La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 11 settembre 2015

Vedere per non provvedere

di Claudio Vercelli
Davanti alla sgradevole sequenza di un convulso tafferuglio, che coinvolge polizia e profughi, nel corso del quale uno di essi inciampa rovinosamente e cade per terra a causa dello sgambetto fattogli da una operatrice di ripresa, che stava filmando l’intera scena, c’è forse bisogno di commentare?
Qualcuno ha notato che l’operatrice è ungherese, paese che non sta raccogliendo il plauso della comunità internazionale, e del pubblico europeo, per la condotta assunta sul merito del trattamento dei profughi. Usiamo noi, allora, il fermo immagine, cercando di avanzare qualche piccola considerazione e risparmiandoci, al medesimo tempo, quelle geremiadi, le contumelie, gli scalpori e le condanne tanto facili quanto ovvie e, quindi, banali.
Poiché la questione, al di là del singolo episodio che la richiama, è veramente problematica e di ampia portata. Da una parte c’è l’esasperato (e calcolato) cinismo di chi “coglie l’occasione” non per documentarla ma per crearla.
Quanto meno, un aspetto di essa, passando letteralmente sul corpo di una persona, l’involontario protagonista della caduta, con il bambino in braccio, che si trova lì non per scelta sua ma per stato di necessità e di costrizione. Quasi che quanto sta succedendo tutto intorno comunque non basti, chiedendo semmai ancora una sorta di surplus di violenza, di abiezione, di prevaricazione e di disperazione.
Dall’altra parte c’è la silenziosa aspettativa, non meno cinica, ben conosciuta dalla video-operatrice (e dai suoi colleghi), per la quale ciò che interessa al “pubblico” è lo spettacolo della violenza – e possibilmente quello delle vittime inermi e inerti, che la debbono subire senza proferire reazione, altrimenti perdono, agli occhi benevoli di chi li osserva, questo status al medesimo tempo emotivo e “sentimentale” – in totale assenza di inibizioni e pudori di sorta.
La questione si era già posta nei giorni scorsi, dinanzi alla foto del corpo del bambino, morto durante una delle innumerevoli traversate, e raffigurato sulla spiaggia, il corpo indifeso, riverso e rivolto verso la terra, a pochi centimetri dal mare.
C’è un complesso apparato retorico, una costruzione quasi teatrale (non nel senso che sia predisposta ad hoc, con una propria regia, ma che si rifà ad una sceneggiatura che si dice di aborrire – lo strazio della fuga, la convulsione dell’abbandono, la sanzione impietosa della morte – e che tuttavia si vuole invece vedere ripetuta), così come un bisogno inconfessabile di sadismo, sia pure solo virtuale, e come tale da molti inteso in quanto meno “colpevole” poiché meno partecipe: li osserviamo a distanza di sicurezza, per così dire, deprecando gli eventuali “eccessi” delle forze dell’ordine, ma in fondo vogliamo che tra “loro” e “noi” la distanza resti perlopiù incolmabile.
Le irose risposte alle richieste di ospitalità, tanto più se espresse da istituzioni come la Chiesa (“se li tengano loro”), sembrano registrare questa distanza che vuole rimanere incolmabile. Parliamo un plurale maiestatis, quindi ingeneroso, poiché non rende omaggio alle diverse persone – anche tra gli ungheresi, che hanno così voluto testimoniare attivamente della loro opposizione al populismo muscolare e criptofascista di Viktor Orbán – le quali si sono letteralmente “messe in moto” per andare incontro alla lunga teoria di fuggitivi.
Ma si tratta, per l’appunto, di minoranze attive, capaci di lasciare un solco testimoniale importante, impossibilitate tuttavia ad incidere sui sentimenti invece ambigui ed ondivaghi dei più, che sono, come tali, parte integrante della tragedia che si consuma: la categoria dello spettatore, nell’età della visione di massa – quando nulla è nascosto, tutto sembra visibile, il peggiore crimine non avviene in assenza di chi lo documenta, a presente e futura memoria ma, semmai, lo chiama da subito in causa, quasi ne fosse una componente imprescindibile – sta diventando così centrale da risultare imprescindibile, alimentando una parte degli stessi processi politici più perversi e drammatici del nostro tempo.
La tragedia della ex Jugoslavia, ed in particolare le carneficine consumatesi in Bosnia Erzegovina, avevano già precorso questa evoluzione, ora per molti aspetti manifesta. L’occhio dello spettatore di massa, a vario titolo consapevole, se non altro perché “vede” (ma non provvede), non è la garanzia della irripetibilità degli strazi che la storia ci consegna bensì una parte dello stesso processo in atto. Un voyerismo collettivo, sul quale assai poco bisogna moraleggiare, trattandosi di una delle forme che la politica assume nell’età dell’impotenza dei più.
Alla quale si sostituisce il piacere della visione di uno “spettacolo”, quello di un’Apocalisse. Ovviamente altrui. Ed allora, quello sgambetto non solo impertinente ma offensivo, l’operatrice l’ha fatto per sé, per la buona riuscita della “ripresa”, ma anche per una parte di noi, quelli che vogliono vedere l’immagine fingendo che essa sostituisca tutto, anche la materialità dei fatti che raccoglie.

Fonte: Caratteri liberi

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