di arbitrato. Non esiste alcuna ragione per accettare ipotesi di particolare «protezione» degli investimenti in Usa e in Europa; né si può in alcun modo sostenere che i sistemi legali europeo e statunitense non garantiscano efficace protezione degli investitori stranieri contro eventuali discriminazioni.
Va garantita la piena libertà degli Stati, secondo le loro procedure democratiche, di promulgare leggi e regolamenti nell’interesse dei cittadini senza sottostare al ricatto del possibile ricorso legale di un’impresa o di un gruppo finanziario privato.
Anche la giustificazione secondo la quale la clausola Isds sarebbe necessaria nel Ttip, così come avvenuto nel Ceta, per garantirne la presenza nell’accordo sugli investimenti ora in discussione con la Cina, appare del tutto immotivata. Da un punto di vista negoziale, non vi è alcuna ragione né clausola che impedisca soluzioni diverse per trattati diversi. Del resto, tra Europa e Usa – che sono tuttora le aree di maggior flusso reciproco di investimenti esteri – non esistono a oggi accordi contenenti clausole Isds a eccezione di 9 accordi tra Stati Uniti e altrettanti paesi dell’ex blocco sovietico, stipulati all’indomani della loro uscita dalla «cortina di ferro».
Da un punto di vista di merito, poi, l’insistenza della Commissione sulla necessità di una clausola Isds in un accordo bilaterale di investimenti con la Cina sembra non considerare a sufficienza che – nell’attuale contesto dell’economia globale e nella persistente crisi da austerità dell’Europa – non si tratta di «proteggere» gli investitori europei che andranno in Cina – e che, negli scorsi decenni, hanno investito significativamente nel «paese di mezzo», grazie alle politiche di attrazione del governo cinese e senza alcuno strumento per chiamarlo in causa in arbitrati internazionali.
Al contrario, è prevedibile – ed è poi l’obiettivo della Commissione – che un simile accordo favorirebbe l’aumento degli investimenti cinesi in Europa e un meccanismo Isds avrebbe l’effetto di consegnare ai fondi sovrani cinesi, cioè al governo di Pechino stesso, l’opportunità di chiamare in giudizio i governi europei per le loro legittime decisioni economiche, sociali e ambientali.
5. Diritti ambientali, sociali, del lavoro e servizi pubblici vs libero commercio
I fautori del Ttip accusano spesso i contrari – identificati in una non meglio definita opinione pubblica o negli interessi dei consumatori, mentre ben poca attenzione è data alle precise contestazioni del movimento sindacale – di paure irrazionali. Gli stessi media hanno concentrato l’attenzione sui pericoli degli Ogm piuttosto che sul pollo al cloro, pericoli, per la verità, ben presenti nella logica di «convergenza e armonizzazione» delle norme che, ad esempio, spazzerebbe via il «principio di precauzione» su cui si basano le norme europee in materia fitosanitaria, alimentare, dell’utilizzo delle sostanze chimiche.
I sindacati – con una posizione che ha finora costruito, in Europa, una sintesi positiva tra le attitudini tradizionalmente più liberocommerciali dei sindacati nordici e quelle più attente alle conseguenze sul piano dei diritti sociali dei sindacati latini, e una solida unità d’azione con l’Afl-Cio, e con i sindacati canadesi (17) – hanno indicato con chiarezza ulteriori elementi di salvaguardia politica e sociale irrinunciabili nel negoziato Ttip, come in quello Tisa, e dirimenti per la ratifica o meno del Ceta – ratifica che la Confederazione europea dei sindacati ha chiesto ai parlamentari europei di negare se la stesura finale sarà quella del testo attuale.
L’esclusione di qualsiasi liberalizzazione dei servizi pubblici essenziali (educazione, salute, acqua, energia, trasporto, poste…) e delle politiche di appalto pubblico, garantendo il pieno spazio politico di decisione dei diversi paesi su queste materie è la prima tra queste condizioni. In questo senso il Ceta costituisce un pericoloso apripista con l’introduzione della lista negativa – tutto si può portare a mercato, se non esplicitamente escluso – e della cosiddetta ratchet clause, che impedisce a un governo di decidere la ripubblicizzazione di un servizio precedentemente privatizzato.
Neppure accettabile, poi, è qualsiasi tentativo di regolazione, all’interno del Ttip, dei flussi migratori e della mobilità dei lavoratori, che trovano i loro ambiti di regolazione nel quadro dei diritti umani fondamentali e delle norme sociali e del lavoro definite dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil).
Ogni regolamentazione commerciale deve, secondo i sindacati, essere pienamente coerente con il quadro dei trattati e delle norme ambientali e verso le norme internazionali del lavoro dell’Oil, non dimenticando che gli Stati Uniti non hanno nemmeno ratificato tutte le Convenzioni fondamentali, a partire da quelle sui diritti di organizzazione sindacale e contrattazione collettiva, facendone un paese in cui la libertà di adesione al sindacato è ampiamente ostacolata, al punto che l’odierno tasso di sindacalizzazione non supera il dieci per cento della forza lavoro.
Gli investitori e le imprese invocano ulteriori protezioni, ma non sembrano riconoscere sufficientemente il loro dovere di attenersi, ovunque nel mondo, ai Principi Onu su imprese e diritti umani, e, essendo basate in paesi per la maggior parte dei casi aderenti all’Ocse, al pieno rispetto delle Linee guida sulle multinazionali varate dall’Organizzazione parigina.
Alla luce delle negative esperienze relative, ad esempio, al Fta tra Unione Europea e Corea del Sud (18), un eventuale accordo deve contenere, nel capitolo sulla sostenibilità, clausole vincolanti ed esigibili riguardo alle norme ambientali, sociali e del lavoro, azionabili in caso di violazione, allo stesso modo delle clausole commerciali.
6. Il governo italiano e il Ttip
La Cgil, come molte organizzazioni della società civile e di rappresentanza dei consumatori, ha chiesto al governo italiano di aprire un serio confronto con le parti sociali e la società civile per un’adeguata informazione e discussione sull’andamento del negoziato, partendo da una articolata e credibile valutazione congiunta dei possibili effetti sull’occupazione – settore per settore, regione per regione – e sul tessuto, in particolare, della piccola e media impresa.
Non è sufficiente, né saldamente ancorata, l’enfasi posta dal governo italiano sull’importanza dell’esportazione per il nostro paese: sappiamo, infatti, che delle decine di migliaia di imprese esportatrici, solo una piccolissima parte ha la solidità e la struttura per competere sul livello intercontinentale, mentre la maggioranza si muove su un ambito europeo o di maggiore prossimità e ha caratteristiche di grande fragilità, a partire dai problemi di accesso al credito, come – anche più in generale – di adeguatezza tecnologica.
Così come l’ispirazione «offensiva» del governo sulle «denominazioni geografiche» si scontra con il fatto che i negoziatori Usa hanno posto finora un chiaro veto alla modifica di denominazioni, magari promosse dall’attività imprenditoriale di nostri connazionali emigrati, il cosiddetto italian sounding (19).
Il governo italiano ha voluto caratterizzare il suo semestre di presidenza dell’Unione anche come momento di rivitalizzazione del negoziato, ma, assumendo una posizione sostanzialmente subalterna e acritica nei confronti di benefici tanto magnificati, quanto al momento non dimostrati, non sembra poter svolgere un ruolo particolarmente significativo né negli sviluppi del negoziato stesso, né nei rapporti con tutti i soggetti coinvolti, prestando attenzione quasi esclusivamente alle posizioni imprenditoriali.
7. Antiamericanismo vs europeismo
Mentre, sulle due sponde dell’Atlantico, l’opposizione al trattato e alle modalità del negoziato sta crescendo, come dimostrano anche le citate recenti vicende al Parlamento europeo e al Congresso Usa, in Italia e in Europa i fautori del Ttip non hanno argomenti migliori che tacciare i critici di antiamericanismo.
L’opposizione alle conseguenze del Ttip sarebbe dettata da vecchie posizioni ideologiche «anti-imperialismo» a stelle e strisce. Non si vogliono vedere, al contrario, le profonde motivazioni europeiste della maggior parte delle critiche e delle preoccupazioni avanzate. Si tratta, infatti, certamente per il movimento sindacale, ma anche per molte delle altre associazioni critiche, di difendere e promuovere nei fatti quel «modello sociale europeo» che la Commissione e i negoziatori affermano ogni giorno di ritenere tra i valori fondanti delle loro strategie negoziali, ma negano nella pratica del negoziato così come nelle politiche sociali e di bilancio dell’Unione.
Come è sotto gli occhi di tutti, l’Unione Europea è oggi di fronte a scelte fondamentali che ne mettono in discussione l’esistenza stessa. Si negozia il Ttip e si conferma il partenariato «strategico» con gli Stati Uniti, mentre la mancata disponibilità a prendere nella giusta considerazione politiche sociali ed economiche diverse per la Grecia stanno portando al limite di una possibile rottura – che sarebbe probabilmente irreversibile e con un effetto domino – della moneta unica e l’acquisizione della libertà di circolazione delle persone si scontra con l’erezione di nuovi muri – effettivi, come quello voluto dall’Ungheria, o di fatto, come quelli eretti dalle gendarmerie di frontiera francesi o austriache – di fronte a un modesto afflusso di profughi dalle aree della guerra e della fame del Medio Oriente e dell’Africa subsahariana.
La stessa alleanza «strategica» con gli Usa enfatizza le tradizionali divisioni di politica estera tra i 28 paesi dell’Unione e impedisce una politica unitaria e razionale nei confronti della Russia, certo violatrice del diritto internazionale in Ucraina, ma altrettanto partner necessario e naturale di un’Europa che guardi a Est non in termini di annessione, ma di cooperazione economica e politica. Quella stessa cooperazione che non è stata fatta e non si fa verso l’altro bacino naturale di convivenza e interscambio – non solo commerciale -, ovviamente: il Mediterraneo.
Chi mette in discussione il Ttip non lo fa contro l’Europa, ma, anche in questo caso, così come contro le suicide politiche di austerità, per un’altra Europa, democratica, sociale, proiettata con politiche di pace e di accoglienza in un Mediterraneo e in un’Eurasia che sono – questi sì – strategici per il presente e per il futuro.

NOTE:

* Leopoldo Tartaglia, già coordinatore del dipartimento Politiche globali della Cgil, coordina ora la sezione Politiche internazionali della Fondazione Giuseppe Di Vittorio.

1 Ci riferiamo alla seduta del 10 giugno 2015. Anche il dibattito è stato rinviato.

2 Il Comprehensive economic and trade agreement (Ceta) tra Unione Europea e Canada è stato firmato tra le parti alla fine del 2014 ed è ora nella fase di trascrizione legislativa prima del voto di ratifica dei rispettivi parlamenti. Si veda: ec.europa.eu/trade/policy/in-focus/ceta/.

3 Il negoziato Tpp riguarda dodici paesi della regione Asia-Pacifico: oltre agli Stati Uniti, Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam.

4 All’indirizzo trade.ec.europa.eu/doclib/docs/2012/june/tradoc_149622.jpg è visibile la map – pa degli accordi già siglati e dei negoziati in corso da parte della Ce.

5 Il Tisa è attualmente, segretamente, negoziato da: Australia, Canada, Cile, Colombia, Corea del Sud, Costa Rica, Hong Kong, Giappone, Islanda, Israele, Liechtenstein, Messico, Nuova Zelanda, Norvegia, Pakistan, Panama, Paraguay, Perù, Stati Uniti, Svizzera, Taiwan, Turchia, Unione Europea e Uruguay. Si veda: ec.europa.eu/trade/policy/in-focus/tisa/.


7 Si veda, ad esempio, la posizione unitaria dei sindacati metalmeccanici italiani: archivio.fiom.cgil.it/internazionale-old/forum/genovag8/ami.htm.


9 L’acronimo, per la prima volta coniato come Brics da un’analista di Goldman Sachs, indica le principali economie emergenti: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica

10 Si parla, oggi, dei Mint: Messico, Indonesia, Nigeria e Turchia

11 Per un giudizio più articolato della Cgil, si veda: http://www.cgil.it/news/Default.aspx?ID=21736.

12 Per una valutazione dell’Afl-Cio sul Nafta tra Usa, Canada e Messico, a vent’anni dalla sua firma si veda:http://www.aflcio.org/Issues/Trade/Nafta/Nafta-at-20.

13 Per un aggiornamento delle politiche commerciali della Commissione europea si veda: ec.europa.eu/trade/policy/ e in particolare la comunicazione Trade, growth & world affairs.

14 Si veda, in particolare, lo studio del Centre for economic policy research (Cepr) all’indirizzo http://www.cepr.org/content/indipendent-study-outlines-benefits-eu-us-trade-agreement.

15 Si veda Global development and environment institute, Working paper n. 14.03 The Trans Atlantic trade and investment partnership. European disintegration, unenployment and instability, disponibile in: ase.tufts.edu/gdae.

16 Tutti i dati ufficiali sull’attuale interscambio e sul flusso e lo stock degli investimenti esteri tra Ue e Usa si possono trovare sul sito della Dg Trade: ec.europa.eu/trade/policy/countries-and-regions/countries/united-states/.


18 Nel capitolo sullo sviluppo sostenibile del Fta Ue – Corea del Sud, sbandierato dalla Ce come punto di riferimento per una «nuova generazione» di trattati di libero scambio, sono previste procedure di verifica del rispetto dei diritti ambientali e del lavoro. Ma, poiché le violazioni non sono sanzionabili, né le procedure di verifica pienamente esigibili, la Ce è stata del tutto impotente di fronte alle flagranti violazioni dei diritti sindacali fondamentali nel settore pubblico in Corea, pur tempestivamente denunciate, nell’ambito del trattato, dai sindacati coreani ed europei.

19 Su questo e altri aspetti si veda il comunicato congiunto Cgil e Flai Cgil – Cia, http://www.cgil.it/News/Default.aspx?ID=22739.

Fonte: cambiailmondo.org

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