La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 25 agosto 2015

La lingua madre è postcoloniale



di Vermondo Brugnatelli
La trama dell’ultimo romanzo dello scrit­tore maroc­chino Fouad Laroui, Un anno coi fran­cesi (Del Vec­chio, pp. 306, 16 euro), è ben sin­te­tiz­zata già dal titolo: tratta della cro­naca della prima espe­rienza da con­vit­tore in una scuola «fran­cese» da parte di un ragaz­zino cata­pul­tato, in virtù di una borsa di stu­dio, dal suo pae­sello sper­duto nelle cam­pa­gne di Béni Mel­lal alla eli­ta­ria scuola fran­co­fona Lyau­tey di Casa­blanca. Tutto viene nar­rato dal punto di vista di Mehdi, ado­le­scente laco­nico e intro­verso, appas­sio­nato della lin­gua fran­cese, forte let­tore e por­tato alle fantasticherie.
Nel corso della nar­ra­zione, realtà e fan­ta­sia si mesco­lano inces­san­te­mente; tutto ciò che è nuovo, e spesso incute spa­vento, viene vis­suto da Mehdi come un epi­so­dio epico di cui egli stesso è pro­ta­go­ni­sta: il custode è Gam­ba­di­le­gno, la bur­bera lavan­daia che cri­tica il suo magro cor­redo è un’orchessa minac­ciosa, il sor­ve­gliante che par­lava in modo strano «era forse un bre­tone come ne I due illusi?»; un torvo pro­fes­sore gli appare come «l’assassino dallo sguardo azzurro», men­tre ogni figura fem­mi­nile vista o evo­cata si iden­ti­fica per lui in qual­che eroina delle sue letture.
La scena di aper­tura, con il ragaz­zino di cam­pa­gna che si pre­senta gof­fa­mente nella scuola fran­cese por­tando con sé due tac­chini non può non richia­mare al let­tore ita­liano quella di Renzo coi suoi cap­poni. E per gran parte del romanzo la natura intro­versa del pro­ta­go­ni­sta lo fa appa­rire come un indi­vi­duo spae­sato e peren­ne­mente «fuori posto». Imper­cet­ti­bil­mente, però, pur tra mille gaf­fes e ten­ta­tivi fal­liti, anch’egli giun­gerà, un po’ alla volta, a capire qual­cosa di quello strano mondo e a tro­varvi una nic­chia per sé. L’abilità di Laroui sta pro­prio nel riu­scire a descri­vere que­sto lento pro­cesso senza appa­ren­te­mente dar troppo peso ai tanti, pic­coli muta­menti che inter­ven­gono, e che fini­scono per tra­sfor­mare il modo di pen­sare del ragazzo, che, con sua stessa mera­vi­glia, si sco­pre molto più affine ai «fran­cesi» di quanto si potesse sospet­tare all’inizio. Al punto che, quando, richia­mato in fami­glia per par­te­ci­pare a un matri­mo­nio, assi­ste a una rissa che coin­volge i clan dei due sposi, si ritrova a con­si­de­rare l’accaduto come un osser­va­tore esterno: «ebbe l’impressione che fosse un altro mondo, un mondo di con­fu­sione in cui tutto minac­ciava in ogni istante di crol­lare, molto distante dalle frasi ben fatte, dalla Kleine Nacht­mu­sik e dall’odore di cera».
Il modo di ragio­nare infan­tile che fil­tra il mondo attra­verso gli occhi di Mehdi non è sem­pli­ce­mente un espe­diente reto­rico ispi­rato al capo­la­voro di Saint-Exupéry: svol­gendo tutta la nar­ra­zione da que­sto punto di vista inge­nuo e sog­get­tivo, Laroui mette il let­tore in grado di cogliere, con leg­ge­rezza ma anche in modo assai effi­cace, qual­che cosa di valore più gene­rale: un assag­gio di quei pro­cessi che avven­gono nella mente di chi si stacca dal pro­prio mondo, misero ma ben cono­sciuto, per avven­tu­rarsi in un uni­verso di cui non ha che idee vaghe, for­mate su fra­gili basi. Pos­sono essere le let­ture romantico-avventurose del gio­vane Mehdi, ma anche gli echi del mondo «dei ric­chi» (dive, cal­cia­tori, case di moda…) che ormai giun­gono negli angoli più sper­duti del pia­neta attra­verso i media vec­chi e nuovi e costi­tui­scono spesso l’unico baga­glio dei migranti odierni. C’è chi, acce­cato dalle imma­gini più appa­ri­scenti, si aspetta di arri­vare in un paese di Ben­godi; altri, messi in guar­dia da solerti pre­di­ca­tori, temono il paese degli infe­deli, dagli usi empi ed ese­cra­bili. E per tutti il pas­sag­gio dalle idee pre­con­cette a una cono­scenza diretta e a un pro­gres­sivo adat­ta­mento è lungo, acci­den­tato e tutt’altro che lineare, anche più di quello del ragaz­zino del romanzo.
Nel gran par­lare che oggi si fa del «pro­blema» dei migranti, pochi rie­scono a vedere in cia­scuno di essi una sto­ria, una vita, una carica di uma­nità. Per chi non è a diretto con­tatto con loro è ben dif­fi­cile rap­pre­sen­tarsi i traumi cui essi vanno incon­tro stac­can­dosi dal loro mondo di ori­gine per inol­trarsi in un uni­verso di cui hanno sì car­pito qual­che bran­dello, ma che sono lungi dal cono­scere bene e che riserva ogni giorno sor­prese e novità. Un indub­bio merito di que­sto libro, per chi lo legga in modo non super­fi­ciale, è dun­que que­sto: pur senza mirare espli­ci­ta­mente a scuo­tere le coscienze, esso per­mette di intrav­ve­dere alcuni dei pro­blemi con­creti che a ogni passo incon­tra chi giunge in un paese euro­peo cono­scen­done ben poco, e avanza a ten­toni, cer­cando di capire e di integrarsi.
Molti sono gli aspetti del Marocco post­co­lo­niale che emer­gono dalla nar­ra­zione, pia­ce­vole e ricca di det­ta­gli inte­res­santi, pro­ba­bil­mente in parte auto­bio­gra­fici (anche Laroui si è for­mato al Lyau­tey). Tra que­sti, la curiosa situa­zione lin­gui­stica del ragazzo: il let­tore ha qual­che dif­fi­coltà a capire quale sia la sua «lin­gua madre», visto che il fran­cese, che egli maneg­gia molto bene, gli deriva comun­que soprat­tutto da let­ture e dal mondo dell’istruzione, ma, d’altra parte, il ragazzo appare sem­pre in grande dif­fi­coltà nel cogliere il senso dei lun­ghi discorsi dello «zio» Mokh­tar, che parla «un arabo dia­let­tale ricco e pit­to­re­sco, far­cito di detti gustosi, popo­lato d’immagini pro­ve­nienti dal fondo dei secoli». L’autore sem­bra attri­buire la colpa di tutto ciò a una con­di­zione di depri­va­zione lin­gui­stica della madre, che par­lava sì un arabo dia­let­tale, ma molto impo­ve­rito «qual­che frase, sem­pre le stesse: “man­gia!”, “vai a lavarti le mani!”, “È ora di dor­mire!”, “Hai fatto i com­piti?”», ma viene da chie­dersi se non si trat­tasse invece di un pro­blema rimosso del ragazzo: un incon­scio rigetto della lin­gua madre, con­si­de­rata «infe­riore» rispetto alle lin­gue let­te­ra­rie della cul­tura: un feno­meno tutt’altro che raro in ambito nor­da­fri­cano, in cui solo l’arabo clas­sico ed il fran­cese hanno rico­no­sci­mento e rispetto.

Dal libro emer­gono, tra l’altro, utili det­ta­gli rela­tivi al modo di vivere tra­di­zio­nal­mente la reli­gione isla­mica. Se gli aspetti più evi­denti e noti anche nell’Occidente si rife­ri­scono a norme come il divieto del vino o la severa segre­ga­zione dei sessi (i fran­cesi «li si ammi­rava per la serietà e l’efficacia, ma erano da bia­si­mare per la loro man­canza di reli­gione, e le loro donne erano troppo libere»), pochi hanno coscienza di quanto pro­fon­da­mente radi­cato sia tra i musul­mani il senso della soli­da­rietà e il dovere di aiu­tare e soste­nere il pros­simo. Che viene fuori, anch’esso di sfug­gita, quasi senza volere, in diversi punti del romanzo. Come quando un per­fetto sco­no­sciuto prende per mano il ragaz­zino sper­duto e lo aiuta a tro­vare un indi­rizzo, oppure quando il padre dà ospi­ta­lità ad un sen­za­tetto tro­vato per strada: «non si può mica dor­mire comodi sapendo che all’angolo della strada un povero vec­chio mal­con­cio dorme per terra, no? Tra l’altro, è con­tro la nostra reli­gione non fare niente. Biso­gna aiu­tare i poveri». Non siamo molto distanti da quello che dalle nostre parti (il mondo dei «fran­cesi») chia­mano «carità cristiana».

Fonte: il manifesto

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