di Laura Boldrini
Per intervenire nel dibattito assai interessante promosso dal manifesto parto da un dato che mi pare scomparso troppo rapidamente, quasi rimosso, dalla discussione politica degli ultimi mesi: il pesante calo dell’affluenza registrato alle ultime Regionali.
Sono percentuali che devono continuare a tenere in ansia tutti coloro che credono ad una concezione non formalistica della democrazia, ed in particolare la sinistra italiana che dei tassi di partecipazione elettorale tradizionalmente alti ha fatto per decenni, e giustamente, una sua bandiera.
A questo impoverimento della vita pubblica non ci si può rassegnare.
Né convince la spiegazione che vorrebbe spacciarlo come “allineamento alle dinamiche occidentali”. Serve invece un coinvolgimento pieno dei cittadini, dei corpi intermedi, delle rappresentanze associate. Credo si debba dare visibilità e rappresentanza politica alle forme di partecipazione vecchie e nuove, compreso quell’attivismo digitale capace di costruire campagne che arrivano a farsi sentire e ad incidere anche nelle stanze delle istituzioni.
Insieme ai dati elettorali, c’è un’altra percentuale che uso come chiave di analisi e di orientamento politico. E’ quella che ricorda Michele Ainis in un suo libro di qualche mese fa: «In Italia la diseguaglianza fra le classi sociali è cresciuta del 33% dopo gli anni Ottanta, contro una media Ocse del 12%. Insomma, il triplo». Una situazione così bloccata che «il 53% degli italiani rimane intrappolato nel suo ceto d’origine».
Vorrei che la sinistra italiana, nelle sue multiformi articolazioni, non dimenticasse mai queste poche cifre, e trovasse in esse una delle ragioni essenziali del necessario impegno comune.
Non ha nulla di novecentesco, il criterio delle diseguaglianze sociali: in forme nuove, mantiene una durissima centralità che la battaglie “anticasta” e “antiburocrazia” non devono offuscare. Ad una sinistra che sia consapevole dei propri valori e della loro attualità, si offre oggi un campo di azione potenzialmente persino più ampio che in passato.
Un campo di azione che — ormai lo stiamo comprendendo tutti — non può più avere i confini degli Stati nazionali. Il terreno sul quale la sinistra, anche italiana, deve dimostrare la sua vitalità è sempre più quello europeo.
Negli ultimi mesi ce lo hanno detto due vicende di portata epocale.
Da un lato la crisi greca, dove l’incontrovertibile fallimento dell’austerità messa in atto negli anni scorsi non è tuttavia bastato ad assicurare un’inversione nelle politiche economiche dell’Unione. L’Europa, questa Europa, non sa ancora assumere come metro di valutazione delle scelte finanziarie il loro impatto sociale, e continua a tenere al laccio di un rigore miope le esperienze nazionali più penalizzate dal modello “troika”.
Dall’altro la questione dei rifugiati, che sui libri di storia ricorderemo un giorno anche attraverso il commovente titolo “Niente asilo” con cui il manifesto ha reso omaggio al piccolo Aylan.
E’ evidente che nessuno Stato può rispondere da solo: serve una politica comune dei 28 Paesi, tale da consentire un’equa distribuzione di oneri e responsabilità. Ed è altrettanto chiaro che, sul filo spinato della frontiera ungherese, l’Europa si gioca una parte determinante della sua credibilità come terra dei diritti e delle libertà.
Per questo, alla domanda che fa Norma Rangeri nel “decalogo” che ha avviato questo dibattito — «l’idea degli Stati Uniti d’Europa ha ancora una forza trainante?» — rispondo con il sì più netto.
Se resta così com’è, l’Europa affonda tra la disaffezione dei cittadini e gli assalti propagandistici dei demagoghi. Ma tornare dentro gli Stati nazionali è anacronistico e illusorio.
Serve uno scatto deciso verso l’integrazione, verso un’unione federale di Stati in cui l’economia sia al servizio delle scelte politiche e dove la dimensione sociale assuma indispensabile centralità, se non vogliamo che le nostre democrazie collassino.
Su questi temi, così come sulle questioni della cittadinanza e delle unioni civili, mi pare che le varie anime della sinistra italiana abbiano più ragioni di dialogo e di azione comune che non di scontro.
Resto convinta, come ripeto da inizio legislatura, che sia innaturale la collocazione su fronti opposti di forze che hanno ideali e obiettivi largamente comuni. Dai territori, dalle esperienze fatte in importanti Comuni — a partire dalla Milano di Giuliano Pisapia, che ha svolto e svolge un ruolo di “ponte” essenziale anche a livello nazionale — viene una lezione che va messa a frutto innanzitutto nelle Amministrative della primavera prossima.
Fonte: il manifesto
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