La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 2 ottobre 2015

Un layout del lavoro intellettuale

di Benedetto Vecchi
La sem­pli­cità dif­fi­cile a farsi. È da almeno due decenni che, in Ita­lia, sono all’opera case edi­trici, disco­gra­fi­che, cine­ma­to­gra­fi­che indi­pen­denti che vedono al lavoro tan­tis­simi «intel­let­tuali dai piedi scalzi» che non hanno timore di seguire strade poco bat­tute dall’industria cul­tu­rale main­stream. Sco­vano autori, musi­ci­sti, fil­ma­ker di qua­lità, lascian­do­gli una libertà nel loro lavoro impen­sa­bile in altri con­te­sti. Di que­sto lavoro die­tro le quinte, svolto dagli «indi­pen­denti», rimane poca trac­cia. Da alcuni anni, tut­ta­via, sono stati pro­prio loro a pren­dere la parola, nar­rando di orari di lavoro lun­ghis­simi, di pre­ca­rietà eco­no­mica, di auto­sfrut­ta­mento, di un regime fiscale che toglie il respiro, nono­stante i red­diti per­ce­piti siano poco sopra quella soglia minima sotto la quale si è «wor­king poor». La con­di­zione del «lavo­ra­tore cul­tu­rale» non è poi così lon­tana da chi vende il suo tempo a un call cen­ter, in un cen­tro com­mer­ciale, in una fabbrica.
Que­sta, tut­ta­via, è una rap­pre­sen­ta­zione ormai nota, ampia­mente discussa, pun­tua­liz­zata, sezio­nata in una sorta di auto­co­scienza che ha spesso nella Rete il medium pri­vi­le­giato. Ne sono infatti testi­moni decine di siti Inter­net, dove i «lavo­ra­tori cul­tu­rali» si «incon­trano» per chat­tare su quel fasci­noso intrec­cio tra stile di vita e lavoro che è il set­tore degli «indi­pen­denti», nono­stante la cro­nica pre­ca­rietà eco­no­mica che li con­trad­di­stin­gue. Anche se i loro rac­conti si con­clu­dono con l’affermazione che mai rinun­ce­reb­bero alla loro autonomia.
Poco cono­sciuta è la breve e feroce tas­so­no­mia delle dif­fi­coltà che ogni sin­gola impresa o coo­pe­ra­tiva «cul­tu­rale» incon­tra per avere una pre­senza sul mer­cato senza rima­nere stri­to­lata da veloci e potenti pro­cessi di con­cen­tra­zione nell’industria cul­tu­rale, disco­gra­fica e cine­ma­to­gra­fica che stanno deter­mi­nando, anche in Ita­lia, un assetto oli­go­po­li­stico tanto nella pro­du­zione che nella cir­co­la­zione di con­te­nuti. La fusione di Riz­zoli e Mon­da­dori ne è l’ultimo ecla­tante esem­pio. Dif­fi­coltà di distri­bu­zione e di punti ven­dita, in primo luogo. Le libre­rie chiu­dono, lasciando sul campo solo pochi punti ven­dita nelle mani di grandi gruppi edi­to­riali. Men­tre la rete, indi­vi­duata come il con­te­sto per aggi­rare le bar­riere poste dai grandi gruppi oli­go­po­li­stici, cono­sce ana­lo­ghe limite e non rie­sce a diven­tare il canale «alter­na­tivo» per la ven­dita di manu­fatti cul­tu­rali. C’è poi la que­stione del diritto d’autore, dive­nuta sem­pre più un dispo­si­tivo giu­ri­dico per gover­nare il mer­cato, favo­rendo i grandi e pena­liz­zando gli «indipendenti».
Pro­cessi accen­tuati dalla crisi eco­no­mica che ha por­tato a una ridu­zione «bio­di­ver­sità cul­tu­rale», all’interno di una dina­mica che vede autori — scrit­tori, sag­gi­sti, video­ma­ker e musi­ci­sti — sco­perti dagli «indi­pen­denti» cat­tu­rati dalle major una volta acqui­sito lo sta­tus della visi­bi­lità. Dina­mica, quest’ultima, che con­sente ai grandi gruppi di acqui­sire con­te­nuti rispetto a una domanda di con­te­nuti erra­tica e diver­si­fi­cata. E in dimi­nu­zione dato che i con­sumi cul­tu­rali sono i primi ad essere sacri­fi­cati in un regime di crisi eco­no­mica «permanente».
È in que­sto con­te­sto che si col­loca l’associazione Doc(k)s. Nata da una costola della casa edi­trice Der­ri­veap­prodi ha scelto la strada di una affi­lia­zione «larga», aperta cioè a tutti quei «lavo­ra­tori cul­tu­rali» che vogliono con­ti­nuare sulla strada dell’indipendenza, dotan­dosi tut­ta­via di stru­menti appro­priati per con­ti­nuare la navi­ga­zione con i pro­pri vascelli ribelli. Così il numero degli «affi­liati» è cre­sciuto nel corso di que­sti nove mesi del 2015. Doc(K)s ha anche orga­niz­zato semi­nari sulla sto­ria recente ita­liana, il «Book Pride» di Milano, cioè una fiera della pic­cola edi­to­ria, con­ti­nuando a tes­sere una rete che ha come nodi sin­goli lavo­ra­tori cul­tu­rali, scrit­tori, sag­gi­sti, pic­coli edi­tori, librai, video­ma­ker come quelli rac­colti nelle Offi­cine mul­ti­me­diali, cen­tri sociali.
Il nuovo appun­ta­mento, che pren­derà il via domani a Roma presso Mil­le­piani Cowor­king (Via Nicolò Odero 13, ore 10.30), ha per titolo «I fiori di Guten­berg» e come oggetto di ana­lisi il libro, la sua pro­du­zione, distri­bu­zione e ven­dita (il pro­gramma com­pleto è all’indirizzo:
//https://infodocks.wordpress.com/fiori_di_gutenberg/). L’elaborazione che ha por­tato al semi­na­rio ruota attorno a due ter­mini: coo­pe­ra­zione e indi­pen­denza.
L’indipendenza auspi­cata è quella dagli oli­go­po­li­sti, la coo­pe­ra­zione non va intesa come can­cel­la­zione delle diver­sità, edi­to­riali e impren­di­to­riali, bensì come con­di­vi­sione delle risorse e degli stru­menti pro­pe­deu­tici alla cir­co­la­zione dei con­te­nuti pro­dotti in autonomia.
Nello spi­rito del tempo
C’è però un non detto tra gli «indi­pen­denti». Una volta acqui­sito lo sta­tuto (pre­ca­rio) del lavo­ra­tore cul­tu­rale, c’è un peri­colo che la sua figura sia decli­nata come una variante di quell’«imprenditore di se stesso» che il pen­siero neo­li­be­ri­sta pro­pone come leva di una valo­riz­za­zione eco­no­mica del «capi­tale umano» e «cul­tu­rale» di pro­prietà del sin­golo. Da qui il rischio di entrare, una volta supe­rato il con­fine dell’indipendenza, nel regno dell’individuo pro­prie­ta­rio. Un rischio, ovvia­mente, che diventa cogente se si assume il fatto che il lavo­ra­tore cul­tu­rale con­tri­bui­sce anche a pro­durre imma­gi­na­rio, «senso», cioè con­tri­bui­sce alla for­ma­zione di uno «spi­rito del tempo». Da qui la neces­sità di aggiun­gere ai due ter­mini dell’incontro — coo­pe­ra­zione e indi­pen­denza — un terzo: con­flitto.
L’indipendenza può mani­fe­stare la sua «potenza» pro­dut­tiva e comu­ni­ca­tiva se è pro­pe­deu­tica a una con­te­sta­zione dell’ordine costi­tuito nella pro­du­zione di con­te­nuti, pun­tando a dis­sol­vere la neb­bia densa e inqui­nante di un unico ordine del discorso.
Solo così si può fer­mare la can­cel­la­zione della «bio­di­ver­sità» nell’industria edi­to­riale (in fondo i fiori di Gutem­berg ai quale allude l’incontro sono la pos­si­bi­lità di una fio­ri­tura di ini­zia­tive cul­tu­rali). E sol­tanto così si può comin­ciare a porre il pro­blema di una fuo­riu­scita dalle pos­si­bi­lità di ricatto e pre­ca­rietà che scan­di­sce la con­di­zione del «lavo­ra­tore cul­tu­rale». Cioè quella sem­pli­cità dif­fi­cile ancora a farsi.

Fonte: il manifesto 

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