di Sussanna Ronconi
«La questione cruciale che l’Europa, oggi, ha di fronte non è se sia necessario o meno modernizzare le politiche sulla cannabis, ma quando e come farlo». Così Tom Blickman, ricercatore del Tni (Transnational Institute di Amsterdam), sintetizza il punto sul dibattito europeo attorno alla riforma del governo legislativo e politico di produzione e consumo di canapa nel suo intervento alla Summer School di Forum Droghe e Cnca svoltasi a Firenze il 3–5 settembre.
Blickman è attento studioso dei processi di cambiamento che a livello mondiale stanno imprimendo una accelerazione decisa alla riforma delle politiche delle droghe in materia di canapa, processo tanto significativo da aver portato, in modo irrituale, ad una anticipazione al 2016 della sessione globale di Ungass prevista per il 2019, su pressione di alcuni stati dell’America Latina che hanno imboccato la via della legalizzazione.
Non parlare del «se» regolamentare, ma del «come e quando» significa leggere un dato di realtà, quello della ormai evidente normalizzazione dell’uso di cannabis, non solo riferita al numero imponente di consumatori ma soprattutto a come questo consumo sia diventato, vissuto e percepito come un comportamento quotidiano, ordinario, socialmente e culturalmente accettato. Ciò che ormai oggi stride è la contraddizione tra questa natura sociale e culturale e un governo del fenomeno caparbiamente punizionista e patologizzante, che continua a produrre e riprodurre una fittizia e controproducente divisione tra paese che usa e paese che non usa sostanze. Nazioni come l’Uruguay e alcuni stati degli Usa hanno messo mano a questa contraddizione tra paese reale e paese legale, mentre l’Europa sembra in posizione di stallo.
L’Europa dei governi, però, non certo quella sociale né quella delle città. Che, anzi, sono in grande movimento. L’auto-organizzazione dei consumatori in forma di Cannabis Social Club (Csc), nati nelle maglie delle “zone grigie” delle legislazioni nazionali, si sta diffondendo: oltre alla realtà più ampia e diversificata della Spagna (700 club, di cui 350 in Catalogna, 250 a Barcellona, 75 nei Paesi Baschi), il fenomeno è in crescita in Belgio e in Svizzera, e “incubatori” sono attivi in Francia, Regno Unito, Italia, Repubblica Ceca, Slovenia, Bulgaria.
Ma “dal basso” premono anche le città e le regioni, l’“altro paese legale” che già aveva promosso il radicale cambiamento della riduzione del danno negli anni ’80–90’, spingendo su governi sordi e inerziali.
Le autorità locali si muovono con gli strumenti amministrativi che loro competono, e che pur con non pochi limiti, tuttavia consentono loro di innovare: per esempio, sui Csc Paesi Baschi e Catalogna stanno elaborando un quadro di regolazione, così come stanno facendo Ginevra, Zurigo, Berna e Basilea. Altre città puntano sul modello coffee shop olandese, dunque su un sistema di licenze che rendano legale fornire cannabis: ci stanno lavorando Copenhagen, e in Germania città importanti come Berlino, Brema, Colonia, Dusseldorf, Francoforte. E in filigrana tra questi progetti e sperimentazioni stanno già emergendo linee guida per modelli praticabili, sostenibili e “sicuri”. «La riforma delle politiche sulle droghe – afferma Blickman – è spesso bottom-up, come dimostra il successo della rete Ecdp (European Cities for Drug Policy) nel promuovere la riduzione del danno a livello locale e internazionale. Sulla canapa è tempo di lanciare un «Ecdp 2.0».
E in Italia? C’è qualche sindaco che batta un colpo?
Fonte: il manifesto
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