La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 18 settembre 2015

Polonia, la fine di Solidarność e il referendum sugli immigrati

di Daniele Stasi
L’accordo stipulato trentacinque anni fa ai cantieri “Lenin” di Danzica tra i rappresentanti del governo e quelli del sindacato libero Solidarność segnava l’inizio del lungo e difficile dialogo, sfociato negli incontri della tavola ovale del 1989, tra la nomenclatura comunista e le forze di opposizione riunite intorno alla figura carismatica di Lech Wałęsa. 
Nell’agosto di quel 1980 i rappresentanti del governo, arrivati a Danzica con molto scetticismo e poche idee sul da farsi rispetto a una situazione che pareva essergli sfuggita di mano, sottoscrissero i ventuno punti proposti da Wałęsa e i suoi. Si trattava di ventuno rivendicazioni elaborate sulla base di una piattaforma comune tra diverse forze di opposizione giunte alcuni giorni prima nella città sul Baltico. 
Di queste forze facevano parte dissidenti e intellettuali noti all’estero e temuti dal regime, tra gli altri Tadeusz Mazowiecki, primo premier non comunista dei Paesi del patto di Varsavia, Bronisław Geremek, storico di vaglia, in seguito ministro e deputato di lungo corso nella Polonia libera. 
La base rivendicativa dello sciopero di Danzica non era limitata soltanto a questioni inerenti all’organizzazione del lavoro e alla corresponsione dei salari in uno dei fiori all’occhiello dell’industria pesante della Repubblica Popolare ma metteva insieme diverse istanze e un ampio spettro di proposte tali da rappresentare la voce di un “contropotere” non diviso, com’era stato in passato, tra mille rivoli corporativi e settoriali. 
La solidarietà tra questi movimenti e il dilagare della protesta su tutto il territorio nazionale furono gli elementi che contraddistinsero gli scioperi dell’agosto del 1980 dai precedenti. Per dare la giusta enfasi a questa novità nella lotta nei confronti del regime, uno storico di sinistra, Karol Modzelewski, figura di spicco della dissidenza polacca e tra i promotori della lotta a Danzica, propose di chiamare il sindacato libero che stava nascendo “Solidarność”: Solidarietà.
In quell’agosto di trentacinque anni fa la firma in calce del vicepresidente del consiglio al testo che sanciva l’avvenuto accordo e il sostanziale accoglimento da parte del governo delle rivendicazioni di Solidarność costituiva il punto di non ritorno nella politica della nazione considerata da Stalin l’anello debole della catena delle repubbliche popolari amiche di Mosca.
Dopo gli accordi di Danzica, il proseguire del dialogo tra regime e sindacato, o il retrocedere da quella piattaforma d’intesa per motivi di politica estera, avrebbe significato creare in ogni caso una situazione del tutto nuova: l’uscita dal sistema pseudo pluralista e in realtà monopartitico autoritario in favore di un modello sostanzialmente di tipo liberale oppure, come avvenne, l’instaurazione di una dittatura più dura e asfissiante allo scopo di imbavagliare l’opposizione ed evitare l’intervento dei carri armati sovietici. Una dittatura che, oltre a sopprimere le voci di dissenso, accentuò la disgregazione della società polacca e il disfacimento della sua economia.
Cosa rimane di quella stagione e di quel movimento che aveva fatto tremare le vene ai polsi dei governanti polacchi stretti tra la morsa di rivendicazioni da parte del sindacato sostenute da larghi settori della società civile e la paura di subire un destino come quello dell’Ungheria del 1956 e della Cecoslovacchia del 1968? 
Trentacinque anni dopo Lech Wałęsa, ha deciso di non partecipare ai festeggiamenti in ricorrenza della sottoscrizione degli accordi ai cantieri “Lenin”. Isolato e spesso dileggiato, Wałęsa è ormai una figura nota e stimata più all’estero che in patria. Dopo l’esperienza, per certi versi disastrosa, di Presidente della repubblica dal 1990 al 1995, il leader di Solidarność ha inciso poco sulla politica della cosiddetta Terza Repubblica, cercando di ritagliarsi un ruolo di padre della patria che il più delle volte, per le sue sortite ai limiti del grottesco, gli ha procurato il sarcasmo e l’irritata reazione da parte dell’opinione pubblica. 
Sono note e costituiscono materia di sberleffo, soprattutto tra i più giovani che vorrebbero dimenticare gli anni difficili in cui Wałęsa fu protagonista, le tirate, spesso proclamate in terza persona, del premio Nobel per la pace sulla storia del dopo ’89, sul suo voler scimmiottare Piłsudski (il dittatore fra gli artefici della rinascita della Polonia nel 1918), sulle sue geniali doti di stratega e sulla sua presunta abilità nel costruire relazioni con gli oramai ex potenti della terra che dovettero a suo tempo guardare con un’attenzione frammista di simpatia e curiosità a quest’uomo la cui carriera è da considerarsi, ad ogni modo, stupefacente. L’ex Masaniello sulla Vistola, straordinariamente efficace nel suo ruolo di capo popolo carismatico con la spilla della madonna di Częstochowa perennemente bene in vista sul bavero della giacca, ha provato a candidarsi diverse volte e inutilmente alla carica di Presidente della repubblica dopo il 1995 dimostrando, nel corso delle diverse campagne elettorali cui ha partecipato e nelle sue interviste, di rappresentare assai bene la Pologne profonde: quella parte della società polacca premoderna, dai valori arcaici, caratterizzata da inquietudini e da paure nei confronti di tutto ciò che appare diverso o che sembri minare il solido connubio tra il clericalismo dominante e l’identità nazionale.
Accanto a Wałęsa, in quell’agosto di trentacinque anni fa a Danzica, vi era il già ricordato Tadeusz Mazowiecki, intellettuale cattolico di sinistra, scomparso due anni or sono. Di lui si ricorda, oltre al fatto di essere stato avversario di Wałęsa nella campagna per le presidenziali vinte da quest’ultimo nel 1990, la riforma dell’economia, promossa dal suo ministro Balcerowicz, rivelatasi una vera e propria cura da cavallo di tipo neoliberista, che ha fatto strame dei diritti sociali e a causa della quale lo Stato polacco ha dovuto disfarsi di molti gioielli di famiglia, le diverse industrie statali che raggiungevano punte di eccellenza nella produzione ancora nel 1989. Geremek, scomparso qualche anno in seguito a un incidente stradale, aveva rappresentato, sia all’interno di Solidarność sia sulla scena politica generata dalla svolta dell’89, l’antitesi di Wałęsa. Intellettuale dall’eloquio prudente, moderato, votato alla ricerca del dialogo e del compromesso il primo, personaggio per antonomasia di lotta e di rottura, alieno dalle forme della politica in un sistema liberaldemocratico, il secondo. Geremek, come del resto Mazowiecki, aveva cercato di supplire al ruolo di padre della patria, pur non avendone né il carisma né le physique du rôle, lasciato scoperto dall’eccentricità e dalla febbrile ricerca del consenso sulla sua persona dell-ex elettricista di Danzica. 
Dalle file, bisognerebbe aggiungere dalle seconde file, di Solidarność proviene l’uomo politico che nel bene, e forse soprattutto nel male, ha segnato la vita politica degli ultimi vent’anni in Polonia e che durante gli anni della dittatura di Jaruzelski aveva giocato un ruolo di comprimario: Jarosław Kaczyński. Definito “l’anima nera” di Wałęsa dopo la caduta del regime comunista, a lui va attribuita l’accelerazione del processo di naturale disfacimento del sindacato libero, incapace di contenere al suo interno spinte di tipo ideologico radicalmente opposte che solo il nemico comune, il Partito Operaio Unificato Polacco al governo, aveva potuto tenere insieme. Caduto il “potere”, veniva meno altresì la funzione del “contropotere” incarnata dagli uomini fin qui menzionati e del movimento che a essi in qualche modo faceva riferimento.
Kaczyński è il fondatore del partito “Diritto e Giustizia”, ultraconservatore, populista ed euroscettico, così lontano dall’uscita “da sinistra” che la vittoria del sindacato libero e delle ventuno rivendicazioni formulate in quel lontano agosto del 1980, avrebbe dovuto realizzare. Rileggere oggi i ventuno punti di quel testo infonde, come una vecchia foto in bianco e nero, un sentimento di nostalgia e allo stesso tempo aiuta a formulare un bilancio su quello che è diventata la Polonia. 
I primi di quei ventuno punti riguardavano il diritto allo sciopero nel luogo di lavoro sancito, tra l’altro, dall’attuale costituzione polacca. Contro questo fondamentale diritto paiono dirette le parole dell’attuale ministro del servizio sanitario nazionale che ha recentemente minacciato di far licenziare le infermiere che avessero intrapreso uno sciopero nelle strutture sanitarie di proprietà statale. I punti numero otto e nove si riferivano all’aumento salariale a petto dell’innalzamento dei prezzi per i beni di largo consumo deciso dal partito. Oggi i bassi salari dei lavoratori, a fronte di un crescente costo della vita, costituiscono il principale motivo degli investimenti stranieri e dello sviluppo dell’economia polacca. 
Il punto quattordici riguardava l’introduzione dell’età pensionabile a 50 anni per le donne e 55 per gli uomini. L’attuale Presidente della Repubblica, Andrzej Duda, aveva promesso durante la campagna per le presidenziali del maggio scorso che in caso di vittoria avrebbe abbassato l’età pensionabile a 65 anni per gli uomini e 60 per le donne. Questa proposta, come molte altre del resto, pare rimarrà lettera morta giacché Duda, del partito “Diritto e Giustizia”, ha dichiarato, in diametrale contrasto con quello che aveva promesso pochi mesi fa, che non intraprenderà nessuna azione politica che possa compromettere l’equilibrio del bilancio e quindi il bene comune della nazione. 
Il punto diciannove si riferiva ai lunghi tempi di attesa per ricevere un’abitazione da parte dello Stato. Oggi il grigiore dei casermoni comunisti è stato sostituito dal fiorire di nuovi quartieri, frutto sovente di speculazioni edilizie da parte di imprenditori senza scrupoli, nei quali i giovani polacchi possono trovare una sistemazione, che ai tempi della Repubblica Popolare sarebbe spettata loro di diritto, indebitandosi per trenta o quaranta anni con una delle numerose banche commerciali che esistono in Polonia.
L’ultimo punto di quell’incontro a Danzica concerneva la possibilità per i lavoratori di riposare il sabato e non essere costretti a compiere ore di lavoro straordinario per raggiungere un salario sufficiente per sopravvivere. In questo momento una delle fonti di reddito maggiori dell’economia polacca sono i grandi supermercati e i numerosi esercizi aperti ventiquattro ore al giorno, con turni e condizioni di lavoro paragonabili non a quelli dell’operaio medio di Danzica di trent’anni fa ma a quelli del lavoratore nell’Inghilterra dell’Ottocento. 
Solidarietà era diventata la parola d’ordine di un grande movimento popolare e anche uno slogan facilmente riconoscibile e traducibile all’estero. Di Solidarietà non rimane più nulla, il sindacato che porta il suo nome è ben altra cosa di quello degli anni gloriosi e delle battaglie vinte in una delle nazioni chiave del sistema del socialismo reale. Solidarietà da slogan e valore condiviso è diventata una parola che indica, come poche altre, le tante contraddizioni di tipo ideologico e culturale che caratterizzano la società polacca. 
Nei giorni nei quali si chiede all’Europa intera uno sostegno per accogliere i profughi, i polacchi, che come pochi altri hanno potuto in passato godere dell’aiuto e della solidarietà internazionale, pongono paletti di fronte alle proposte di accoglienza e si lasciano andare in molti casi a manifestazioni d’intolleranza e razzismo. In questi giorni si stanno raccogliendo le firme per un referendum sulle quote di immigrati stabilite dall’UE. Al vaglio dell’elettorato dovrebbe esserci altresì una proposta legislativa in base alla quale si dovrebbe impedire ai profughi considerati socialmente pericolosi o ostili di varcare i confini della Polonia. 
In un Paese in cui a prevalere è la retorica del nemico interno o esterno cui attribuire le cause della propria arretratezza e debolezza politica ed economica, il rifugiato ucraino, il profugo siriano, lo zingaro e il diverso diventano simboli ideologici contro cui scagliare la propria rabbia e la propria frustrazione. L’odio sembra avere preso il posto della solidarietà, la disintegrazione sociale, alimentata da anni di propaganda neoliberista per cui la concorrenza è un valore e chi rimane indietro deve semplicemente incolpare se stesso, ha attecchito nel senso comune. I cantieri navali “Lenin” di Danzica non esistono più, al loro posto ci sono terreni e nuovi appartamenti in vendita. Le speranze di un popolo che voleva impadronirsi del proprio destino e realizzare una società più giusta sembrano davvero lontane.

Fonte: MicroMega online 

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