La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 12 settembre 2015

Parole annodate a un soffitto. David Foster Wallace e il linguaggio

di Chiara Scarlato
Una bandana e un paio di occhiali. Una racchetta da tennis e una pila di fogli scritti, sparsi in un garage. Un cane di nome Jeeves e uno di nome Drone. Tabacco da masticare e una corda. L'energia di una vita che si spezza, che decide autonomamente di non proseguire e di appendere al soffitto il tempo, per sospenderlo in maniera definitiva, senza attendere il susseguirsi dei secondi che diventano minuti, ore e poi giorni: una successione di istanti che non possono essere più considerati nella loro singolarità e piombano nel vuoto di chi non trova via di uscita. C'è David Foster Wallace nel garage, il 12 settembre del 2008, con un indistinto pensiero di morte.
Il punto non è commemorare o biasimare il suo gesto, soprattutto se si considera che nelle scelte non c’è mai nulla di irrisolto: ognuna di esse assume un significato particolare nel momento in cui trova compimento, e lo perde irrimediabilmente nell'istante successivo, quando all'improvviso si colorano di realtà le alternative possibili che non erano state contemplate.
Non si tratta nemmeno di comprendere o riempire il vuoto di un’assenza, bensì per "ricordarci di essere umani" o perlomeno imparare a farlo, considerando quanta non-umanità appartenga al quotidiano scorrere dei nostri gesti e quanta incomprensione porti con sé il linguaggio, strumento che si disimpara ad utilizzare sin da piccoli. Analizzare il modo in cui le parole assumono − nel rapporto con l'altro − un significato differente rispetto a quello pensato, significa valutare in maniera organica la modalità in cui si esprime un qualsiasi tipo di rapporto. È questa l’eredità più grande di uno scrittore che ha dedicato la sua vita a cercare di spiegare fino in fondo «al mondo ciò che significava essere "un fottuto essere umano"»[1].
Capire cosa vuol dire l’umano, per Wallace, implica prima di tutto − in termini quasi heideggeriani − rimpossessarsi di quella tendenza "autentica" a cui la vita prima o poi ci spinge e che riguarda il rapporto tra l'individuo e la sua fine. In questa relazione permane un elemento di incomprensibilità, esemplificato dal sentimento del dolore. Grazie ad esso, l'individuo inizia a utilizzare il linguaggio per parlare di se stesso e appropriarsi del mondo esterno.
I primi due romanzi di Wallace, La scopa del sistema (1987) e Infinite Jest (1996) descrivono in effetti una pluralità di mondi in cui l'essere umano − secondo un andamento ciclico − è sia oggetto del linguaggio che dominatore di esso. La ripetizione del meccanismo, tuttavia, non permette mai una vera emancipazione, come dimostrano i rispettivi protagonisti Lenore Beadsman e Hal Incandenza. Entrambi sono, per aspetti differenti, vittime del linguaggio, o meglio, dell'impossibilità di un suo corretto utilizzo.
Il problema che affligge l'esistenza di Lenore non riguarda tanto il nominare gli oggetti, quanto il riuscire a contestualizzarli in base all'utilità che questi assumono in una particolare collocazione temporale: lei stessa non riesce a "dirsi" perché avverte i limiti della parola. C'è un preciso momento, però, in cui Lenore riesce a diventare reale, appropriandosi del linguaggio attraverso il rapporto con l'altro. In tale prospettiva, risulta emblematica l'ultima scena in cui la protagonista è al centro di una serie di sollecitazioni verbali alle quali volutamente non risponde: l'esonero dalla parola è l'unica scelta sensata che si può fare quando ci si accorge del fatto che il vero significato non può risiedere nell'alternarsi di un vociare scarno che non vuole niente se non il riempimento di uno spazio vuoto che, tuttavia, resta inevitabilmente tale. Lo step successivo è: giocare con il linguaggio.
Hal, uno dei personaggi principali di Infinite Jest, rappresenta il peso dell'incomunicabilità del linguaggio. Egli pensa razionalmente. Parla, ma nessuno riesce a capirlo, anche per via del fatto che le sue parole non sono armonicamente accordate con la gestualità del suo corpo. Il linguaggio, in lui, si spinge oltre i confini della normale attività cognitiva diventando, così, gioco. Il padre di Hal, J.O. Incandenza, è seriamente preoccupato per il figlio perché vede in lui i germi del processo degenerativo che lo porteranno a trasformarsi in una sorta di individuo-computer iperfunzionante, capace di immagazzinare un'enorme quantità di dati, di digerire le cose, di tradurre in termini matematici la realtà, di codificare le emozioni e di distaccarsi da queste, al punto da attuare strategie di difesa e meccanismi tesi alla completa disumanizzazione del sé. L'unico elemento che rende paradossalmente questo personaggio "ancora" umano è Bob Hope (designazione gergale della marijuana). Nel momento in cui Hal è costretto a cessarne l'assunzione, smette di essere macchina e inizia a interrogarsi in maniera esistenziale, anche in seguito ad attacchi di panico che lo colgono con sempre maggiore frequenza. Quando era, allo stesso tempo, macchina-funzionale ed essere umano riconosciuto dalla comunità per abilità fisiche ed intellettuali, nessuno si preoccupava del suo reale stato emotivo, della sua incapacità di provare sentimenti e del suo vivere algoritmico. Affrontando senza Sostanza (il termine che Wallace utilizza per indicare l'Oggetto di ogni dipendenza) l'accadere della vita, diventa per gli altri un animale non adatto alla parola, incapace di coordinare mimica e sentimento.
Nella prima scena di Infinite Jest, colpisce la riflessione di Hal che, dopo aver letto un cartello con la scritta EXIT, pensa che «per uno di madrelingua latina, le scritte EXIT apparirebbero come cartelli luminosi con su scritto EGLI ESCE»[2]: il personaggio è incastrato nelle pagine di un romanzo e lo confessa al lettore nell'incipit del racconto. L'autore lo ha incatenato al suo pensiero, fissandone i contorni su una pagina stampata; Hal, tuttavia, non vive soltanto nella testa di Wallace ma abita, di volta in volta, le teste dei lettori a cui cerca di spiegare il suo essere una «persona complessa»[3].
In definitiva, nella scrittura di Wallace, lo scrittore si presenta anche come essere umano, e questo appare in maniera evidente nell'introduzione dell'autore che si legge nel capitolo nono del romanzo postumo Il re pallido. Durante il laboratorio di scrittura creativa che Wallace tenne presso l'Università dell'Arizona nel 1987, disse ai suoi allievi: quando «scrivete [...] state raccontando una bugia. È un gioco, ma dovete presentare i fatti con precisione. Il lettore non vuole che gli si ricordi che tutto è finto»[4]. Eppure, in questa introduzione, Wallace si presenta ai lettori come «essere umano vivente con la matita in mano, non una persona narrativa astratta»[5]. Fornisce numero di previdenza sociale, domicilio e persino la data precisa e il momento del giorno in cui si trova a scrivere: è la presentazione di un "qui e ora" diverso rispetto a quello che un lettore può immaginare per un autore.
Wallace si avvicina al suo interlocutore invisibile per confessargli che tutto ciò che ha scritto è reale. L'autore non vuole più soltanto che il suo testo abbia un significato. Vuole essere creduto. E per far sì che questo accada, dismette i suoi panni e parla di se stesso. E in una catartica confessione ideale, svela i meccanismi psicologici che sono il fondamento di ogni sua azione, nonché le trappole a cui sottopone ogni persona che cerca di interagire con lui. Soltanto sulla base di questa rivelazione, il lettore può sentirsi partecipe dell'umanità di chi scrive. Nel rapporto autore/lettore c'è sempre uno spazio vuoto che deve essere riempito da parole nuove, in grado di sciogliere i significati.
In questo spazio Wallace dice al suo lettore: credimi.
"Credere" vuol dire accettare la sospensione del normale scorrere del tempo e chiedere un permesso speciale di libera uscita dal domicilio coatto dei propri pensieri verso l'asilo intellettuale nella testa di un altro, la cui mente è distante. Si tratta di abbandonarsi e di lasciarsi portare – mai però passivamente − dalle lettere stampate che si rincorrono sulle pagine, mentre si imbastisce la trama dei significati, con la sensazione fisica di un pugno in pancia ogni volta che si incontra la traduzione in parole di qualcosa di familiare, che, tuttavia, non si era mai riusciti a dire. Gli occhi scorrono alla ricerca di una frase che possa mettere fine al brusio di senso perso, allo smarrimento che si legge nei volti di chi abbiamo di fronte quando, con gli stessi gesti scoordinati di Hal Incandenza, cerchiamo di confessarci all'altro per cercare conforto o quando, iper-riflessivi come Lenore Beadsman, cerchiamo di capire che cosa stiamo facendo in quel particolare momento, in quel particolare posto, senza aver avuto alcuna volontà di determinazione, ma essendo sempre rimessi all'altro che, da fuori, guarda, giudica, tace, nomina. Riconoscere noi stessi nell'altro, esterno ed estraneo, senza alcuna possibilità di sciogliere il paradosso di una vita che è sempre relazione e mai singolarità.
David Foster Wallace moltiplica se stesso, per l’ultima volta, nel Re pallido, presentandosi come uomo, personaggio e scrittore. Questa pluralità gli ha permesso di non essere da solo in quel garage, perché le parole che − in quegli stessi istanti − qualcuno stava leggendo a migliaia di chilometri o a due isolati di distanza, con il libro stretto tra le mani o poggiato sulle ginocchia, sono il simbolo di una comunicazione. Una comunicazione che non si attua secondo i normali canoni di un colloquio, ma che non per questo si rivela meno efficace. La sospensione definitiva del tempo − poi − diventa una scelta. Non si tratta della banalità di un "non ce l'ha fatta", perché la vita non è una gara in cui vince chi riesce a mantenere un respiro regolare per più tempo possibile: la verità è che per Wallace noi tutti, certe volte, trabocchiamo di realtà. In quei momenti si può scegliere di sparire oppure si può prendere un foglio e scrivere, buttando fuori ciò che crea in noi squilibrio o disarmonia. Donare a chi legge una pluralità di sguardi, è il regalo più bello che si possa fare. E che noi possiamo ricevere. L'infinito non è altrove se si moltiplica lo spettro del reale.

NOTE

[1] D.T. Max, Ogni storia d'amore è una storia di fantasmi, trad. it. a cura di A. Mari, Einaudi, Torino 2013, p. 475.

[2] D.F. Wallace, Infinite Jest, trad. it. a cura di E. Nesi, Einaudi, Torino 2006, p. 10

[3] «Non sono una macchina. Sento e credo. Ho opinioni. Alcune sono interessanti. [...] Non sono solo un creātus, non sono stato prodotto, allenato, generato per una sola funzione» (ivi, p. 14).

[4] D.F. Wallace, Un antidoto contro la solitudine, trad. it. a cura di S. Antonelli, F. Pacifico, M. Testa, minimum fax, Roma 2013, p. 25.

[5] D.F. Wallace, Il re pallido, trad. it. a cura di G. Granato, Einaudi, Torino 2011, p. 87.

Fonte: MicroMega online - Il Rasoio di Occam

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