La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 12 settembre 2015

Danimarca, il modello nordico travolto dalla crisi

di Paolo Borioni
C’è tanta, e brutta, tat­tica in quello che abbiamo visto acca­dere alle fron­tiere della Dani­marca in que­sti giorni. Il pre­si­dente del con­si­glio libe­rale Løkke Rasmus­sen ha con tutta evi­denza cer­cato di appa­rire costretto dagli eventi. I ver­tici e i sin­da­cati di poli­zia hanno chia­ra­mente affer­mato di essere stati lasciati senza ordini poli­tici dal governo, soli a gestire la situa­zione con la pura pro­fes­sio­na­lità e buon senso. La ragione poli­tica è evi­dente: pro­prio come nel pas­sato governo di cen­tro­de­stra (2001–2011) i libe­ral con­ser­va­tori dipen­dono dalla non-sfiducia par­la­men­tare dei nazio­nal­po­pu­li­sti del Dansk Folkeparti.
La Dani­marca è stato il primo paese nor­dico a lasciar entrare il popu­li­smo di destra nell’area di governo (ora è così anche ad Oslo ed Hel­sinki, o peg­gio) al fine di com­pri­mere l’importanza delle trat­ta­tive par­la­men­tari col cen­tro­si­ni­stra e intro­durre (anche qui come fosse un toc­ca­sana) qual­cosa di simile al bipo­la­ri­smo. L’influenza xeno­foba, sulle misure da adot­tare, sul lin­guag­gio e sul livello del dibat­tito, è stata nega­tiva e pro­fonda. Il buon senso dei ver­tici delle forze dell’ordine ha pre­ve­nuto vio­lenze dirette sui pro­fu­ghi. E ha per­messo a una colonna di pro­fu­ghi, a piedi, di diri­gersi verso la ospi­tale Sve­zia, scor­tata dagli agenti ma anche ber­sa­gliata da gesti di intol­le­ranza. A pro­po­sito di Sve­zia, la dif­fe­renza salta agli occhi: sto­rica e di pro­spet­tiva poli­tica. In Sve­zia ben un sesto degli abi­tanti è nato fuori dai con­fini, e quest’anno ver­ranno accolti 100mila pro­fu­ghi. La quan­tità di rifu­giati a testa è record: il dop­pio della Sviz­zera, 4 volte la Ger­ma­nia e la Dani­marca (appunto), 25 volte gli Usa. Il popu­li­smo di destra è forte, almeno il 13 per cento, ma non ancora quanto in Dani­marca, né elet­to­ral­mente né come impatto poli­tico. A Stoc­colma, il pre­mier social­de­mo­cra­tico ed ex lea­der metal­mec­ca­nico, Löf­ven, ha deciso di sfrut­tare l’impressione che il dramma dei pro­fu­ghi sta cau­sando sull’opinione pub­blica. I quat­tro par­titi libe­ral­con­ser­va­tori e demo­cri­stiani, fino a ieri al governo in coa­li­zione, devono ancora deci­dere se inclu­dere in futuro il popu­li­smo xeno­fobo nelle pro­prie stra­te­gie. Come è ovvio per un paese con simili tra­di­zioni di acco­glienza l’emergenza uma­ni­ta­ria divide l’elettorato di quell’area rispetto a que­sta pro­spet­tiva poli­tica. Così, la social­de­mo­cra­zia cerca di sfrut­tare il momento rilan­ciando un atteg­gia­mento mag­gior­mente uma­ni­ta­rio, che in par­la­mento obbli­ghi anche il cen­tro­de­stra classico.
Allon­ta­nan­dolo da solu­zioni e pro­spet­tive poli­ti­che oppo­ste. La social­de­mo­cra­zia all’opposizione in Dani­marca è in una fase ben diversa: il Dansk Fol­ke­parti la tal­lona oltre il 20 per cento, e ha già un pas­sato di accet­ta­zione aperta nel gioco poli­tico. La social­de­mo­cra­zia (come e più che nel resto della Ue) non rie­sce a recu­pe­rare l’elettorato popo­lare migrato in lidi popu­li­sti per­ché le poli­ti­che seguite nel qua­drien­nio appena tra­scorso al governo non sono state di cre­scita e inclu­sione sociale. Il modello nor­dico viene eroso, la dise­gua­glianza aumenta anche qui. Inol­tre, l’alleanza futura più pro­ba­bile per scal­zare il cen­tro­de­stra è (di nuovo) Socialdemocratici-Radicali. Que­sti ultimi sono molto liberal-liberisti ed euro­pei­sti, e al con­tempo piut­to­sto pro-immigrati: giu­sto la miscela sba­gliata se i social­de­mo­cra­tici devono ripren­dersi i voti persi presso il par­tito xeno­fobo. La nuova lea­der social­de­mo­cra­tica Mette Fre­de­rik­sen prova a muo­versi, e rispetto all’esperienza di governo forse è spo­stata leg­ger­mente a sini­stra. Ulti­ma­mente cerca accordi con il Dansk Fol­ke­parti, spe­cie sui temi eco­no­mici e redi­stri­bu­tivi, ma esi­gendo di coin­vol­gere il governo libe­rale. L’idea è otte­nere nuovi risul­tati entrando nel gioco par­la­men­tare per mostrare agli elet­tori del Dansk Fol­ke­parti che in futuro pos­sono essere otte­nuti risul­tati (in campo sociale, e non solo) anche coi social­de­mo­cra­tici al governo.
Secondo i par­titi più a sini­stra (socia­li­sti popo­lari e lista uni­ta­ria) la via è un’altra: fare patti sulle poli­ti­che redi­stri­bui­tive con il Dansk Fol­ke­parti, ma tagliando fuori il governo, e impe­dendo (per esem­pio) all’esecutivo liberal-conservatore di peg­gio­rare ulte­rior­mente i livelli di sosti­tu­zione dei red­diti per i disoc­cu­pati. Una stra­te­gia che mira diret­ta­mente a raf­for­zare il lavoro dipen­dente e il sin­da­cato nel mer­cato, e che punta su que­sta base ad un’alternativa con mag­gio­ranza (almeno par­la­men­tare) di sini­stra per un futuro pros­simo. È del tutto evi­dente, comun­que, che anche la sini­stra danese vede che la que­stione sociale e il cam­bio di ricette richie­dano, almeno oggi, più che la mera con­danna morale del Dansk Fol­ke­parti. Il disin­ne­sco dei danni pro­vo­cati da que­sto par­tito sarà comun­que graduale.
Intanto, appare a molti indi­spen­sa­bile rom­pere gli equi­li­bri poli­tici, e ancora prima le ten­denze economico-sociali dell’ultimo quin­di­cen­nio. Tutto ciò si muove die­tro alle penose scene che abbiamo visto alla fron­tiera danese. La via nor­dica per non rin­ne­gare se stessi come modello di inclu­sione non è sem­plice. E, per ora, non è nem­meno esaltante.

Fonte: il manifesto

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