La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 16 settembre 2015

La Carta di Renzi, prendere o lasciare

di Andrea Fabozzi
«Sug­ge­ri­sco a tutti noi di fare ogni sforzo pos­si­bile affin­ché i temi più spi­nosi ven­gano affron­tati e risolti in com­mis­sione. Abbiamo capito che trat­tare diret­ta­mente in aula i nodi poli­ti­ca­mente più deli­cati pro­duce, fatal­mente, disor­dine poli­tico, con­fu­sione tra mag­gio­ranza e oppo­si­zione e, per di più, nes­sun risul­tato nel merito». Così scri­veva un mese fa ai suoi sena­tori il pre­si­dente del gruppo Pd Zanda, nell’annunciare i pro­po­siti per l’autunno. E pro­prio Zanda ieri ha chie­sto la con­vo­ca­zione della con­fe­renza dei capi­gruppo — anzi, secondo l’arrabbiatissimo pre­si­dente Grasso l’ha con­vo­cato diret­ta­mente per oggi seguendo l’ordine di palazzo Chigi — per deci­dere l’immediato pas­sag­gio in aula della legge di revi­sione costi­tu­zio­nale. Renzi ha deciso di andare alla conta sulla riforma: in com­mis­sione affari costi­tu­zio­nali non ha la mag­gio­ranza, e in teo­ria non l’avrebbe nean­che in aula sul senato non elet­tivo. In pra­tica sa di poter con­tare su un numero suf­fi­ciente di sena­tori for­zi­sti che uscendo dall’aula com­pen­se­ranno il dis­senso di qual­che cen­tri­sta e di quella parte della mino­ranza Pd che non si dis­sol­verà nel brac­cio di ferro.
L’annuncio dell’ok Cor­ral è stato pre­pa­rato da altri due strappi della mag­gio­ranza ren­ziana. Al mat­tino la mini­stra Boschi ha rispo­sto per l’ennesima volta no alle richie­ste dei ber­sa­niani e dei cuper­liani, sve­lando il bluff della mano tesa. La mino­ranza Pd ha allora abban­do­nato il «tavo­lino» di par­tito, otte­nendo in un colpo solo tre risul­tati, tutti nega­tivi. La sini­stra dem prima ha legit­ti­mato la trat­ta­tiva a porte chiuse sulla Costi­tu­zione, poi si è presa in carico la respon­sa­bi­lità della rot­tura e infine ha rico­no­sciuto che la legge di revi­sione costi­tu­zio­nale dovrà essere appro­vata dal senato entro metà otto­bre. Renzi ha colto al volo l’occasione, e ha spie­gato quello che era noto da mesi: non si può andare oltre l’avvio del dibat­tito sulla legge di sta­bi­lità (si potrebbe però rin­viare la riforma, ma nes­suno lo chiede), quindi basta per­dere tempo in commissione.
In com­mis­sione non si è discusso nean­che un emen­da­mento: la mon­ta­gna delle 510mila pro­po­ste di modi­fica eretta da Cal­de­roli è ancora lì a for­nire un’altra giu­sti­fi­ca­zione alle for­za­ture della mag­gio­ranza. Il pas­sag­gio diretto all’aula (ormai un clas­sico del governo Renzi, vedi Ita­li­cum) non com­porta grandi con­se­guenze tec­ni­che (la stessa pre­si­dente della prima com­mis­sione farà le fun­zioni di rela­trice) ma aumenta il caos visto che è la stessa mag­gio­ranza a rico­no­scere che alcune modi­fi­che devono essere fatte, e soprat­tutto anti­cipa la conta deci­siva. Nel pome­rig­gio di ieri è stata Anna Finoc­chiaro a dare la seconda prova della volontà di non fare pri­gio­nieri. La pre­si­dente della com­mis­sione infatti ha dichia­rato non ammis­si­bile la gran parte degli emen­da­menti — i più peri­co­losi per il governo — all’articolo 2 del dise­gno di legge di riforma, quello che riguarda la com­po­si­zione del futuro senato. Una deci­sione presa con un richiamo for­male al rego­la­mento di palazzo Madama che però tra­di­sce gli avver­ti­menti dei costi­tu­zio­na­li­sti ascol­tati in com­mis­sione, che ave­vano richia­mato lo spi­rito fino all’ultimo aperto della pro­ce­dura di revi­sione costi­tu­zio­nale. Ma quel che conta è che Finoc­chiaro ha preso la sua deci­sione senza con­sul­tare il pre­si­dente Grasso, che ripete da prima dell’estate che l’articolo 2 può essere ria­perto. Il ten­ta­tivo è quello di creare un pre­ce­dente e met­tere in imba­razzo il pre­si­dente, ma ormai i rap­porti tra Grasso e Renzi sono pre­ci­pi­tati. Lon­tani i tempi del primo pas­sag­gio al senato della legge di riforma, quando fu pro­prio il governo a chie­dere e otte­nere dal pre­si­dente uno strappo al rego­la­mento: l’introduzione di quel «can­guro» che servì a vin­cere l’ostruzionismo. Atti­vis­simo sulla riforma che ha bene­detto dal Qui­ri­nale, l’ex pre­si­dente della Repub­blica Napo­li­tano ha voluto fir­mare la deci­sione di Finoc­chiaro: «Al di fuori di que­sta scelta non vedo pos­si­bile un’intesa». Pic­colo par­ti­co­lare: nel ’93 da pre­si­dente della camera Napo­li­tano fece l’opposto e auto­rizzò la ria­per­tura di un arti­colo di legge costi­tu­zio­nale già votato in dop­pia con­forme.
Adesso si va dritti alla prova di forza, che fin qui Renzi ha sem­pre vinto avendo dalla sua il par­tito di chi si pre­oc­cupa prima di tutto per la durata della legi­sla­tura. Sta­volta però il mar­gine è dav­vero stretto, anche se non siamo ancora al pas­sag­gio della riforma in cui occor­rerà la mag­gio­ranza asso­luta. Per far qua­drare i conti il gruppo Pd deve impe­gnarsi in ogni genere di mano­vra, tipo far slit­tare il voto per l’autorizzazione a pro­ce­dere nei con­fronti di due sena­tori Ncd o pro­met­tere nuove modi­fi­che sui diritti civili. Sem­pre che non si avveri la pro­fe­zia di Zanda e lo strappo non pro­duca «nes­sun risul­tato nel merito».

Fonte: il manifesto 

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