La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 11 settembre 2015

Rileggere oggi Hyman Minsky: «Combattere la povertà: lavoro non assistenza»

di Christian Dalenz
Negli anni della crisi, il pensiero di Hyman Philip Minsky (1919-1996) ha conosciuto un rinnovato interesse, in particolar modo la sua analisi del sistema finanziario, che ha trovato appoggi in economisti di rilievo internazionale quali il Premio Nobel Paul Krugman, la Presidente del Federal Reserve System, Janet Yellene il capo economista del Fondo Monetario Internazionale,Olivier Blanchard(che ha espresso il suo appoggio recentemente), che la ritengono molto utile per spiegare le ricorrenti crisi, compresa quella del 2007-08.
Minsky sosteneva, anche in anni in cui l’orientamento accademico generale era di tutt’altro avviso, che il sistema finanziario è intrinsecamente instabile; le posizioni ultraspeculative di alcuni agenti economici, sostenute con costanti e elevate posizioni debitorie, porteranno sempre ad un apice di attività in quel settore che prima o poi arriverà sempre a causarne l’implosione.
L’unico modo in cui egli riteneva possibile dare un pò di stabilità ad un sistema siffatto, da buon allievo di John Maynard Keynes, è concedere ampio intervento regolatorio e di politica economica allo Stato. Parte di tale intervento deve consistere a suo avviso in un piano di lavoro garantito che offra un impiego a chiunque sia disponibile accettarlo, e che porti perciò alla piena e buona occupazione in maniera permanente e non ciclica: intorno a questo progetto ruotano i suoi saggi pubblicati di recente in italiano in un libro:«Combattere la povertà: lavoro non assistenza» (Ediesse, 2014).
Si tratta di 7 saggi, 6 dei quali scritti tra gli anni ’60 e ’70, in cui si dedicava a descrivere la situazione economica degli USA tra la Grande Depressione e quegli anni; l’ultimo nel 1994, in cui si preoccupava di inviare raccomandazioni all’amministrazioneClinton (che per larga parte non lo ascoltò, anzi fece qualcosa di esattamente all’opposto di quanto Minsky avrebbe voluto: pensiamo alla deregolamentazione finanziaria che ha provocato l’abolizione del Glass-Steagal Act in quegli anni, con effetti che ben conosciamo).
Per semplicità riassumeremo qui le argomentazioni che con tali saggi Minsky ha voluto sostenere, piuttosto che parlare estesamente di ciascuno.
L’economista americano rivolgeva critiche sia agli economisti liberisti (consiglieri delle amministrazioni repubblicane, quale quella di Richard Nixon) sia a quelli neokeynesiani (consiglieri delle amministrazioni democratiche, dunque di John Kennedy e Lyndon Johnson, fautori di una dottrina che Joan Robinson descriveva come «keynesismo bastardo») per il modo in cui affrontavano i problemi economici. I primi avevano cieca fiducia nelle capacità del mercato di risolverli autonomamente, e tutto sommato ammettevano anche un tasso di disoccupazione moderato allo scopo di non avere spinte inflattive; i secondi erano sì attenti al tema dell’occupazione e della domanda effettiva, ma in una maniera non attenta e perciò insufficiente ad affrontare le questioni economiche in maniera radicale. Difatti, nota Minsky, nel dopoguerra sono sì avvenuti aumenti salariali, ma in maniera non omogenea, con alcuni settori, per esempio quello delle costruzioni e quello militare (settore il cui peso è da ridurre, per Minsky), che hanno avuto un aumento sensibilmente più alto della remunerazione della quota lavoro rispetto ad altre industrie, sia per via di uno stimolo maggiore del governo su quelle attività, sia per la più alta sindacalizzazione di cui godevano quei settori. Inoltre il tasso di disoccupazione navigava all’epoca tra il 6% e l’8%, e Minsky lamentava il fatto che rispetto ai Paesi scandinavi che avevano cifre vicine a quello che lui chiamava « stretto pieno impiego » (ovvero, un tasso non superiore al 2,5%) gli USA erano ben lontani dall’obiettivo della piena occupazione (ci sarebbe da chiedersi cosa penserebbe Minsky dei tassi di disoccupazione che si registrano oggi in Europa!).
Infine, grave problema dei modelli economici degli economisti era (ed è) non tener conto del settore finanziario (e come abbiamo visto per Minsky la questione era cruciale).
Per affrontare il problema della disoccupazione, l’economista keynesiano non vedeva altra soluzione: lo Stato deve organizzare piani di lavoro garantito per assorbirla quasi tutta(lasciandone giusta quel poco che è fisiologica tra la ricerca di un impiego e un altro, che gli economisti chiamano «disoccupazione frizionale»). La strada maestra da seguire è quella delle agenzie governative di lavori pubblici che aveva istituito Franklin Roosevelt per affrontare la Grande Depressione degli anni ’30: programmi come il Work Progress Administration (opere pubbliche, infrastrutture, arti), National Youth Administration (lavoro e formazioe nei più disparati servizi pubblici per i giovani) e il Civilian Conservative Corps (cura dell’ambiente) dovrebbero essere resi permanenti anche in tempi più «normali» rispetto alle depressioni profonde. Tali programmi tendevano a mettere subito al lavoro le persone nella condizione in cui erano, senza che ciò sia preceduto da un periodo di formazione; è questa per Minsky la maniera corretta di agire. L’approccio del programma War on Poverty (Guerra alla Povertà) di Lyndon Johnson era invece soprattutto teso alla formazione dei futuri lavoratori, e in questo modo aveva lasciato disoccupati molti (purtroppo, soprattutto molti tra la popolazione di colore). In questo modo inoltre sarebbe possibile fornire un salario alla popolazione più povera e correggere in questo modo la cattiva distribuzione del reddito(da affrontare anche con un controllo dei profitti dei capitalisti),salario che diventerebbe il pavimento sotto il quale nessun salario del settore privato dovrebbe scendere (alla stregua di una legislazione sul salario minimo).
Piani di lavoro garantito come prima strategia dunque: il welfare non doveva essere smantellato, anzi deve esserci ed essere ben congegnato, ma sbagliavano gli economisti del tempo di Minsky, a suo avviso, nel farne l’unica vera carta da giocare. In particolare Minsky avversava l’idea della tassa negativa sul reddito proposta dai seguaci del liberista Milton Friedman (potremmo dire che si tratta di una proposta vagamente simile all’odierno reddito minimo garantito per chi si trova sotto la soglia di povertà relativa) e quella del dividendo sociale proposto un tempo dall’ex candidato Presidente USA del Partito Democratico contro Nixon, George McGovern (simile all’odierno reddito di cittadinanza nella sua versione originale di reddito fornito sia a poveri che ricchi, non nell’accezione in cui la intende il Movimento 5 Stelle, che propone in realtà qualcosa di più simile al reddito minimo) perché potenzialmente inflattive e non risolutive di problemi urgenti della vita delle persone (sul punto, rimandiamo alle interviste con Andrea Fumagalli e alla terza parte di quella con Marco Veronese Passarella).
I saggi sono preceduti da ben 3 introduzioni: la prima degli economisti italiani Riccardo Bellofiore e Laura Pennacchi, che ritengono il Piano del Lavoro preparato dalla CGIL nel 1949-50 (e accolto con ostilità sia dalla destra DC che dal PCI di allora) come un buon punto di riferimento per l’applicazione delle idee di Minsky in Italia, e segnalano la necessità di un New Deal europeo; le altre due di economisti americani, la prima di Dimitri Papadimitriou e la seconda di Randall Wray, i quali provano da anni a immaginare applicazioni contemporanee di tali progetti: a loro avviso il loro finanziamento dovrebbe avvenire attraverso l’emissione di moneta sovrana.

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