La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 18 settembre 2015

Primo Levi. Ritratto appassionato di un’opera aperta

di Claudio Vercelli
Affron­tare il rap­porto che la cul­tura ita­liana e quella inter­na­zio­nale intrat­ten­gono con il «con­ti­nente Primo Levi» è quanto di più arduo uno stu­dioso possa darsi come com­pito. Ciò mal­grado il fatto che Levi si pre­senti, agli occhi dei suoi innu­me­re­voli let­tori, come un autore il cui spes­sore cul­tu­rale, ma anche il senso della sua stessa esi­stenza, siano evi­denti nel loro signi­fi­cato let­te­ra­rio e nel loro lascito etico. Quanto meno in Ita­lia, dove è dive­nuto il testi­mone per eccel­lenza della depor­ta­zione nei lager nazi­sti. Gene­ra­zioni di stu­denti, soprat­tutto dagli anni Ottanta, si sono con­fron­tati con alcuni suoi testi che sono diven­tati veri e pro­pri clas­sici della memo­ria. Quasi una sorta di canone cul­tu­rale, che si affianca alle let­ture, rigo­ro­sa­mente obbli­gate, di un Man­zoni piut­to­sto che di un Dante e così via. Non di meno, da dopo la sua tra­gica scom­parsa, avve­nuta nel 1987, l’attenzione verso il per­so­nag­gio pub­blico, costruito soprat­tutto in assenza della per­sona, ha fatto pre­mio su molti altri ordini di con­si­de­ra­zione. Ine­vi­ta­bili, quindi, le stra­ti­fi­ca­zioni di inter­pre­ta­zioni, di usi e, forse, anche di alcuni ricorsi inflattivi.
Rimane il fatto che il lascito intel­let­tuale, al netto degli inve­sti­menti ope­rati dall’industria cul­tu­rale, dall’editoria, dalla scuola e da quant’altri, sia ancora a tutt’oggi una sfida aperta. Come la sua opera, carat­te­riz­zata per intero e in tutto il suo per­corso, da un senso di inte­riore insod­di­sfa­zione per il modo in cui andava, di volta in volta, pro­po­nendo al pub­blico ciò che era oggetto delle sue rifles­sioni. Quindi, dal biso­gno di andare oltre se stesso.
Il senso dell’insufficienza delle parole, da que­sto punto di vista, è uno dei temi ricor­renti nella scrit­tura di Levi: insuf­fi­cienza come ina­de­gua­tezza rispetto alle cose del modo ma anche riguardo al biso­gno di dare a que­ste cose un nome. Si tratta del lascito dell’esperienza della depor­ta­zione ma va ben oltre essa, dive­nendo un po’ la cifra fon­da­men­tale del suo rap­porto con la vita. Se nel Lager le cose per­de­vano il loro abi­tuale signi­fi­cato, nell’esistenza di ogni giorno il pro­blema di costruire dei nessi, di offrire delle inter­pre­ta­zioni, diven­tava prioritario.
Un pro­ce­di­mento chimico
Una radi­cale domanda di senso, infatti, ha accom­pa­gnato tutta la tra­iet­to­ria esi­sten­ziale di que­sto autore, inter­se­can­dosi con il senso della casua­lità, che era in lui molto spic­cato. Uno dei mag­giori stu­diosi e cono­sci­tori di Levi, Marco Bel­po­liti, ne offre adesso uno spac­cato vivo con il volumePrimo Levi. Di fronte e di pro­filo (Guanda, pp. 737, euro 38). Si tratta di una enci­clo­pe­dia inte­rat­tiva sull’autore, trat­tan­dosi, del pari ai volumi e alle tante parole licen­ziate dal bio­gra­fato, di un dispo­si­tivo di inter­pre­ta­zioni aperto ad ulte­riori evoluzioni.
Il metodo con il quale il bio­grafo ha affron­tato Levi, infatti, è quello di cogliere nelle infi­nite pie­ghe delle sue tante pagine, di un reper­to­rio foto­gra­fico cir­co­scritto ma signi­fi­cato, di un lem­ma­rio com­po­sito, di indizi e tracce, i tratti di fondo di una figura che per essere resti­tuita nella sua uni­ta­rietà richiede, prima di tutto, di essere «smo­le­co­la­riz­zata», ossia scom­po­sta, e poi ricom­po­sta passo dopo passo. Si tratta di un pro­ce­di­mento chi­mico, appli­cato alla let­te­ra­tura, del pari alla pro­fes­sione che Levi da sem­pre ha eser­ci­tato, aiu­tan­dolo a sal­varsi dal gorgo di Ausch­witz prima, a dare voce a sé, alla sua espe­rienza esi­sten­ziale ma anche alla sua per­so­na­lità dopo, non­ché a pre­ser­varne la vita fin­ché ciò è valso a farlo. Cer­care quindi nel cor­po­sis­simo testo di Bel­po­liti la bio­gra­fia defi­ni­tiva è non solo vano ma, per più aspetti, inu­tile. Non è ciò che il volume intende offrire quanto, piut­to­sto, l’intreccio delle strade di signi­fi­cato intel­let­tuale, poli­tico, let­te­ra­rio che ne com­pon­gono l’esistenza. Sotto il segno della com­ples­sità, poi­ché Primo Levi era figura di per se stessa com­plessa, stra­ti­fi­cata, a tratti non pre­ve­di­bile. Qual­cosa di molto distante, per l’appunto, dei ripe­tuti pro­cessi di sacra­liz­za­zione del nome di cui, a morte con­su­ma­tasi, sarebbe diven­tato invo­lon­ta­rio protagonista.
Ci sono però anche altre chiavi di let­tura che si impon­gono per un testo così impe­gna­tivo ma avvin­cente. A parte la scon­cer­tante eru­di­zione dell’autore, che sem­bra avere esplo­rato ogni anfratto dell’altrui esi­stenza, di cui ha una cono­scenza pres­so­ché mil­li­me­trica, quel che ne emerge è anche il biso­gno di un con­fronto tra gene­ra­zioni diverse.
Epo­che a confronto
Bel­po­liti è nato una decina d’anni dopo la guerra, e quasi tren­ta­cin­que anni dopo Levi, attra­ver­sando le vicende molto intense, non meno che molto ideo­lo­gi­che, dei decenni suc­ces­sivi, fino alla caduta del Muro di Ber­lino, al declino della poli­tica e alla pri­va­tiz­za­zione dei sen­ti­menti col­let­tivi. La mag­giore for­tuna di Levi si accom­pa­gna a que­sta sta­gione soprav­ve­niente, pur non viven­dola in prima per­sona poi­ché la sua esi­stenza si era nel men­tre già con­clusa. Quasi che le sue parole, scol­pite una volta per sem­pre in un capo­la­voro uni­ver­sale come I som­mersi e i sal­vati, svol­ges­sero già una sup­plenza rispetto ad un’epoca di pas­sioni tri­sti, di ripie­ga­mento, di annul­la­mento del con­flitto, e della sua media­zione, come occa­sioni per andare oltre l’esistente.
Per il bio­grafo c’è quindi sia la neces­sità di con­se­gnare al let­tore chiavi di com­pren­sione che non inchio­dino Levi alla sola espe­rienza del campo di con­cen­tra­mento, trat­tan­dosi, al con­tempo di un’opera let­te­ra­ria che parte da quelle vicende per poi assu­mere una fisio­no­mia auto­noma, sia di riflet­tere su una dif­fe­rente rice­zione gene­ra­zio­nale, quindi varia­bile nel corso del tempo, dei testi che ci sono consegnati.
Un testi­mone totale
Non esi­ste un Primo Levi sem­pre uguale a se stesso e nean­che un «testi­mone totale», com­ple­ta­mente assor­bito in que­sta fun­zione – in ciò, quindi, dif­fe­rendo molto da Elie Wie­sel – ma una mate­ria let­te­ra­ria molto mal­lea­bile, sot­to­po­sta al tempo così come avviene con i rea­genti chi­mici. Levi, da que­sto punto di vista, costi­tui­sce per eccel­lenza la figura dell’autore incom­piuto. Vuoi per­ché in eterno con­flitto inte­riore tra il biso­gno di dire e, nel mede­simo tempo, il pudore estremo che lo accom­pa­gnava, vuoi per una per­vi­cace insod­di­sfa­zione verso le cose ma anche nei con­fronti delle pro­prie parole. Su que­sto ver­sante non fonda un filone o un genere ma recu­pera e rie­la­bora molte delle sug­ge­stioni della let­te­ra­tura del secolo appena tra­scorso, met­ten­dola in ten­sione con le grandi que­stioni che hanno attra­ver­sato il suo tempo, a par­tire dal tema della radice del male.
Bel­po­liti ci resti­tui­sce que­sto ritratto in movi­mento. Una sorta di figura mag­ma­tica, inquieta, irri­solta per­ché sor­pren­dente. La que­stione di fondo è que­sta: può Levi aiu­tarci ad andare oltre l’ultimo testi­mone, offren­doci les­sico e sin­tassi per affron­tare i tempi cor­renti con lo spi­rito di chi non si sente da essi scon­fitto anti­ci­pa­ta­mente? Poi­ché in lui la scrit­tura è sem­pre una com­mi­stione tra l’ordine della ragione indi­vi­duale e l’inesorabilità del pro­cesso sto­rico. Un corpo a corpo, in altri termini.

Fonte: il manifesto 

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