di Leonardo Clausi
Nella savana di Westminster, ogni giorno Jeremy Corbyn si sveglia e comincia a correre per affrontare il suo «momento della verità» quotidiano. Quello cioè in cui, da vero eroe, partecipando a una delle infinite cerimonie ufficiali dov’è prevista la presenza del leader dell’opposizione di sua Maestà, deve piegarsi a una ritualità la cui abolizione, riforma o superamento erano tra le cause del suo ingresso in politica. Tale è il paradosso politico della storia presente del Labour party.
Ma Corbyn non va a queste cose, ci capita: con la cravatta rossa e la camicia frettolosamente abbottonata male un attimo prima, non sapendo esattamente dove andare o cosa fare, controllando i messaggi al telefono, come se fosse un pubblico osservatore e non sapesse di avere milioni di occhi, digitali e non, addosso.
Il risultato? Decisamente confortante. Invece del sacrificio umano-mediatico paventato dai centristi blairiani e auspicato dai Tories sghignazzanti, quella nota stonata nel concerto del potere ha un effetto demistificatorio enorme: è un disinnesco efficace dei dispositivi liturgici di una gerarchia sancita in un mondo che non è questo mondo, che scarica a terra tutta l’elettricità del cerimoniale in pompa magna e ne neutralizza la patina mitologica.
È successo questo al primo, vero momento della verità (o della falsità?), al quale lo aspettavano tutti con consueta impazienza: «capitato» nel consesso di dignitari tra cui il Primo ministro Cameron, il ministro della difesa Fallon e fior di generali, alla messa in suffragio degli eroici avieri della battaglia d’Inghilterra nella cattedrale di St. Paul, al momento topico in cui tutti intonano l’inno con ogni vibrante fibra del proprio patriottico essere Corbyn è rimasto – logicamente — muto.
Cos’altro poteva fare un ateo repubblicano internazionalista a cui tocca improvvisamente di cantare cose come «Dio salvi la nostra graziosa regina» o «I ribelli scozzesi da schiacciare» se non tacere, aspettando stoicamente che tutti gli saltassero alla giugulare? L’unico errore è stato forse l’annuncio del suo team che in futuro, ebbene, lo farà: canterà quella bella filastrocca, così saranno tutti contenti.
Non male per un ingenuo sognatore idealista. Ma il secondo, più importante momento della falsità è accaduto ieri alle dodici in punto alla Camera bassa.
Prime Minister’s questions, anche noto come Question time, è uno degli appuntamenti costituzionali più spettacolari del parlamentarismo inglese. Ogni mercoledì, a mezzogiorno, nella Camera dei Comuni, il Primo ministro è tenuto a rispondere alle domande dei colleghi deputati della sua maggioranza come dell’opposizione, ma soprattutto a quelle del leader del partito avversario.
Un coreografato botta e risposta su questioni del momento che spesso finisce in gazzarra (pur facendo tenerezza rispetto alle regolari risse di altre pregiate democrazie liberali).
Ed è anche il momento in cui la tenzone retorica fra i due contendenti deve raggiungere il massimo effetto, così da coinvolgere tutta l’aula e assegnando, in mezzo a un gran vociare e agli sghignazzi, ora a uno ora all’altro l’alloro della vittoria. Si tratta di uno degli appuntamenti più simbolici e tradizionali (risale alla fine dell’Ottocento) della vita parlamentare nazionale ed è regolarmente seguito da un pubblico di osservatori civili.
Memorialistica e saggistica se ne occupano avidamente, considerandolo uno dei luoghi sacri della democrazia occidentale, culla della retorica politica, di cui Churchill conquistò inarrivabili vette, come nel caso dei «pochi» eroici aviatori che sconfissero la Luftwaffe (nella narrativa dominante di ciascun paese, i pochi sono sempre destinati a guidare i molti).
Ma è naturalmente anche un succedaneo ufficiale e rispettabile dell’intrattenimento circense: un circo massimo dove vince il migliore perché è lui il migliore, non le cause che difende e gli obbiettivi che persegue. Anche perché, oggi, queste cause e obbiettivi sono pressoché identici a quelli dell’avversario. Un botta e risposta in cui conta rialzarsi dopo aver ricevuto un destro e cercare a propria volta di mandare l’avversario al tappeto. Insomma, è vicino alla realtà del paese quanto un member’s club può esserlo al sindacato.
Corbyn non è un fuoriclasse della politica. Ha spesso bisogno di leggere quando parla in pubblico. Non è istrionico. Ma, com’è stato detto e ripetuto, sono proprio queste le ragioni per le quali ha stravinto.
E dunque, assai giustamente, ha preferito non combattere lo stagionato Cameron sul suo adrenalinico terreno. Aveva annunciato di voler riformare Pmq, di volerne svuotare la teatralità fine a se stessa.
Per ora si è accontentato di rivolgere al capo del governo una serie di domande selezionate tra le decine di migliaia ricevute. E così Maria, Gail, Paul, Angela, Claire e Stephen si sono visti leggere le proprie richieste in diretta nel più importante luogo istituzionale del paese dal capo dell’opposizione.
Domande sulla crisi degli alloggi, sul taglio dello stato sociale, sull’assistenza a chi soffre di disturbi mentali. E David Cameron ha rispettosamente risposto, dimentico per una volta dell’istrionismo del proprio ruolo. Questa mancanza di spacconaggine fa onore al suo giudizio politico: sa di aver di fronte un ex-outsider che deve ancora imparare l’alfabeto del potere, che è in crisi con i moderati del suo partito su questioni chiave come la permanenza in Europa della Gran Bretagna, la sua partecipazione alla Nato e la sua riserva nucleare. Ma sa anche, e soprattutto, che negli ultimi tre giorni a quel partito si sono iscritte trentamila persone a passo di corsa.
Fonte: Il manifesto
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