La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 9 settembre 2015

Amnistia, decalogo del rifiuto alla richiesta del Papa

 
di Andrea Pugiotto
La richie­sta del Papa «di una grande amni­stia» per il Giu­bi­leo Straor­di­na­rio della Mise­ri­cor­dia, può anche essere respinta al mit­tente. Pur­ché lo si motivi con ragioni all’altezza dell’interlocutore, il quale pos­siede cari­sma, pro­get­tua­lità, cre­di­bi­lità in quan­tità che la poli­tica ha smar­rito da tempo.
Ovvio l’entusiasmo dei favo­re­voli, a comin­ciare dalla voce ragio­ne­vol­mente visio­na­ria di Pan­nella. Quanto agli altri, il silen­zio gene­rale è stato inter­rotto da poche rispo­ste vero­si­mili, ma non vere. Eccone il catalogo.
La rispo­sta orgo­gliosa è, in appa­renza, con­vin­cente. Riven­dica il pri­mato della poli­tica sull’indulgenza cri­stiana. La mise­ri­cor­dia è una virtù morale, che dispone alla com­pas­sione e opera per il bene del pros­simo per­do­nan­done le offese. Non può però det­tare tempi e con­te­nuti delle scelte giu­ri­di­che che, lai­ca­mente, rispon­dono all’etica della respon­sa­bi­lità, pre­oc­cu­pan­dosi delle con­se­guenze con­crete più che dei buoni pro­po­siti.

Tutto giu­sto ma sba­gliato se rife­rito al tema della cle­menza, dove la voce di Ber­go­glio si è aggiunta (e non sosti­tuita) a quella del capo dello Stato e della Corte costi­tu­zio­nale che, da tempo, hanno invo­cato una legge di amni­stia e indulto. Il primo, moti­van­done le ragioni strut­tu­rali nel suo unico mes­sag­gio alle Camere, igno­rato al Senato, discusso solo di sponda alla Camera. La seconda, evo­can­dolo in un’importante sen­tenza del 2013 in tema di sovraf­fol­la­mento car­ce­ra­rio. Rispon­dere pic­che al Papa, come già al Pre­si­dente Napo­li­tano e ai Giu­dici costi­tu­zio­nali (tra i quali, allora, sedeva anche Ser­gio Mat­ta­rella), testi­mo­nia della poli­tica non l’autonomia, ma la grave afasia.
La rispo­sta pavlo­viana è quella di chi ama vin­cere facile. C’è la sua variante rozza («Mai più delin­quenti in libertà») e quella più for­bita («Le car­ceri devono essere luo­ghi di rie­du­ca­zione, ma chi è con­dan­nato deve stare in car­cere fino all’ultimo giorno»). È un man­tra costi­tu­zio­nal­mente sto­nato. Se le pene «devono ten­dere» alla riso­cia­liz­za­zione, durata e afflit­ti­vità dipen­dono, in ultima ana­lisi, dal grado di rav­ve­di­mento del reo: que­sto, alle corte, è quanto impo­sto dalla Costi­tu­zione. La cer­tezza della pena è, dun­que, un con­cetto fles­si­bile, più pro­ces­suale che sostan­ziale. Scam­biarla con la legge del taglione signi­fica abro­gare l’intero ordi­na­mento peni­ten­zia­rio, ben­ché vigente da quarant’anni.
C’è poi la rispo­sta cau­si­dica. Inter­pre­tare le parole del Papa come un appello alla poli­tica ne frain­ten­de­rebbe il senso, esclu­si­va­mente eccle­siale. Che tale pre­ci­sa­zione venga dal por­ta­voce vati­cano non stu­pi­sce: già nel 2002 la richie­sta di cle­menza di Papa Woj­tyla – coperta da applausi in Par­la­mento — fu poi igno­rata da depu­tati e sena­tori. Pru­den­zial­mente, oltre Tevere, si vor­rebbe evi­tare il de-javù.
Se Ber­go­glio ha usato – per la prima volta – la parola “amni­stia”, l’ha fatto a ragion veduta, sop­pe­san­done l’inevitabile impatto poli­tico. Non ha improv­vi­sato. Ha pro­se­guito la sua rifles­sione (sul senso delle pene, sulla neces­sità di un diritto penale minimo, sui peri­coli del popu­li­smo penale) e la sua azione rifor­ma­trice (abo­li­zione dell’ergastolo, intro­du­zione del reato di tor­tura), entrambe costi­tu­zio­nal­mente orien­tate. Iso­lare da ciò il suo appello alla cle­menza è come divor­ziare dalla realtà delle cose.
Dal governo, invece, è giunta la rispo­sta stu­pe­fatta: «Ma come? Pro­prio ora che il tasso di sovraf­fol­la­mento è calato, gra­zie a misure deflat­tive ade­guate? Pro­prio ora che si è aperto un grande can­tiere per la riforma della giu­sti­zia e dell’ordinamento peni­ten­zia­rio?». Lo stu­pore nasce da un frain­ten­di­mento di fondo: quello per cui un atto di cle­menza gene­rale sarebbe alter­na­tivo a riforme strut­tu­rali, quando invece ne rap­pre­senta un tas­sello essen­ziale. Amni­stia e indulto sono pre­vi­sti in Costi­tu­zione come utili stru­menti di poli­tica giu­di­zia­ria e cri­mi­nale, a rime­dio di una lega­lità vio­lata da un eccesso di pro­cessi e dete­nuti. È solo la sua rap­pre­sen­ta­zione col­let­tiva (deco­struita effi­ca­ce­mente da Man­coni e Tor­rente nel loro libro La pena e i diritti, Ed. Carocci, 2015) ad aver tra­sfor­mato una legge di cle­menza da oppor­tu­nità a cata­strofe per i pro­pri divi­dendi elettorali.
Resta la rispo­sta pos­si­bi­li­sta. Fare in modo che «una legit­tima aspi­ra­zione della Chiesa possa diven­tare un fatto poli­tico» (così il Pre­si­dente Grasso); tra­durre que­sta richie­sta «in qual­che cosa di strut­tu­rale, che rimanga anche dopo» (così il mini­stro Orlando). Come? Le mag­gio­ranze dolo­mi­ti­che neces­sa­rie e le divi­sioni tra le forze poli­ti­che, temo, bloc­che­ranno i dise­gni di legge ora fermi in Com­mis­sione al Senato. Per­ché, allora, non rifor­mare l’art. 79 della Costi­tu­zione che, nel suo testo attuale, oppone così rile­vanti osta­coli alla loro appro­va­zione? L’ultima amni­stia risale al 1990, l’ultimo indulto al 2006. Resti­tuire agi­bi­lità poli­tica e par­la­men­tare agli stru­menti di cle­menza: que­sta sarebbe una rispo­sta pos­si­bile, e all’altezza della mise­ri­cor­dia giubilare.

Fonte: il manifesto

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