La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

martedì 25 agosto 2015

L'ultimo treno per Budapest

di André Cunha
«Dove posso but­tare que­sto moz­zi­cone?» – ci chiede un migrante pre­mu­roso, lascian­doci un po’ per­plessi. «Non so, nean­che io sono di qui» – gli rispondo. «Lo butto lì, nel bidone della spaz­za­tura». «Io ne ho appena but­tato uno a terra» – dice uno degli abi­tanti di Sze­ged che sta lì con noi, nella piazza della sta­zione, dove poco fa la poli­zia ha lasciato circa 60 migranti in attesa del primo treno dell’alba con desti­na­zione Buda­pest. Par­tirà alle 4 e 36, fra circa 7 ore.
Dopo aver get­tato il moz­zi­cone nella spaz­za­tura il migrante torna, respira e pieni pol­moni e poi ini­zia a par­lare. Non si ferma più, non serve far­gli domande: «Volete che vi rac­conti la mia sto­ria? Sono par­tito da Dama­sco un mese fa, all’inizio di giu­gno. Ho supe­rato vari chec­k­point e sono andato in mac­china fino a Bei­rut. Ho preso un volo per la Tur­chia. Poi la nave fino in Gre­cia. Sono pas­sato da Atene, Salo­nicco, Poli­ka­stro e Evzo­noi. Abbiamo attra­ver­sato a piedi la fron­tiera con la Mace­do­nia. In Mace­do­nia siamo andati in bici­cletta, a piedi e in treno.

Anche in Ser­bia siamo andati a piedi e in treno, e anche in mac­china. E poi a piedi fino a quando la poli­zia unghe­rese ci ha preso. Abbiamo viag­giato con ogni pos­si­bile mezzo fino a qui».
«Dalla Tur­chia alla Gre­cia — pro­se­gue a rac­con­tare — siamo pas­sati in barca par­tendo da una spiag­gia vicino a Izmir e arri­vando all’isola di Chio. Io ho pagato 900 dol­lari ma altri rifu­giati arri­vati più tardi hanno pagato fino a 1500 dol­lari. Abbiamo avuto molta paura. Ci hanno por­tato di notte tardi. Ci hanno detto di star­cene com­ple­ta­mente zitti, che i bam­bini non pote­vano pian­gere, che non pote­vamo nem­meno accen­dere una siga­retta. Ancora in spiag­gia, ci siamo messi tutti il sal­va­gente e siamo entrati in una di quelle imbar­ca­zioni gon­fia­bili di gomma che – c’era scritto! — era, al mas­simo, per 30 per­sone. Era­vamo 46 adulti e 4 bam­bini. Quando siamo entrati tutti, abbiamo chie­sto ai traf­fi­canti: “Chi di voi viene a gui­dare la barca?”. E loro hanno rispo­sto che dove­vamo gui­darla noi. Nes­suno di noi sapeva gui­dare. Ci hanno dato un cel­lu­lare vec­chio e, dall’alto di una col­lina da cui ci tene­vano d’occhio, ci dice­vano, man mano che avan­za­vamo, al tele­fono, “sini­stra, destra”. Più di un’ora dopo siamo arri­vati su una spiag­gia di Chio. È stato un mira­colo, era­vamo molto con­tenti, era­vamo in Europa! Volete vedere il video? Ce l’ho qui nello smart­phone, guardate…»,
Ci mostra il finale di quel dia­rio di bordo visuale, prime luci dell’alba, la barca che arriva su una spiag­gia euro­pea. Poi alcune foto: una pano­ra­mica della spiag­gia inon­data da decine o addi­rit­tura cen­ti­naia di sal­va­genti di altri migranti sbar­cati lì prima di loro; un sel­fie, lui con un sor­riso enorme e l’imbarcazione semi distrutta sullo sfondo. «Il gom­mone ha imbar­cato acqua verso la fine della tra­ver­sata, nelle ultime miglia è quasi affon­dato», con­ti­nua lui.
Qui a Sze­ged, nella piazza della sta­zione, passa una bici­cletta, poi uno degli ultimi tram della notte. Numero 2, desti­na­zione: Európa liget, Parco Europa.
«Ma il peg­gio è venuto dopo, in Mace­do­nia, per via della mafia e dei traf­fi­canti. Credo che que­sti siano d’accordo con la poli­zia. Siamo stati assal­tati sulle mon­ta­gne. Ma è suc­cessa una sto­ria diver­tente. A un certo punto, il nostro gruppo, circa 10 per­sone, ha dovuto com­prare delle bici­clette per con­ti­nuare. Ne abbiamo com­prate tutti, a 125 euro l’una. Poi, quando era­vamo pronti per par­tire, uno di noi ha detto: “Ma io non so andare in bici­cletta!”. Sapete cos’è suc­cesso? Abbiamo pas­sato mezz’ora a inse­gnar­gli come andare in bici­cletta. Ha impa­rato in fretta e poi abbiamo con­ti­nuato l’avventura. Ha impa­rato ad andare in bici in mezz’ora! Alla fine, ieri notte siamo arri­vati in Unghe­ria. Abbiamo pagato 500 euro ai traf­fi­canti in Ser­bia per­ché ci faces­sero pas­sare la fron­tiera e se arri­ve­remo a Vienna dovremo pagarne altri 1000. È tutto molto caro, ma ne vale la pena. Sapete quanto ho già speso fino a qui? Quasi 3000 euro. Ma c’è un siriano che è riu­scito a com­prare un pas­sa­porto falso in Gre­cia, di un greco che gli asso­mi­gliava, sapete quanto gli è costato? 9000 euro. Un biglietto per un volo diretto in Ger­ma­nia! È stato caro, ma così è stato anche molto più facile. Io avrei fatto lo stesso…».
Una chia­mata da Dama­sco
Gli squilla il tele­fono. È un amico, di Dama­sco. Non risponde ma chiede se può appro­fit­tare del momento per pro­vare a chia­mare casa. Forse infatti a Dama­sco, dato che l’amico è riu­scito a chia­marlo, c’è l’elettricità. Rie­sce infatti a par­lare con la fami­glia solo quando lui trova una con­nes­sione wi-fi qui in Europa, e loro hanno la luce, là a Dama­sco, coin­ci­denza rara. Non parla con la madre da tre giorni, lei ancora non sa la sto­ria dell’ultima fron­tiera. Nem­meno que­sta volta sarà la volta buona.
«Ieri notte abbiamo supe­rato la fron­tiera a piedi. Poi c’era una mac­china che ci aspet­tava. Sta­vamo andando in mac­china da poco quando è arri­vato un uomo, vestito in bor­ghese e ha pun­tato una pistola alla testa del nostro auti­sta, che era serbo. Hanno gri­dato molto tra loro. Abbiamo avuto tutti molta paura. Poi è venuta la poli­zia e ci ha por­tati in com­mis­sa­riato. Siamo arri­vati lì alle 11 di sera e ci hanno dato qual­cosa da man­giare solo all’una di notte. Pane, una bar­retta di cioc­co­lato e una cara­mella. Dopo, ci hanno preso le impronte digi­tali di tutte le dita. Al com­mis­sa­riato ho avuto dav­vero molta paura. C’era un poli­ziotto che ha pic­chiato sulla testa un altro rifu­giato siriano e che gli gri­dava: “Ti metto in galera!”. E il mio amico siriano urlava al poli­ziotto unghe­rese: “E io vado a dire alle Nazioni Unite tutto quello che mi stai facendo!”. Noi stiamo scap­pando dalla guerra e dalla vio­lenza, non vogliamo affron­tare altra vio­lenza. E loro non ci hanno trat­tato con uma­nità. Io sono solo un essere umano».
Prima di accen­dersi un’altra siga­retta, ce ne offre una. Quel pac­chetto gli è costato 5 euro e gliel’ha ven­duto un poli­ziotto, al com­mis­sa­riato. Qui fuori, lo stesso pac­chetto costa 3 euro. Insieme alle siga­rette, nella borsa che tiene stretta con­tro la cin­tura, tiene un sigaro che ha pro­messo a se stesso di fumare una volta arri­vato alla desti­na­zione finale del viag­gio. Erano due sigari, il primo l’ha fumato alla par­tenza da Damasco.
«Non potevo con­ti­nuare a stare in Siria. Un mio cugino è stato rapito a un chec­k­point della poli­zia. Non c’è futuro. Avevo una fab­brica di asciu­ga­mani e tova­glie a Duma, vicino a Dama­sco, quando ero più gio­vane (adesso ha circa 30 anni, nda). Mi sono inna­mo­rato, mi sono spo­sato, mi sono sba­gliato. Poi è venuta la guerra e mi ha distrutto la fab­brica. Sono riu­scito comun­que, dal 2011, a fare l’università, in gestione azien­dale, men­tre nel frat­tempo lavo­ravo come ammi­ni­stra­tore di una banca. Non volevo lasciare la Siria, mia madre è tri­ste, sono il suo unico figlio maschio. Adesso lei e mio padre sono rima­sti soli con le mie sorelle. Ma non c’è niente da fare. Io non posso avviare una nuova atti­vità nel pieno di una guerra, in un Paese sotto embargo. Voglio costruire un nuovo futuro in Europa. Tra 4 o 5 anni voglio avere la nazio­na­lità svedese».
Fa una pausa, tenta di nuovo di par­lare con la madre, ancora invano. «A voi piace leg­gere? Dovete leg­gere uno degli ultimi libri che ho letto prima di lasciare la Siria. L’ho letto in una notte, tutto d’un fiato. Non riu­scivo a smet­tere. Lo scrit­tore si chiama Mou­stafa Kha­lifa e il titolo del libro è Al-Qawqa («La Con­chi­glia. I miei anni nelle pri­gioni siriane», Mustafa Kha­lifa, Castel­vec­chi Edi­tore, 2014: è il dia­rio roman­zato dell’esperienza di Kha­lifa, pri­gio­niero tra il 1982 e il 1994 del regime di Hafez-al-Assad). È incre­di­bile! È la sto­ria di un uomo che ha stu­diato cinema a Parigi e che al ritorno in Siria, è stato arre­stato dalla poli­zia poli­tica. È stato dodici anni in una pri­gione a Pal­mira. È una sto­ria vera, quell’uomo ora è in esi­lio. Dovete dav­vero leg­gerlo, que­sto libro».
Si inter­rompe di nuovo per andare a but­tare un altro moz­zi­cone nella spaz­za­tura. «Sapete una cosa? — riprende — Sono già dima­grito molto in que­sto mese. Guar­date la mia cin­tura, ho già stretto di due buchi. A volte non man­gio molto per­ché ho paura di non tro­vare un bagno decente dove andare… Pre­fe­ri­sco man­giare Snic­kers e bere Red Bull per avere più ener­gia. Ohi, volete vedere quant’ero grasso? Ho qui delle foto sul tele­fono, di quand’ero ancora a Dama­sco! Guar­date que­sta, al matri­mo­nio di un amico, tutti noi vestiti bene, in giacca e cra­vatta. Cac­chio, sono dav­vero più magro, no? Que­sto viag­gio è come fare dieta e sport allo stesso tempo! (grandi risate, nda). Dob­biamo man­te­nere l’ironia e l’ottimismo. I have a dream. I will make it!».
«Come ti chiami?».
«Moham­med».
«Io sono Balázs».
In quest’estate rita­gliata dal filo spi­nato, Balázs Sza­lai passa di certo più ore alla sta­zione dei treni di Sze­ged che a casa sua. Gior­na­li­sta free­lance sulla tren­tina, col­la­bo­ra­tore di Radio Mi e anche atti­vi­sta del Migszol, un movi­mento unghe­rese di soli­da­rietà con i migranti, Balázs non ha ascol­tato tutta la sto­ria di Moham­med per­ché quella notte non si fer­mava un attimo, affac­cen­dato in mille cose.
Era Balázs a orga­niz­zare con pochi altri volon­tari locali — il gruppo s’ingrandirà nelle set­ti­mane suc­ces­sive — la rac­colta di cibo per le circa 60 per­sone, inclusi una doz­zina di bam­bini, che sta­vano lì a con­tare le ore di attesa del primo treno verso il futuro. Era Balázs che, sem­pre con un sor­riso, cer­cava di spie­gare quello che sapeva a que­gli uomini e a quelle donne, tutti iden­ti­fi­cati da un brac­cia­letto verde e a cui la poli­zia aveva dato una let­tera, in unghe­rese, che diceva che ave­vano 3 giorni per pre­sen­tarsi a Debre­cen, il più grande campo di rifu­giati e richie­denti asilo del Paese, un campo già sul punto di esplo­dere in quel periodo.
Alcuni di loro ave­vano anche rice­vuto un foglio A4, una foto­co­pia in bianco e nero con­se­gnata dalle auto­rità con una car­tina dell’Ungheria in cui erano segnate Sze­ged, Debre­cen e Buda­pest. Ma quasi nes­suno rispetta l’indicazione uffi­ciale di andare verso il campo segnato: le desti­na­zione per tutti è prima Buda­pest e poi Vienna, risa­lendo il corso del Danubio.
La notte avan­zava, la colon­nina di mer­cu­rio si con­traeva sino a un punto tra i 10 e i 15 gradi, e la respon­sa­bile della sta­zione di Sze­ged comu­ni­cava a Balázs che, nono­stante l’anomalo calo di tem­pe­ra­tura, era neces­sa­rio chiu­dere la sta­zione e spo­stare «tutta quella gente in strada». Lui ribat­teva: «E se que­sta gente fosse qui a causa di un ter­re­moto?». Ma lei secca e tas­sa­tiva: «Que­sta non è un’emergenza». Quando poi sono arri­vati due poli­ziotti per ese­guire, in teo­ria, l’ordine di chiu­sura, lui stava lì con il suo smart­phone alzato a fil­mare tutto.
Quel tele­fono e gli occhi di Balázs for­ma­vano così un muro con­tro gli atti disu­mani, a volte pra­ti­cati sotto forma di eccesso di zelo. Era lui l’unico muro che difen­deva quelle per­sone. E quella notte, al con­tra­rio di tante altre, la sta­zione non ha chiuso e quei bam­bini non hanno dor­mito all’aperto.
Il pianto di Fatma
Nell’atrio, l’orologio ha già segnato la mez­za­notte. Da qual­che minuto Fatma e Ahmed dor­mic­chiano in brac­cio ai geni­tori, fami­glia scap­pata dalla regione di Qami­shli, nel Kur­di­stan siriano, vici­nis­simo a una delle tante linee del fronte dell’Isis. In tutta la notte, Fatma, 2 anni, è stata l’unica bam­bina che abbiamo sen­tito pian­gere, e sol­tanto per qual­che secondo.
C’è chi dorme in terra, avvolto in una coperta o den­tro un sacco a pelo dalla stoffa sporca e rovi­nata per il viag­gio; c’è chi si addor­menta seduto, appog­giato a uno dei pila­stri che sosten­gono il pan­nello delle par­tenze su cui si legge che il primo treno del mat­tino è quello che tutti aspet­tano, delle 4.36 per Buda­pest; altri si sie­dono sulle scale, con­ver­sano, si distrag­gono su inter­net o con gio­chi sul tele­fono. Ogni tanto, qual­cuno rie­sce a chia­mare la fami­glia, dall’altro lato della guerra, e all’improvviso si sente una voce rag­giante, ma a volume basso, una timida esplo­sione d’allegria, sottovoce.
Al secondo piano della sta­zione la scena si ripete. Se si toglie il con­te­sto, sem­brano sol­tanto un gruppo di viag­gia­tori che ha perso l’ultimo treno della notte e deve pren­dere il primo del mat­tino. Ma sic­come il con­te­sto c’è, ci intriga quella signora sola con il suo bastone. Dor­mic­chia su quella pan­china, avrà tra i 60 e i 70 anni: come sarà riu­scita ad arri­vare fin qui? «Anche i vec­chi vogliono vivere».
Tre e mezza di notte. Del pic­colo gruppo di atti­vi­sti che ha ini­ziato la notte di soli­da­rietà, ne resta solo uno, Balázs: un essere umano che tiene in mano un pen­to­lone con quasi dieci litri di tè per altri ses­santa esseri umani che a quest’ora avreb­bero voluto pren­dere un tè nelle loro case, se esi­stes­sero ancora, in quei posti in cui il tè è il san­gue della quo­ti­dia­nità. È quasi impos­si­bile che il tè di Sze­ged sfiori la qua­lità del tè di Dama­sco, Kabul, Sulay­ma­niyah o Qami­shli. Ma certo il suo sapore, rimarrà impresso nella memo­ria di que­ste per­sone. Riem­piamo i bic­chieri di pla­stica e Moham­med con alcuni com­pa­gni si occu­pano di distri­buirli al gruppo.
In un angolo, c’è ancora chi sta tra le brac­cia di Mor­feo. Moham­med si rivolge ad uno scor­bu­tico fer­ro­viere, il primo a cer­care di ese­guire l’ordine di chiu­sura e offre anche a lui un bic­chiere di tè. Anche lui è «solo un essere umano». Lui rifiuta, con lo stesso tono austero con cui qual­che minuto dopo ci avrebbe infor­mato che si doveva «met­terli tutti nell’ultimo vagone del treno».
«Parte fra qual­che minuto dal bina­rio 1, il treno con desti­na­zione Buda­pest», informa l’altoparlante.
Ci siamo già ser­viti l’ultimo tè. Si sente il traf­fi­care dell’ennesima par­tenza. Le ses­santa per­sone con cui abbiamo pas­sato tutta la notte fini­scono di acco­mo­darsi nei vari scom­par­ti­menti dell’ultimo vagone. C’è spa­zio per tutti, non sono ancora quelle imma­gini dram­ma­ti­che che più tardi sareb­bero arri­vate dalla Mace­do­nia di uomini, donne e bam­bini schiac­ciati den­tro ai vagoni come fiam­mi­feri in una sca­to­lina troppo piccola.
All’ultimo arriva una gio­vane unghe­rese tra­sci­nando il suo trol­ley lungo la ban­china, una vali­gia ben più grande di qual­siasi zaino con cui i migranti si por­tano la vita sulle spalle. Si pre­para per salire sull’ultima car­rozza del treno che sta per par­tire; il suo accom­pa­gna­tore la sta aiu­tando a cari­care la vali­gia ma ven­gono fer­mati dalla voce auto­ri­ta­ria del fer­ro­viere: «Lì no, nell’altro vagone!». Lei fa altri trenta metri e sale. In que­sto treno delle 4 e 36 per Buda­pest pare che sia que­sto fer­ro­viere a deci­dere, e non ogni pas­seg­gero, chi incon­trerà un fra­tello viag­gia­tore, chi incon­trerà “l’altro”. Migranti nell’ultimo vagone; unghe­resi, euro­pei, negli altri tre, quelli davanti.
Moham­med mi fa un cenno dal suo posto, men­tre alcuni dei suoi com­pa­gni di viag­gio allun­gano le brac­cia dai fine­strini per una stretta di mano finale a me, a Móni Bense, pro­fes­so­ressa e tra­dut­trice, che mi sta accom­pa­gnando in que­sto viag­gio lungo que­sto nuovo muro e, chia­ra­mente, a Balázs Sza­lai che fumava l’ultima siga­retta della notte, la prima del mattino.
Si sente il fischio della par­tenza, l’ondulazione delle brac­cia acce­lera, i sor­risi si mol­ti­pli­cano. «Good­bye!», «Thank you!», «As-salamu alay­kum!»…
A testa bassa, il fer­ro­viere ha già girato le spalle al treno in mar­cia, ma sulla ban­china, lo sguardo di Balázs si pro­lunga ancora sul bina­rio, seguendo quelle brac­cia che smuo­vono l’orizzonte. Il viag­gio con­ti­nua, per chi va e per chi resta. Moham­med e Balázs si sono pro­messi ami­ci­zia su Face­book, wall-to-wall. 

Fonte: il manifesto
Originale: Osservatorio Balcani e Caucaso
Ha col­la­bo­rato Móni Bense
Tra­du­zione dal por­to­ghese di Serena Cac­chioli

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