La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 19 settembre 2015

Sabra e Chatila, un popolo profugo

di Maurizio Musolino
Tren­ta­tré anni sono pas­sati dalla strage di Sabra e Sha­tila e da allora ogni anno si rin­nova la catarsi di un ricordo che è anche un guar­darsi indie­tro, verso la pro­pria sto­ria fatta di scon­fitte e spe­ranze, e un cer­care in quel dram­ma­tico evento le ragioni per andare avanti alla ricerca di un futuro dif­fi­cile da indi­vi­duare. Oggi come allora, infatti, si cerca di negare al popolo di Pale­stina il pre­sente; ieri con la mat­tanza messa in atto dai falan­gi­sti alleati di Israele e oggi attra­verso l’assenza di diritti e ves­sa­zioni di ogni tipo, disper­den­doli nel mondo per can­cel­larne la memo­ria e la pos­si­bi­lità di futuro.
«Mio nonno era un pale­sti­nese e abi­tava in Gali­lea, poi venne la guerra, bru­cia­rono i nostri vil­laggi. Ci rifu­giammo prima in Libano, poi a Dama­sco. Da allora la mia fami­glia divenne pale­sti­nese rifu­giata in Siria. Io sono nata a Yar­muk, non ho mai capito bene cosa ero: pale­sti­nese, ma anche siriana… Non potevo negare le mie ori­gini, la Pale­stina, ma la Siria era il paese che aveva accolto la mia fami­glia e io ci vivevo bene. Poi la Siria è esplosa, Yar­muk è diven­tato tea­tro di scon­tri e vio­lenze e sono fug­gita in Libano, dive­nendo così una pale­sti­nese rifu­giata in Siria che vive da pro­fuga in Libano. Mio figlio oggi non vuole restare qui, ha 23 anni e vuole rag­giun­gere un suo zio in Nor­ve­gia. Cosa diven­terà? Non sap­piamo più cosa siamo!». Parole sem­plici e nello stesso tempo piene di dispe­ra­zione, dette da Amal, una dei tan­tis­simi pro­fu­ghi che sono arri­vati in que­sti mesi dalla Siria. Fra que­sti sono circa 40mila quelli di ori­gine pale­sti­nese. Uno spac­cato della tra­ge­dia di un popolo. Per lei il mas­sa­cro di Sabra e Cha­tila è solo un ricordo, uno dei tanti brutti ricordi.
Sono in tanti a voler scac­ciare l’ombra del mas­sa­cro com­piuto dalle falangi liba­nesi (cri­stiani maro­niti). Lo fanno da sem­pre gli ese­cu­tori, che con­ti­nuano a negare spu­do­ra­ta­mente quel cri­mine. Lo fa anche una parte della popo­la­zione pale­sti­nese, fru­strata dalle troppe ingiu­sti­zie subite e schiac­ciata da un futuro ine­si­stente. Ma quel ricordo, quella memo­ria, resta viva, come una ferita aperta. Una ferita che si palesa negli occhi dei fami­liari delle vit­time, che osti­na­ta­mente chie­dono giu­sti­zia per i loro cari. Donne e anziani che por­tano sulle spalle la respon­sa­bi­lità di tra­ghet­tare la memo­ria del popolo pale­sti­nese alle nuove generazioni.
Sono loro, que­ste fami­glie di Cha­tila, la vera ossa­tura del Comi­tato Per non dimen­ti­care Sabra e Cha­tila, fon­dato dal gior­na­li­sta del mani­fe­sto Ste­fano Chia­rini, insieme a pochi amici ita­liani, a Kas­sem Aina, di Beit Atfal Asso­moud, una ong pale­sti­nese, e Talal Sal­man, intel­let­tuale arabo e diret­tore del quo­ti­diano liba­nese Assa­fir. Il Comi­tato in que­sti giorni è a Bei­rut per chie­dere giu­sti­zia per i morti e diritti per i vivi, quei quat­tro­cen­to­mila pale­sti­nesi che nel Paese dei Cedri non si vedono rico­no­sciuti nean­che i diritti fondamentali.
Quest’anno insieme alla dele­ga­zione ita­liana, che vede la pre­senza anche di tre par­la­men­tari del M5S giunti a Bei­rut per par­te­ci­pare alle cele­bra­zioni del mas­sa­cro, c’è una vasta rap­pre­sen­tanza pro­ve­niente da altri paesi: Usa, Male­sia, Sin­ga­pore, Nor­ve­gia, Fran­cia, Fin­lan­dia, Spa­gna, ma soprat­tutto tanti pale­sti­nesi che arri­vano da Gaza e dalla Cisgior­da­nia. Sono pro­prio i pale­sti­nesi di Gaza a denun­ciare con forza la con­di­zione inu­mana a cui è con­dan­nata la popo­la­zione che vive a Cha­tila, a Bourj al Bara­jne… nei campi in Libano. «Non pos­siamo restare zitti, que­sti campi sono cimi­teri». Lo grida il coor­di­na­tore delle asso­cia­zioni cari­ta­te­voli della Cisgior­da­nia, «ieri ho visi­tato Cha­tila – pro­se­gue — e ho pro­vato ver­go­gna. Una situa­zione intol­le­ra­bile! Come si è arri­vati a ciò? Come è stato pos­si­bile?». Nella rispo­sta c’è tutta l’attuale crisi pale­sti­nese, una crisi di pro­spet­tiva, poli­tica e sociale.
Si inter­roga sulle stesso tema il sin­daco di Gho­beiry, la muni­ci­pa­lità dove insi­ste il campo mar­tire: «que­sto campo è un luogo inu­mano, ina­datto alla vita delle per­sone. Lo sanno tutti, ma nes­sun vuole cam­biare que­sta situa­zione. Da tempo denun­cio que­sto e chiedo di poter inter­ve­nire dra­sti­ca­mente, e mi scon­tro con­tro un muro di gomma. I liba­nesi hanno paura che i pale­sti­nesi si sta­bi­liz­zino qui, ma non sarà così, la loro patria resta la Palestina».
Ed è pro­prio la paura che sem­bra farla da padrona in que­sta parte del mondo. Paura dell’integralismo di Daesh (Isis), e del suo fana­ti­smo cri­mi­nale. Paura di rica­dere in con­flitti confessionali.
Ma anche paura di essere dimen­ti­cati, come rischiano di esserlo i rifu­giati pale­sti­nesi in Libano: «Le crisi si som­mano – ci spiega Sal­man Natour — prima i pro­fu­ghi dell’Iraq, ora quelli dalla Siria, nes­suno sem­bra più volersi occu­pare dei pale­sti­nesi e dei diritti che gli ven­gono negati».
Ci spie­gano cosa vuol dire vivere in un campo i rap­pre­sen­tanti del comi­tato popo­lare di Jalil, un pic­colo campo vicino a Bal­bek: «tanti gio­vani ci dicono di voler par­tire, di voler pren­dere il mare per rag­giun­gere l’Europa. Noi gli diciamo di no, di restare, gli rac­con­tiamo delle morti nel Medi­ter­ra­neo, dei respin­gi­menti delle vostre poli­zie, gli spie­ghiamo che si deve restare qui per con­ti­nuare a lot­tare affin­ché un giorno si possa ritor­nare in Pale­stina, ma poi ci accor­giamo che oltre le parole non abbiamo nulla da offrir­gli e li lasciamo alle loro scelte. Senza un lavoro e senza la pos­si­bi­lità di avere un futuro cosa pos­siamo fare?».

Fonte: il manifesto  

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